Il caso Erostrato: l’insostenibile pesantezza dei processi indiziari (seconda parte)

Articolo scritto a sei mani da Alessandra, Laura e Sashinka, a prosieguo del precedente


Le ragioni del peso

“Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. (…) La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. (Italo Calvino, Lezioni americane)

Quando, nel 1984, Italo Calvino ricevette dall’Università di Harvard un invito a tenere un ciclo di conferenze, predispose una serie di lezioni, confluite in un’opera postuma intitolata “Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio”.
Nella prima lezione, ebbe modo di soffermarsi approfonditamente sul binomio leggerezza-peso, ed è proprio dalle sue parole che ho scelto di trarre spunto per introdurre la seconda parte dell’articolo.
D’altro canto, dopo aver cercato, nella prima parte, di cominciare a mostrare come abbandonarsi all’ormai perduto piacere della lettura debba considerarsi una nota di merito e non certo un reato né un indizio, recuperare la vecchia abitudine di introdurre gli articoli con un’opera letteraria mi è sembrato doveroso.
La scelta dell’opera non è stata casuale, in quanto il tema si collega al titolo dell’articolo, che fa riferimento, riecheggiando un celebre romanzo di Kundera, all’insostenibile pesantezza dei processi indiziari.
Nel corso di questa seconda parte dell’articolo, cercherò di mostrarvi a più riprese, e sotto svariati punti di vista, cosa abbia voluto intendere con insostenibile pesantezza dei processi indiziari.

Per il momento, è sufficiente notare che, se nel cominciare la sua prima conferenza Calvino affermava di aver più cose da dire sulla leggerezza, io ho scelto -giocoforza- di fare l’esatto opposto e porre l’accento sul peso.
Nella vicenda in esame, infatti, per quanto ci si sforzi, non è possibile trovare nulla che rimandi al concetto di leggerezza, neppure in quella che appare come una plateale vaghezza del presunto quadro indiziario a carico dei due imputati.
È lo stesso Calvino, d’altronde, ad avvertirci del fatto che la vaghezza, ciò che è impreciso e indeterminato, ricade a pieno titolo nel regno del peso, non in quello della leggerezza: e per questa ragione, al peso della vaghezza sarà dedicato il prossimo paragrafo.
E d’altro canto, trasponendo il concetto nell’ambito di questa vicenda giudiziaria, è difficile dargli torto: il peso di elementi vaghi si ripercuote su indagati e imputati, finendo per gravare sugli stessi come un macigno.

Sul punto, ritengo valga la pena di indugiare in una piccola riflessione.
Da sempre il blog Colonna Infame ha avuto tra i suoi obiettivi quello di contribuire ad abbattere alcuni “miti”, spesso dannosi o comunque fuorvianti, che circondano la trattazione di molti casi di cronaca giudiziaria.
Tali miti sono usualmente riassumibili in slogan, tanto d’effetto quanto concretamente vuoti.
Su uno di questi usuali slogan fuorvianti (“se li hanno condannati qualcosa avranno fatto”) ho avuto modo di soffermarmi nella prima parte dell’articolo.
Ora, vorrei spendere qualche parola ulteriore su un mito sensibilmente diverso, ma almeno altrettanto dannoso: l’idea che in presenza di un quadro indiziario debole, lacunoso, o finanche fondato su suggestioni piuttosto che su autentici elementi indiziari, difendersi sia semplice.
Certamente, nel nostro ordinamento sono stati introdotti una serie di principi, regole e paradigmi, tra i quali la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio accolta dal nostro codice di rito, ma anche una serie di principi di diritto sostanziale a monte, volti a fungere da correttivo e da meccanismo di superamento di criteri intuizionistici, basati su opinioni personali, stereotipi o suggestioni, che potrebbero condurre alla condanna dell’innocente.
Tuttavia, la realtà dei fatti si rivela spesso ben più prosaica di quella illustrata dai principi che permeano i codici, che talvolta finiscono per restare concretamente lettera morta.
Spostandosi dal piano dei principi a quello della realtà, è un dato di fatto, osservato già alcuni secoli fa da Feuerbach in relazione ai processi per stregoneria, che quanto più le accuse sono vaghe, lacunose, fantasiose e, in sostanza, impossibili da dimostrare, tanto più risulta difficile difendersi. [1]
E sebbene in alcuni casi, per fortuna, arrivi -sia pure tardivamente- il proverbiale “giudice a Berlino” a bacchettare ricostruzioni infondate, ma accolte dai tribunali, come recentemente accaduto per un caso che citammo, anni fa, anche su Colonna Infame [2], l’aleatorietà insita nei processi indiziari rende necessario non soprassedere e, soprattutto, non tacere.
In definitiva, il titolo di questo ciclo di articoli sul caso Erostrato vuole essere un memorandum, ma anche un implicito omaggio a chiunque quel peso insostenibile si sia trovato o si trovi a portarlo sulle spalle.
Perché in quel peso, che per i più diviene motivo di derisione, di linciaggio, di invocazioni della forca, io, dopo tanto tempo passato a studiare casi di errori giudiziari e con occhi ormai disillusi, vedo solo il peso di una persistente inciviltà che finisce per gravare sui malcapitati di turno.

D’altro canto, è stata proprio la presa di coscienza di questo peso ad avermi spinta a riprendere in mano questo blog, a riaffacciarmi qui dopo tanti anni di assenza, cosa non semplice, e non solo per il legame affettivo che, nonostante tutto, conservo nei confronti di queste pagine, che hanno rappresentato nel bene e nel male un tassello della mia vita, ma anche per la consapevolezza dei cambiamenti che, specie negli ultimi anni, hanno interessato la comunicazione, rendendola sempre più distante, sempre più iper-semplificata (tipico l’esempio dei meme) e, di conseguenza, sempre più snaturata dal suo autentico significato di “mettere in comune” informazioni.
Questi cambiamenti, in un primo momento, mi hanno portata a chiedermi se avesse ancora senso scrivere in questo blog, impegnarmi nella stesura di un articolo che fosse frutto di ricerche, riflessioni, argomentazioni.
Tuttavia, sono giunta alla conclusione che questo modo di comunicare, attraverso articoli lunghi, ragionati, perfino sofferti, costituisca in qualche modo un antidoto a quelle semplificazioni logiche e argomentative che spesso connotano l’informazione e, per quanto concerne i temi affrontati in questo blog, la cronaca giudiziaria.

Nella prima parte dell’articolo, ho cercato di documentare come nella vicenda giudiziaria in esame, relativa al mitomane Erostrato, il quadro indiziario a carico dei due imputati, i Sig. Nemesio e Samuele Aquini, sembri basarsi su una serie di piccole suggestioni che, unite tra loro, hanno generato l’impressione infondata di poter essere assurte a indizi.
Nello specifico, mi sono soffermata su una serie di anomalie che, a mio parere, avrebbero reso fisicamente impossibile ai due imputati commettere gli atti loro attribuiti, sul fatto che il quadro indiziario sembri essere stato oggetto di un “taglia e cuci” volto ad eliminare gli atti, pure rivendicati dal mitomane, palesemente non riconducibili ai due imputati (vedasi paragrafo relativo agli incendi) e, infine, sulla natura non indiziaria ma meramente suggestiva, in quanto intrinsecamente contraddittoria e priva di qualsivoglia univocità, di uno degli elementi che hanno portato agli Aquini.
In questa seconda parte, mantenendo la precedente promessa, avrò modo di soffermarmi su altri elementi che considero sintomatici del fatto che ci troviamo di fronte ad un errore giudiziario.

Fumo negli occhi: il peso della vaghezza

Quando nella prima parte dell’articolo, nell’introdurre la vicenda relativa a Erostrato, ho osservato che al giorno d’oggi “letteralmente chiunque può senza troppa fatica mettere insieme una serie di riferimenti apparentemente dotti che tuttavia, ad una più attenta analisi, si rivelano fumo negli occhi, nulla più che una sorta di artifizio per attirare l’attenzione”, non mi sono lasciata andare ad una osservazione casuale: sapevo già, infatti, che avrei successivamente sviluppato il tema, e non a caso, tra le mie precedenti promesse per questa seconda parte, figurava anche quella di motivare la risposta negativa che siamo giunte a dare a una domanda: Erostrato è, come gli Aquini, un lettore?

A questo punto, condivido con voi un aneddoto relativo alla stesura di questo articolo.
Quando, ormai più di un mese fa, dissi a Laura e Sashinka che avrei voluto scrivere sul caso Erostrato e loro decisero di contribuire, elaborai una scaletta in base alla quale avremmo dovuto procedere.
Durante una prima fase, avremmo dovuto reperire tutto il materiale possibile relativo alla vicenda, confrontare le diverse fonti e, qualora da questo confronto fossero sopraggiunte idee, argomentazioni e ipotesi interessanti, svolgere ulteriori ricerche per verificarne la fondatezza.
Una seconda fase del nostro lavoro, prima della stesura dell’articolo, avrebbe invece dovuto vedere Laura e Sashinka nei panni di due ostinate accusatrici: in buona sostanza, la scaletta prevedeva che, una volta reperito tutto il materiale utile sia a ricostruire la vicenda sia a presentare ipotesi alternative o confutazioni, Laura e Sashinka dovessero cercare in ogni modo possibile di persuadermi della colpevolezza dei due imputati.
L’obiettivo era quello di mettere alla prova la robustezza della mia convinzione in merito all’estraneità ai fatti degli Aquini, ma anche di consentirmi di verificare se e fino a che punto fossi in grado di sostenere la mia tesi, verificandone così punti di forza e di debolezza.
Questa seconda fase, tuttavia, concretamente non c’è stata.
Non perché Laura e Sashinka si siano tirate indietro di fronte al -sia pure ingrato- compito, bensì perché, nel confrontarsi sul materiale raccolto, si sono rese conto che troppe e troppo evidenti risultavano essere le anomalie e le contraddizioni per riuscire a sostenere seriamente che i due imputati fossero Erostrato.
Ho deciso di raccontarvi questo aneddoto ora in quanto le contraddizioni che cercherò di mostrarvi in questo paragrafo sono tra quelle che hanno contribuito a rendere concretamente inattuabile la seconda fase della nostra scaletta.

Deve essere premesso, anzitutto, che nelle perquisizioni effettuate nell’abitazione degli Aquini non è emerso nulla di autenticamente rilevante.
In particolare, non sono stati trovati una serie di elementi che, invece, ci si sarebbe aspettati di trovare a casa di Erostrato.
Nello specifico, non è stata trovata la vernice usata per i murales, non è stato trovato il pennarello con il quale sono state scritte le lettere, non è stato trovato il manganato di potassio tirato in ballo nelle stesse missive di Erostrato.
Di contro, deve essere parimenti premesso che da tali perquisizioni sono emersi elementi, non autenticamente indizianti, che si sono rivelati in qualche modo utili a tenere in piedi il mal assortito castello di suggestioni, intrinsecamente contraddittorio, sul quale ergere ancora una volta una “colonna infame”.
Tra gli elementi in questione, naturalmente, qualcosa che non poteva mancare in una casa di accaniti lettori come gli Aquini: libri.
Certo, non posso fare a meno di dirlo, è un vero peccato che tra i libri non ne sia stato trovato almeno uno relativo ai metodi per sviluppare il potere della levitazione o quello del teletrasporto, che quantomeno spiegherebbe come Samuele abbia potuto realizzare murales incompatibili con la sua statura o collocati in località tutt’altro che agevolmente raggiungibili a piedi.

Al di là di ogni possibile battuta che -ci tengo a precisarlo- è tutt’altro che mossa da reale ironia, in quanto questa è una vicenda che, per una serie di ragioni che spiegherò meglio nel paragrafo seguente, non può che suscitarmi una profonda tristezza, è giunto il momento di soffermarci sui libri effettivamente trovati e sequestrati in casa degli Aquini.
Uno lo ho già menzionato nel paragrafo conclusivo della prima parte dell’articolo: si tratta di “Hitler e il nazismo magico”, un’opera molto nota del politologo Giorgio Galli.
Come ho già avuto modo di spiegare, quel libro, probabilmente ritenuto “sospetto” in considerazione delle simpatie neonaziste manifestate da Erostrato in lettere e murales, non solo si rivela piuttosto inadatto a sostenere la tesi del “neonazismo” (non si può certo sostenere che il Prof. Galli avesse una qualche simpatia per il nazismo), ma porta addirittura a ravvisare un indizio di innocenza a favore degli Aquini: infatti, contiene al suo interno per ben 106 volte la parola “Führer”, di cui Erostrato sbaglia ripetutamente la grafia.

Un secondo libro sequestrato, sul quale è giunto il momento di spendere qualche parola, è il Mein Kampf di Adolf Hitler.
Sul punto, è necessario premettere che si tratta di un libro presente in tantissime collezioni private.
In una intervista, il Sig. Nemesio disse, in risposta ad una domanda in merito, che nella sua abitazione vi erano, allo stesso modo, tantissimi altri libri, di autori di destra, di sinistra e, in ogni caso, non legati a una specifica ideologia.
In buona sostanza, ciò che cerco di mostrare è che trovare dei libri in casa di persone che frequentano la biblioteca, e che in generale amano leggere, non deve essere poi un’impresa tanto ardua e di certo non può considerarsi un indizio.
Ci sono però alcuni punti ulteriori, relativamente al Mein Kampf, sui quali ritengo sia doverosa una riflessione, in quanto ritengo che vi sia almeno un elemento che spinge a ritenere che Erostrato non abbia letto il Mein Kampf.
Anzitutto, deve essere segnalato che il libro in questione, specialmente in anni recenti, è stato oggetto di un numero di acquisti notevole, tanto che la circostanza è stata ripetutamente oggetto di articoli giornalistici, che si sono interrogati sul perché di questo crescente interesse per il Mein Kampf: peraltro, le medesime inchieste giornalistiche, spesso condotte “da sinistra”, hanno mostrato che spesso questo libro viene acquistato non già da estimatori del nazionalsocialismo, bensì da clienti interessati in generale a temi storici e politici, del tutto distanti da ideologie reazionarie (fonte: https://left.it/2017/01/03/mein-kampf-bestseller-2016-fascismo/).



In buona sostanza, deve essere evidenziato sin da ora come ritenere elemento indiziante il possesso del Mein Kampf si riveli intrinsecamente illogico, per almeno due ragioni.
La prima è che possedere una copia del Mein Kampf di per sé non dimostra simpatie neonaziste.
La seconda è che il fatto che una persona possa avere simpatie neonaziste non dimostrerebbe comunque, di per sé, che tale persona sia Erostrato.
Ho voluto fare un piccolo cenno a questi due passaggi, anche a titolo esemplificativo, per una ragione specifica: mentre mi informavo su questa vicenda, infatti, ho avuto ripetutamente la sensazione che l’intero castello accusatorio contro gli Aquini non si regga su deduzioni logicamente concatenate e in grado di rafforzarsi vicendevolmente, bensì su deduzioni di per sé infondate sulle quali si innestano ulteriori deduzioni a propria volta infondate.
Ho scelto di porre l’accento sulla parola deduzioni non casualmente, in quanto tale metodo, in sede di accertamento processual-penalistico, non porta a nulla di buono e, in particolare, spalanca le porte all’intuizionismo giudiziale.

Ora, però, vorrei mostrarvi una terza ragione che mi spinge a ritenere non solo che l’elemento in questione sia illogico, ma anche che si riveli incompatibile con l’idea che gli Aquini siano Erostrato.
L’elemento che ha attirato più di ogni altro la mia attenzione, infatti, è legato a un particolare contenuto degli scritti di Erostrato, di cui, a questo punto, non posso che reinserire l’immagine, invitandovi a leggere con attenzione: vedete anche voi qualcosa che vi fa pensare che Erostrato non abbia letto il Mein Kampf?



Come potete vedere, in questo scritto Erostrato, oltre a sbagliare la grafia della parola “Führer”, la qual cosa di per sé spinge a dubitare che il vero Erostrato legga effettivamente libri sul nazionalsocialismo, cita tra i suoi ispiratori anche Salvatore Meloni.
Per chi non lo sapesse, Salvatore Meloni, meglio noto come Doddore Meloni, è stato un indipendentista sardo, deceduto nel carcere di Uta il 5 luglio del 2017, ossia pochi giorni prima che Erostrato facesse la sua comparsa.
La sua morte, avvenuta in condizioni sulle quali sorvolo per carità di patria, fu oggetto di notevole attenzione mediatica in quel periodo, ma su questa coincidenza cronologica tornerò in seguito.
Per il momento, ciò che mi preme sottolineare è che citare un indipendentista accanto ad Adolf Hitler sarebbe, per qualsiasi persona che abbia letto il Mein Kampf, una macroscopica contraddizione.
Infatti, se anche un bravo studente liceale sa che pressoché tutti i regimi politici di ispirazione fascista del XX secolo hanno represso ogni spinta e rivendicazione autonomista, chiunque abbia letto il Mein Kampf sa, in aggiunta, che proprio in quel libro vi è un capitolo piuttosto aggressivo contro le istanze separatiste (parte II, capitolo X, La Falsità del Federalismo).

Ora, dunque , vorrei approfondire e portare alle estreme conseguenze quanto appena visto con riferimento ai vari elementi che depongono per il fatto che Erostrato non abbia letto né il Mein Kampf né altri libri sul nazionalsocialismo.
Infatti, mentre osservavo le incongruenze già esposte, pian piano nella mia mente cominciava a far capolino qualche domanda: siamo davvero sicuri che Erostrato sia un lettore?
È possibile che Erostrato non legga proprio un bel nulla?
È possibile che perfino le citazioni che riporta nelle sue lettere non siano frutto della lettura di libri, ma siano state reperite altrove, ad esempio sul Web o su vari organi di informazioni e messe insieme al solo fine di attirare l’attenzione e/o confondere, magari perfino ignorandone il reale significato?

E per quanto chiedersi se un mitomane che infarcisce le sue lettere di citazioni tratte da opere letterarie possa non essere affatto un lettore possa apparire, a primo impatto, quasi un’insolenza, ad una più attenta analisi si rivela tutt’altro che una domanda peregrina.
Devo premettere, sul punto, di essermi posta questa domanda anche per deformazione professionale.
Infatti, avendo lavorato in passato nel settore delle investigazioni private e delle indagini difensive, ho avuto modo di leggere decine, se non centinaia, di lettere di mitomani, e posso affermare che questo genere di lettere è usualmente infarcito di citazioni di libri e/o riferimenti religiosi, specie a tema apocalittico.
Di conseguenza, le tante citazioni presenti nelle lettere di Erostrato e lo stesso riferimento al “katechon”, sin dall’inizio, mi hanno impressionata davvero poco.

In ogni caso, quando cominciai a ragionare sulla questione, il primo elemento a catturare la mia attenzione fu la citazione tratta dalla favola di Fedro “La volpe e la maschera tragica”, ossia la frase “sed cerebrum non habet” (“ma non ha il cervello”), in quanto mi resi conto del fatto che l’originale favola di Fedro non contiene il “sed” (“ma”), anche se lo sottintende.
Nell’immagine potete osservare la lettera di Erostrato (in cui ho cerchiato il “sed”).


Nell’immagine seguente vi propongo invece il testo originale della favola di Fedro “La volpe e la maschera tragica” che, come potete vedere, non contiene il “sed”, mentre la traduzione italiana richiede necessariamente il “ma” (fonte: https://docu.plus/it/doc/latino/fedro-favole-traduzione-dal-latino/34906/view/).



Infatti, dal momento che a differenza del Latino in Italiano non avrebbe senso rendere una proposizione avversativa senza il “ma”, spesso questa frase di Fedro viene riportata nel contesto di articoli in Italiano con il “sed”, pur non contenendolo nel testo originale.
A questo punto, riuscivo a trovare due possibili spiegazioni alla presenza del “sed” nella lettera di Erostrato.
La prima era la possibilità che Erostrato non conoscesse o comunque non avesse letto la favola di Fedro originale ma avesse trovato la citazione in qualche articolo o scritto in Italiano: una possibilità tutt’altro che remota, trattandosi di una citazione piuttosto celebre.
La seconda possibilità, diametralmente opposta, era che Erostrato fosse invece piuttosto preparato e, pur conoscendo o potendo conoscere la favola originale di Fedro, “masticasse” sia il Latino sia la grammatica italiana a sufficienza per sapere che, inserendo una tale citazione all’interno di un testo in Italiano e rivolto a lettori italiani, con il “sed” sarebbe stata più incisiva.
Sebbene questa seconda ipotesi, relativa alla particolare cultura di Erostrato, mi sembrasse contrastante con alcuni errori ortografici (non solo la parola “Führer” è oggetto di ripetuti errori ortografici, ma anche la parola “Barbie” in una delle lettere di Erostrato è erroneamente scritta “Barbi”, come potete osservare nell’immagine successiva), non riuscivo ancora ad escluderla completamente.


Dunque, non l’ho esclusa fin quando non mi sono resa conto di un errore, stavolta sesquipedale, relativo ad una ulteriore citazione tratta da un’opera classica, e nello specifico dall’Eneide di Virgilio.
Per aiutarvi a comprendere meglio la questione, inserisco ancora una volta l’immagine della lettera di Erostrato contenente le parole “infandum renovare dolorem”, tratte dall’Eneide.



In merito a questa citazione, va detto anzitutto che la frase integrale presente nell’opera di Virgilio è “Infandum, regina, iubes renovare dolorem“, ovvero, letteralmente, “(mi) comandi, regina, di rinnovare un indicibile dolore”: sono le parole, celeberrime, con le quali Enea comincia, su richiesta di Didone, a raccontare della caduta di Troia.
Il problema della citazione nel modo in cui viene riportata di Erostrato è che, grammaticalmente, è priva di senso: passi, infatti, eliminare dalla citazione il vocativo “regina”, ma omettere il verbo reggente (“iubes”) fa sì che la frase, pur riconoscibile, non abbia senso compiuto, come non avrebbe senso compiuto qualsiasi subordinata in assenza della reggente.
Ora, non è certo questa la sede per scendere nel dettaglio dell’analisi grammaticale e logica della locuzione presente nell’Eneide, ma per chi, conoscendo un po’ il Latino, volesse capire meglio cosa intendo o avere un riferimento grafico, inserisco nell’immagine di seguito una analisi grammaticale, logica e del periodo della frase in esame.



Come si può constatare dagli esempi riportati, dunque, non solo risulta insostenibile che Erostrato abbia alle spalle particolari letture sul nazionalsocialismo, ma risulta piuttosto fondato il sospetto che non abbia alle spalle letture di alcun tipo: un elemento, ancora una volta, in netto contrasto con il profilo dei due imputati.

Ma, a questo punto, vorrei soffermarmi su una circostanza ulteriore: se Erostrato non è un lettore, non legge libri, non conosce neppure i libri che cita, da dove potrebbe aver tratto spunto?
Dare una risposta a questa domanda non è semplice o, per meglio dire, non è semplice dare a questa domanda una risposta univoca.
Certamente, nel mare magnum della Rete, chiunque può ormai agevolmente reperire e mettere insieme una serie di citazioni, ottenendo non solo il risultato di attirare l’attenzione, probabilmente ricercato sin dall’inizio e conseguito, ma anche quello di fuorviare chi indaga, probabilmente non ricercato ma -alla luce di quanto osservato in questo ciclo di articoli- comunque tristemente conseguito, a scapito di Samuele e Nemesio Aquini.

Tuttavia, prima di chiudere la trattazione di questo argomento, vorrei suggerire una ulteriore possibilità, ossia quella che Erostrato, anche per le citazioni, abbia tratto spunto e messo insieme una serie di elementi carpiti dai mass media, e specificamente da giornali e telegiornali del tempo: per quanto questa idea possa sembrare bizzarra, infatti, è non solo del tutto possibile, ma anche -in considerazione di una serie di elementi- probabile.
L’idea di una simile possibilità è nata, sostanzialmente, da alcuni elementi.
Il primo è il riferimento a Salvatore Meloni, la cui morte, avvenuta non molti giorni prima della comparsa di Erostrato, fu oggetto di una certa attenzione mediatica.
Il secondo è il riferimento, presente in vari scritti di Erostrato, ad Anders Breivik, che fu parimenti oggetto di articoli giornalistici e servizi televisivi in quel periodo, non solo perché nell’estate del 2017 ricorreva il sesto anniversario della strage di Utoya, ma anche perché un suo ricorso venne rigettato dalla Corte Suprema norvegese (fonte: https://www.repubblica.it/esteri/2017/06/08/news/breivik_utoya_corte_europea_diritti_umani-167576967/).

C’è anche un ulteriore elemento che depone fortemente per il fatto che Erostrato avesse letto o ascoltato delle notizie relative ad Anders Breivik.
Infatti, se è vero (e non ho motivo per dubitarne) quanto riportato nel libro di Gigi Sosso “Erostrato: caramelle (con gli spilli) da uno sconosciuto” in merito al fatto che nel murales dietro il cimitero di Cesiomaggiore comparisse, tra l’altro, la frase “gloria al solo Dio dei gentili”, che precede immediatamente un’apologia di Breivik, quella frase diventa molto più chiara se valutata alla luce di alcune notizie su Breivik circolate anche in quel periodo.
Infatti Breivik, che all’epoca della strage di Utoya si definiva integralista cristiano, ha successivamente dichiarato di aver abbracciato il culto di Odino, oltre ad aver rilasciato una serie di dichiarazioni nelle quali ha definito il Cristianesimo e Cristo “patetici”.
Naturalmente, tengo a precisare che questa osservazione non ha certo lo scopo di associare gli atti di Breivik a una qualche idea religiosa, sia essa cristiana o pagana, trattandosi di una attitudine che, come avrò modo di spiegare meglio in seguito, mi ripugna: sarebbe infatti del tutto pretestuoso usare i gesti di un folle per screditare qualsivoglia credo religioso.
Ho però ritenuto opportuno segnalare questa circostanza perché penso che la copertura mediatica di questa notizia aiuti a spiegare alcuni riferimenti che compaiono negli scritti di Erostrato, guarda caso affiancati a riferimenti espliciti a Breivik.
Nell’immagine seguente, ecco uno dei tanti titoli relativi a questa notizia (se volete leggere la notizia integrale, cliccate sul link: https://www.affaritaliani.it/esteri/norvegia-breivik-non-sono-piu–cristiano-mio-dio-e–odino-393618.html).



La cosa davvero interessante, inoltre, è che questa notizia fu ripresa più volte in seguito, con riferimenti più o meno ampi, anche in articoli cronologicamente più vicini agli atti di Erostrato che menzionano tale “conversione” di Breivik (a titolo d’esempio: https://www.repubblica.it/esteri/2017/03/01/news/norvegia_corte_d_appello_in_carcere_breivik_non_e_trattato_in_modo_disumano-159503628/).
Ora, sebbene i pochi mezzi a disposizione purtroppo non mi consentano di verificarlo con certezza, suppongo altresì che non sia da escludere che la medesima circostanza, oltre che sulla carta stampata, sia stata menzionata in quel periodo anche in sede radio-televisiva, rendendo ulteriormente ampia la platea delle possibili fonti dalle quali Erostrato potrebbe aver preso ispirazione.
Ciò che, invece, mi preme sin da ora sottolineare è che la frase “gloria al solo Dio dei gentili” non sia certamente riconducibile alla passione di Samuele Aquini per libri di esoterismo ed occultismo.
Non solo perché palesemente legata a questo filone di notizie su Anders Breivik, a cui Erostrato fa continui ed espliciti riferimenti, non solo perché Samuele, proprio in quanto appassionato di esoterismo non può non sapere che la frase in questione non ha alcun senso, in quanto i Gentili non avevano un “solo Dio”, ma anche perché, come vedremo nel prossimo paragrafo, la passione di Samuele per l’esoterismo è a propria volta sia una delle tante suggestioni che accompagnano questa vicenda sia uno degli elementi che contribuiscono a rendere ancora più opprimente e tangibile il fumus di errore giudiziario.

Gli spunti che Erostrato potrebbe aver tratto da semplici notizie di cronaca per riempire i suoi scritti di riferimenti, inoltre, potrebbero non fermarsi alle notizie su Salvatore Meloni e Breivik.
Infatti, sebbene per ragioni di spazio sia impensabile riportare qui ogni possibile riferimento comparso sui media all’epoca, vi è qualche “coincidenza” che ritengo meriti menzione.
A titolo d’esempio, nel giugno del 2017 ricorreva il settantesimo anniversario della pubblicazione del libro “La Peste” di Camus, e della circostanza fu dato atto da alcune testate giornalistiche nazionali (ne riporto uno, a mero titolo esemplificativo: https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/12/la-peste-di-camus-a-70-anni-dalla-pubblicazione-un-romanzo-che-cambia-la-vita/3654395/).
Inoltre, nello stesso periodo, diverse testate giornalistiche diedero notizia di una nuova traduzione del celebre romanzo di Camus .
Ancora, nell’estate 2017, su Il Venerdì di Repubblica fu pubblicato un articolo/recensione a firma di Corrado Augias in cui si cita la frase dell’Eneide che compare in una delle lettere di Erostrato.



Perfino il Miles Gloriosus di Plauto venne menzionato nell’estate del 2017 in un articolo del Corriere sui vanitosi (fonte: https://www.corriere.it/sette/17_agosto_31/vanita-social-network-d687c20c-8c17-11e7-b9bf-f9bee7e83ed2.shtml).
Questi ultimi esempi, a differenza di quello relativo a Breivik, non mirano ad essere esaustivi e non hanno lo scopo di dimostrare che Erostrato abbia certamente preso spunto, per le citazioni letterarie, da articoli giornalistici di quel periodo.
Ciò che, tuttavia, ho voluto provare mostrare una volta in più con questi esempi, è che non è necessario essere lettori o amanti dei libri per citare libri: se si desidera attirare l’attenzione infarcendo di citazioni letterarie le proprie comunicazioni, non solo è sufficiente una comunissima connessione ad Internet, ma anche la semplice lettura dei quotidiani può fornire ampi spunti relativi alle opere di cui cercare sul Web le citazioni.
E se non è -e probabilmente non sarà mai- possibile determinare con assoluta certezza quali siano state le reali “fonti” di Erostrato (quotidiani, televisione, radio, Internet), spero di aver contribuito a mostrare quanto tali fonti possano essere variegate e, soprattutto, ben più accessibili a chiunque rispetto alla lettura di libri.

Questa vicenda giudiziaria, però, non si è fermata alla -pur discutibile- contestazione delle letture: anche la scrittura, infatti, è stata a propria volta resa “indizio”, ancorché non sia dato comprendere bene di cosa.
A seguito della prima perquisizione, infatti, vengono installate nell’abitazione degli Aquini delle cimici.
In forza di quanto emerge dall’ascolto delle conversazioni così registrate, si arriva a una seconda perquisizione con il sequestro di un ulteriore elemento divenuto oggetto di dibattimento.
A questo punto, vi chiederete cosa sia emerso di così scabroso.
In realtà, ma forse lo avrete già intuito, si tratta di una ennesima suggestione priva di qualsivoglia reale valore indiziante.
Infatti, dopo aver appreso di essere indagato, il Sig. Nemesio comincia a scrivere un libro, contenente una sua autobiografia romanzata, nella quale ad un certo punto egli incontra il soggetto poi divenuto Erostrato, di cui parimenti viene proposta una biografia, intuibilmente inventata.
È in questo modo che anche un innocente tentativo di ingannare il tempo, o magari di gestire i troppi pensieri vertenti sulla vicenda (d’altronde, non deve essere semplice pensare ad altro quando la propria vita viene sconvolta da situazioni di questo genere), diviene non solo parte del “quadro indiziario” ma perfino oggetto di perizia psichiatrica.
Ma che senso può avere sottoporre a perizia psichiatrica un testo di fantasia? Cosa emergerebbe da qualsiasi romanzo sottoposto a perizia psichiatrica, specie laddove sull’autore gravi il sospetto di essere responsabile di un reato?
Va sottolineato, a conferma della natura -ancora una volta- di mera suggestione di tale elemento, che non appena ci si discosti da ciò che può apparire suggestivo e si cerchi un appiglio che sia oggettivamente, incontrovertibilmente idoneo a mostrare un legame tra gli Aquini ed Erostrato, ecco che ci si scontra con una scomoda ma chiara evidenza: tale appiglio non esiste.
Nel caso di specie, al di là dei racconti di fantasia in essa contenuti, la carta dei quaderni sequestrati si rivela diversa da quella usata da Erostrato per le sue lettere: insomma, in casa degli Aquini vengono trovati, come in ogni abitazione, dei quaderni a quadretti, ma nessuno di questi è il quaderno dal quale sono stati strappati i fogli usati da Erostrato per le sue missive.
Spesso, dinnanzi a questa o quella suggestione emersa nel corso della vicenda, ho avuto modo di osservare come la stampa, indefettibilmente avvezza al colpevolismo, si chiedesse se elementi di tale tenore potessero essere delle semplici coincidenze.
A tale domanda, penso si possa serenamente rispondere che non solo è ben possibile che si tratti di coincidenze ma anche che, ad uno sguardo più attento, non si tratta neppure di coincidenze: le coincidenze, infatti, come rivela la parola stessa, concordano, “coincidono”, appunto.
Gli elementi in esame, al contrario, coincidono solo in apparenza, salvo poi rivelarsi fondamentalmente incongruenti e contraddittori.
Allora, se proprio ci si vuol fare qualche domanda sulle coincidenze, ne propongo una: è solo una coincidenza che a collimare (e neanche più di tanto, come abbiamo visto) con gli Aquini siano sempre e solo elementi la cui portata è rimessa ad un ampio apprezzamento soggettivo mentre, di contro, ogni possibile elemento oggettivo (dalla carta alla presenza di DNA) non dà alcun esito che confermi questa ricostruzione?
Non dovrebbe questa stessa constatazione costituire un campanello d’allarme?

Con l’argomento affrontato in questo paragrafo, abbiamo dunque visto il peso della vaghezza, osservando ancora una volta quanto, in relazione ad altri elementi della vicenda, avevamo già constatato nella prima parte: i presunti elementi a carico degli Aquini non solo sono del tutto carenti di gravità, univocità e precisione, non solo non indiziano alcunché (né se considerati isolatamente né se sommati), ma hanno anche la sconcertante prerogativa per cui, se accostati tra loro, anziché restituire un quadro più chiaro, lo complicano, semplicemente in quanto un elemento ne contraddice un altro.
Così, come la proverbiale pezza che fa più danno del buco, ognuno degli elementi utilizzati contro gli Aquini, se osservato attentamente, ne fa crollare degli altri: lo abbiamo visto in merito agli incendi, in merito alla testimone, in merito agli “Adelphi della Dissoluzione” e, da ultimo, in merito ai libri sequestrati in casa degli Aquini.


Ceci n’est pas une pipe. “Questa non è una pipa”, scriveva René Magritte come didascalia di sua celebre opera d’arte raffigurante una pipa, divenuta emblema del surrealismo ed eloquentemente intitolata “Il tradimento delle immagini”.
Se il quadro indiziario contro Nemesio e Samuele Aquini fosse un dipinto, lo intitolerei proprio “Il tradimento delle immagini”, e scriverei in didascalia “questo non è un quadro indiziario”.
Nulla, infatti, più del concetto di tradimento, rende l’idea di ciò che provo constatando come elementi di questo tenore abbiano potuto portare a un rinvio a giudizio e perfino a una sentenza di condanna in primo grado.
Mi sento tradita in primo luogo come cittadina e, in secondo luogo, come persona che ha trascorso tanti anni sui libri di diritto, salvo poi doversi scontrare con una realtà ben diversa da quella illustrata dai principi di civiltà che si predicano, invano, nelle aule accademiche.

Non mi ha dunque sorpresa in modo particolare apprendere che in questa vicenda giudiziaria caratterizzata da una somma di “zeri” metaforici, a tali zeri in senso metaforico si sia aggiunto perfino uno zero in senso letterale o, per meglio dire, matematico.
Mi riferisco, nello specifico, al pacchetto di caramelle (“appartenente allo stesso lotto” di quello rinvenuto, con gli spilli, alla scuola materna di Cergnai) che sarebbe stato acquistato con la tessera fedeltà della famiglia Aquini al supermercato di Cesiomaggiore ventisei giorni prima dei fatti di Cergnai.
Per inquadrare meglio questo elemento che, come anticipato, costruisce uno zero in senso letterale, deve essere premesso anzitutto che, ovviamente, l’acquisto di un pacchetto di caramelle non costituisce, di per sé, un fatto anomalo o strano.
Al fine di comprendere, però, fino a che punto tale elemento, che fu strombazzato ai quattro venti da molteplici organi di informazione, costituisca letteralmente uno zero, è necessario soffermarsi su una serie di ulteriori circostanze.
In primo luogo, va sottolineato che, se di per sé l’acquisto di una confezione di caramelle non è certamente un fatto singolare, lo è ancor meno in alcuni periodi dell’anno.
Infatti, se l’acquisto risale a ventisei giorni prima rispetto ai fatti della scuola materna di Cergnai, avvenuti il 22 gennaio, tale acquisto da parte degli Aquini è avvenuto in data 27 dicembre, ossia in piene festività natalizie, periodo in cui pressoché ogni famiglia acquista caramelle e dolciumi di ogni genere.
Peraltro, non si può fare a meno di sottolineare che, per quanto si possa essere sprovveduti, è davvero difficile credere che, se si intende utilizzare qualcosa per la commissione di un reato, la si acquisti con una tessera punti: soprattutto, in considerazione del fatto che Erostrato non sembra affatto essere uno sprovveduto dal momento che, tra l’altro, è riuscito a non lasciare né DNA né impronte nelle sue lettere.
Tuttavia, i problemi non finiscono certo qui: c’è anche un altro aspetto sul quale è impossibile non soffermarsi.
Sebbene il fatto che tali caramelle appartenessero “allo stesso lotto” sia stato presentato come un indicatore di corrispondenza, deve essere aggiunto che i sacchetti di caramelle simili e dello stesso lotto ammontano a ben 5128 (fonte: Corriere delle Alpi, 24 marzo 2022).
Non è un errore di battitura e non avete capito male. Cinquemilacentoventotto.
Per chi volesse osservare questo numero (un sacchetto di caramelle su 5128 dello stesso lotto e della stessa tipologia in circolazione nella stessa area geografica) in percentuale e non avesse sotto mano una calcolatrice, non posso che inserire un’immagine con il calcolo svolto.


0,0195%: uno zero in senso letterale, appunto, un numero che mostra, impietosamente, un ennesimo elemento caratterizzato da assoluta inconsistenza.
Un “indizio” che, in sostanza, non è un indizio, in quanto visti i numeri è intuibile che un “indizio” analogo si troverebbe a carico di un gran numero di famiglie della zona.
Ed è proprio questa inconsistenza che, personalmente, mi sembra di ravvisare nella totalità degli elementi finora osservati, ad avermi spinta a prendere in particolare considerazione alcuni aspetti che saranno oggetto del prossimo paragrafo.

Il peso del pregiudizio

Dopo aver preso in esame una serie di elementi, mostranti -talvolta in maniera plateale- quanto la vicenda giudiziaria in questione sembri reggersi più su suggestioni che su indizi propriamente detti, ritengo sia d’obbligo una parentesi, che potrebbe essere infinita, su come e quanto agisca sull’inconscio collettivo il flagello del pregiudizio.
Mentre mi accingevo a scrivere e, nel frattempo, cercavo di raccogliere il maggior numero di notizie possibile per affrontare l’argomento, più materiale esaminavo e più mi rendevo conto di provare la sgradevole sensazione che la cifra stilistica di questa vicenda giudiziaria, o per meglio dire mediatico-giudiziaria, fosse la suggestione unita, in una miscela potenzialmente dannosa, al pregiudizio.
Per la precisione, è come se tutte le suggestioni, tutti gli “zeri”, metaforici e non, visti finora, fossero tenuti insieme dal pericoloso collante dello stereotipo.

Per cominciare a darvi un’idea di ciò che intendo, inserisco l’immagine di un vecchio articolo pubblicato dal Corriere delle Alpi, promettendovi sin da ora che la circostanza, evidenziata al tempo e richiamata perfino -dalla medesima testata giornalistica- nel sottotitolo di un articolo del 24 marzo di quest’anno in merito alla sentenza di primo grado, sarà uno degli oggetti (anche se non l’unico) di questo paragrafo.



Infatti, sebbene la circostanza, in sé considerata, non sia oggetto di dibattimento e non dovrebbe avere la benché minima attinenza con l’accertamento dei fatti e di eventuali responsabilità, si trova purtroppo ad averne nel momento in cui viene data in pasto, per giunta spesso in maniera inadeguata (e per constatarlo è sufficiente osservare le reazioni di rabbia e scherno), all’opinione pubblica: se non altro perché anche i giudici, piaccia o meno, sono parte dell’opinione pubblica e, proprio come ogni altra persona, sono esposti al veleno del pregiudizio.

Il pregiudizio, in apparenza e sia pure a targhe alterne, non gode di buona reputazione nella nostra società, eppure ognuno di noi a suo modo ne è vittima inconsapevole, portatore insano di credenze esterne e interiori che possono determinare problemi e danni incalcolabili.
Lo è il maestro che ha antipatia per l’alunno dal primo momento in cui lo vede entrare in classe, il capoufficio che detesta il suo sottoposto assunto da poco, lo può essere perfino il genitore con un figlio appena nato.
Ancora oggi, che ne abbiamo viste di tutti i colori, parlo di inconsapevolezza perché non riesco a credere che un essere umano possa basare il suo giudizio su preconcetti.

Se da un lato, come alcuni dicono, l’adagio secondo il quale “la prima impressione è quella conta” a volte funziona, almeno in apparenza, dall’altro è purtroppo una frase che non porta a nulla di buono.
Il pregiudizio è insidioso, ed è ancor più insidioso laddove non venga esplicitato in maniera chiara, ma sia lasciato libero di agire in sordina.
Ed è così insidioso che, ve lo confesso, ho indugiato nel momento in cui mi sono trovata a dover fare una scelta in merito alla opportunità di affrontare o meno, su Colonna Infame, il tema oggetto di questo paragrafo.
Il motivo principale della mia esitazione dinnanzi alla prospettiva di soffermarmi anche su questo aspetto, era dovuto al timore di poter contribuire, sia pure involontariamente, a dare pubblicità ad elementi che, di per sé, non dovrebbero essere oggetto di dibattimento né, tantomeno, di attenzione mediatica.
Dopo una lunga riflessione, ho tuttavia deciso di dare spazio anche al tema di questo paragrafo, per alcune ragioni che intendo esplicitare.

La prima è legata al fatto che, come da tempo insegna la sociologia del diritto, il diritto concretamente applicato spesso non è tanto quello dei codici, quanto quello dei mass media: si tratta di una presa di coscienza triste, ma nondimeno necessaria al fine di provare, nel proprio piccolo, ad innescare una riflessione che possa quantomeno cercare, facendo appello al senso critico, di invertire la rotta.
La seconda, più banale ma non meno rilevante, è il fatto che il blog Colonna Infame, pur potendo contare su uno zoccolo duro di affezionati lettori, non ha neanche alla lontana la copertura di testate giornalistiche (anche locali) e trasmissioni televisive, che pure degli argomenti oggetto di questo paragrafo hanno -sia pure a sproposito– parlato: in buona sostanza, non sarà certo questo articolo a dare pubblicità a determinati elementi, alla cui impropria e dannosa divulgazione qui cercheremo anzi di contribuire a porre rimedio.
La terza, che capirete meglio nel prosieguo, è il fatto che proprio la presenza di elementi di questo genere, in quella che è stata la presentazione del caso all’opinione pubblica, oltre a non deporre in alcun modo per la colpevolezza degli imputati (né del più giovane di loro, al quale tali elementi si riferiscono), suggerisce una ancora maggiore cautela, in quanto acuisce il sospetto di essere di fronte ad un errore giudiziario: infatti, sebbene questo fenomeno sia perlopiù ignoto al grande pubblico, esiste un ampio filone di errore giudiziari inscindibilmente legati a questo specifico genere di pregiudizio.
Una quarta ragione, è il fatto che, da alcune fonti dell’epoca, risulta perfino che una delle perquisizioni domiciliari presso l’abitazione degli Aquini sia stata motivata, tra l’altro, con riferimento al fatto che Samuele fosse iscritto al forum “Atei italiani”: una circostanza (la perquisizione così motivata, e non certo l’iscrizione al forum) che trovo, sinceramente, inquietante.
Ancora, una quinta ragione, che è il caso di richiamare se non altro per ricordare ai nostri lettori di appuntare nel metaforico block notes tra gli indizi contro gli Aquini un ulteriore “zero”, è il fatto che un altro libro sequestrato in casa degli Aquini, è stato un celebre libro sul Satanismo scritto dal sociologo (per giunta cattolico) Massimo Introvigne, che venne imprudentemente presentato dalla grancassa come non si sa bene quale misterioso testo occulto: anche tale circostanza, infatti, evidenzia piuttosto bene un certo clima che, a parere di chi scrive, non ha giovato alle indagini.
Infine, l’ultimo motivo, è una riflessione nata dalla lettura di un vecchio articolo del sociologo Patrizio Paolinelli (questo: https://www.sociologiaonweb.it/esoterismo-sicurezza-e-comunicazione-il-caso-dei-bambini-di-satana/?fbclid=IwAR2FBzlM63eHdit9JzSB-4s06tIYbXIh641DN0azPMZRn2B0VW_vVfeWxkw) relativo proprio a un caso di errore giudiziario innestato su questo genere di pregiudizio che, per un caso fortuito, stavo leggendo proprio nei giorni in cui ho appreso della sentenza di primo grado, e che ha contribuito a far sì che maturasse in me la convinzione secondo la quale il fatto che soggetti terzi cerchino di creare un minimo di contraddittorio possa essere utile ad un accertamento dei fatti corretto e ripulito da isterie e stereotipi.

Con questo paragrafo, dunque, non intendo certo offendere quelli che io credo vittime di un clamoroso errore giudiziario, anche se mi trovo costretta a soffermarmi su qualche loro caratteristica per spiegarmi meglio.
E, sia chiaro, non intendo nemmeno offendere chi ha portato avanti le indagini, ma è impossibile non vedere che, oltre all’assenza di prove, gli indizi non mi paiono gravi, sono assolutamente imprecisi e, manco a dirlo, discordanti.
Così, per mostrarvi come i pregiudizi possano incidere, anche in maniera consistente, su qualsiasi vicenda giudiziaria in generale, e come potrebbero aver inciso su questa in particolare, ho pensato di ispirarmi a un celebre personaggio, che certamente conoscerete tutti, frutto della fervida fantasia di Carlo Collodi: il Grillo Parlante.



Tuttavia, se il Grillo Parlante di Collodi simboleggia la voce della coscienza, che parla con calma e dispensa parole di saggezza, ma troppo spesso viene messa a tacere, il “nostro” Grillo Parlante, che ci accompagnerà in questo paragrafo, avrà l’onere di rappresentare l’esatto opposto: la voce del pregiudizio, chiassosa dispensatrice di consigli ben poco saggi, ma sin troppo ascoltata.
La voce del pregiudizio tende a mostrare la realtà attraverso una lente deformante, che dà una connotazione negativa caratteristiche personali, magari statisticamente poco comuni, ma del tutto lecite.
Peggio ancora, la voce del pregiudizio, spesso, tende non solo ad ingigantire tali caratteristiche personali, ma perfino a travisarle.

Gli unici “indizi” che vedo, tornando a noi, si riflettono su due uomini privi di patente e/o automobile.
Proviamo ad ascoltare, per un momento, la voce del pregiudizio: cosa potrebbe dirci?
Avanzo qualche proposta, non importa quanto poco avveduta, anzi: come abbiamo detto, infatti, la voce del pregiudizio non lo è affatto.
“Ma come si fa a non guidare al giorno d’oggi?”
Ancora.
“Sono padre e figlio che fanno, insieme, passeggiate quotidiane: che problemi hanno queste generazioni che invece di separarsi si mescolano in un inquietante sodalizio?”
Ancora.
“Perché un giovane uomo, anziché frequentare persone della sua età, se ne a casa a leggere libri di dubbia moralità, a navigare in Rete e scrivere su forum in materia di ateismo o -peggio che mai- a consultare pagine sul Satanismo?”
Infine, la ciliegina sulla torta, come si è appreso dai media, il più giovane degli imputati “soffre anche di depressione”: altro non potrà essere, quindi, che qualcuno da cui guardarsi, qualcuno che una società come la nostra sceglie agevolmente come preda facile dei diversi e tanti accusatori che la compongono.

Chissenefrega se non ci sono né indizi né prove, la nostra colonna infame ha bisogno di essere occupata da qualcuno che abbiamo già condannato nelle nostre, risibili ed orripilanti, concezioni.

In merito alla “ciliegina sulla torta” poc’anzi citata, la depressione, considero un imperativo etico spendere qualche parola, in quanto è un elemento che tocca profondamente la mia sensibilità.
Se in questa vicenda, globalmente considerata, non c’è davvero nulla che possa, anche alla lontana, far sorridere, c’è un aspetto che trovo più triste di ogni altro e che più di ogni altro mi ha colpita.
Da tempo, sono una appassionata lettrice di saggi su svariati temi di diritto penale, ma in particolar modo in materia di funzione e giustificazione della pena.
Pur senza scendere nel dettaglio delle varie concezioni filosofiche che, sull’argomento, si affiancano o si contestano a vicenda, è sufficiente qui richiamare un concetto che mi ha sempre colpita molto.
Spesso, le giustificazioni filosofiche della pena e dello stesso ordinamento penale, fanno riferimento anche alle pulsioni di vendetta che sorgono nella popolazione dinnanzi ad un reato: in buona sostanza, si dice, l’ordinamento penale e la pena esistono in quanto, in loro assenza, le pulsioni di vendetta si tradurrebbero in un Far West, con conseguenze ben più dannose e, soprattutto, incontrollabili.
Ancora, capita che facciano riferimento a esigenze inerenti la conservazione del sistema: il sistema deve essere credibile, e non lo sarebbe nel caso in cui minacciasse una pena per un reato per poi non applicarla.
C’è però un altro concetto, che costituisce principio fondamentale, e che in quanto tale si affianca a quelli ora citati, costituendone un limite invalicabile.
Infatti, per quanto l’ordinamento penale possa essere giustificato, alla sua giustificazione esiste pur sempre un limite, dato dal fatto che l’individuo non possa mai essere considerato uno strumento per raggiungere finalità ulteriori, fosse anche per appagare la sete di vendetta di tutti gli altri o per rispondere alla “ragion di Stato”.
Tali principi dovrebbero valere non solo in ambito giudiziario, ma anche nelle trattazioni di cronaca: abbiamo già visto più volte, d’altronde, come e quanto i due piani rischino di intersecarsi.
Ed è proprio perché l’individuo non può essere un mezzo che non si può tollerare l’idea (prima ancora che il fatto) che, per blandire il consenso dell’opinione pubblica impressionata da notizie inerenti un reato, delle persone possano essere messe alla gogna ed esposte al pubblico ludibrio, quasi usate, se mi è concessa un’immagine forte, a mo’ di scudi umani per rassicurare l’opinione pubblica dandole un mostro contro il quale scagliarsi, specie se tali persone sono, di per sé, già indebolite da problemi che potrebbero rendere letteralmente insostenibile un peso di questo tipo.

Sebbene l’insegnamento che dovremmo trarre dall’antico racconto che vede protagonista il cortigiano Damocle sarebbe di non considerare oro tutto ciò che luccica senza valutare le responsabilità e i pericoli ai quali si è esposti se si gode del privilegio di essere un tiranno, personalmente ho sempre dato alla “Spada di Damocle” una lettura polivalente.
Come al solito, guardo il lato umano e, grazie alla semplice osservazione delle peculiarità di ognuno, ho avuto modo di rendermi conto negli anni che -per quanto possa sembrare banale- così come non tutti hanno la stessa soglia di sopportazione del dolore fisico, allo stesso modo non tutti riescono a reggere con la stessa forza d’animo la pressione che può comportare l’essere coinvolti in un procedimento penale.
Tutti noi abbiamo avuto modo di osservare, in tanti anni di bombardamento mediatico in materia di cronaca, le reazioni di indagati, eventualmente divenuti imputati e condannati. Le reazioni alla violenza delle accuse, all’accanimento mediatico e alla ostilità dell’opinione pubblica sono diverse, come diverso è ognuno di noi.
Su questa considerazione non ci si sofferma mai abbastanza quando si muovono accuse, e questa leggerezza può portare a conseguenze disastrose, perché sappiamo benissimo che la macchina del fango, una volta messa in moto, è molto difficile da fermare.
Il fango, come farebbe in natura, riesce a deviare indagini anche inconsapevolmente, copre ogni altra pista che risulterebbe molto più plausibile e in ultima battuta, quella più tragica, trascina con sé le vite dei poveri malcapitati di turno in un burrone dal quale sarebbe difficile risalire perfino se venisse ritrattato tutto con un proclama a reti unificate. Questo perché l’animo violentato da una vicenda simile stenta a riprendersi, dal momento che una ingiusta accusa provoca delle ferite indelebili.

Se la persona o, come in questo caso, le persone colpite da una ingiusta accusa hanno poi alcuni attributi, come un profondo affetto che lega i componenti della famiglia, uno stile di vita semplice e scevro di malizia, una semplice quotidianità simile ad una nicchia protettiva e, nel caso del più giovane, una depressione che, se pur ammirevolmente affrontata con metodi efficaci, resta pur sempre una depressione, ci si dovrebbe interrogare sulla necessità di affrontare accuse così delicate con un approccio totalmente diverso.
Ora, come sapete, personalmente ho voluto essere chiara sin dall’inizio, scrivendo espressamente di ritenere i due imputati estranei ai fatti.
Sebbene non possa pretendere che tutti abbiano la mia stessa convinzione, un dato di fatto incontestabile è che questo caso giudiziario verta su meri indizi, e non su prove: una circostanza, per giunta, pacificamente riconosciuta da vari organi di stampa.
Per questo, mi viene da dire che non si può sparare a zero, nel dubbio, in un implicito “tanto delle vite degli altri chissenefrega”, perché non tutti riescono a sostenere anni e anni con una spada di Damocle sulla testa.
Una società che voglia definirsi civile non dovrebbe mettere nessun cittadino in queste assurde condizioni, e ribadisco, nessun cittadino, senza distinzione alcuna, perché la dignità di ognuno va sempre tutelata e mai e poi mai calpestata.
In questa circostanza, per l’ennesima volta, ho dovuto costatare -e mi rincresce dirlo- che la società italiana è ancora molto lontana dal potersi definire civile.

Basti solo pensare a quale ruolo potrebbe aver giocato, in questo caso, il peso del pregiudizio.
Quella vocina insistente, di cui ho provato sopra ad intuire e riportare alcune parole, è una voce che mai dovrebbe trovare spazio, in generale, ma soprattutto in situazioni di per sé connotate da una intrinseca e particolare delicatezza.
Quella voce, come anticipato sopra, è una lente deformante, che può portare a travisare anche le cose più semplici e banali, ad esempio l’amore per i libri o la sacrosanta scelta personale di non prendere la patente: ed così che perfino delle semplici passeggiate, magari volte proprio ad alleviare la sofferenza di una persona che combatte contro la depressione, possono diventare, se unite a suggestioni di vario genere, sospette.
E quella voce è una lente deformante che non può, in quanto tale, che contribuire a intorbidire le acque, le stesse acque dalle quali tutti noi, successivamente, ci troveremo, volenti o nolenti, a dissetarci.
Infatti, se quando ci si occupa, anche semplicemente in qualità di blogger, di una vicenda di cronaca, ritenendo che si tratti di un errore giudiziario, il primo pensiero non può che essere rivolto alle persone direttamente coinvolte, è anche vero che ogni errore giudiziario non riguarda mai solo imputati e condannati.
Un errore giudiziario riguarda sempre, che ne siamo o meno consapevoli, l’intera società, per la quale costituisce una ferita profonda.
E non si tratta solo di una considerazione astratta e di principio, ma anche di un problema concreto, perché per quanto sia sgradevole pensarci, un errore giudiziario può coinvolgere letteralmente chiunque.

Nel caso di specie, inoltre, il problema potrebbe essere particolarmente rilevante in concreto.
Infatti, come ho avuto modo di anticipare a più riprese, uno dei sospetti che, via via che mi documentavo sulla vicenda, hanno cominciato a farsi strada nella mia mente, è che questo caso possa ricadere, almeno in una certa misura e nonostante alcuni profili di atipicità, in un fenomeno noto come “satanic panic“: un fenomeno spesso completamente ignoto all’opinione pubblica, ma particolarmente studiato dalla sociologia, specie anglofona, anche e soprattutto in quanto è stato storicamente ed è usualmente legato (indovinate un po’?) a errori giudiziari che innescano, in quanto improntati a isteria di massa, spirali estremamente pericolose.
Sebbene in questa sede sia impossibile una trattazione dettagliata della materia, è quantomeno necessario definire il fenomeno ed i suoi contorni.
Con la locuzione “satanic panic” o, in Italiano, “panico satanico”, si fa riferimento a una specifica tipologia di panico morale.
Il concetto di panico morale, a propria volta, fa riferimento a un meccanismo, ascrivibile alla categoria delle isterie collettive, in base al quale stereotipi, incidenti aneddotici o, in alcuni casi, vere e proprie leggende metropolitane prive di qualsivoglia fondamento, tendono ad apparire, nella coscienza collettiva (spesso aizzata in tal senso anche da disinformazione o sensazionalismi mediatici) come pericoli diffusi, gravi ed incombenti.
Il panico satanico, come anticipato, è una peculiare forma di panico morale, basata su una serie di stereotipi e, spesso, leggende metropolitane di matrice cospirazionista destituite di fondamento, incentrato su una percezione di pericolo, in realtà infondata, legata a presunti crimini riconducibili al Satanismo.
Alla fine del secolo scorso, un’ondata di isteria collettiva riconducibile a panico satanico colpì gli Stati Uniti e, successivamente, molti Paesi europei, tra i quali l’Italia, sfociando in centinaia di indagini a carico di persone innocenti e in relativi processi, nella generalità dei casi culminati con assoluzioni, non prima di aver rovinato la vita alle persone colpite.
Ho ritenuto opportuno un richiamo all’argomento, in quanto proprio in concomitanza con l’inizio delle azioni di Erostrato, ossia negli anni 2017-2018, vi è stata, a livello globale, come sottolineato da diversi studiosi, un vero e proprio revival di alcuni temi tipici del panico satanico.
Sebbene i presunti crimini ai quali fa riferimento generalmente l’isteria legata a panico satanico siano reati di indole completamente diversa rispetto a quelli di Erostrato (per questo ho parlato di atipicità), l’osservazione di come i mass media abbiano talvolta ostinatamente insistito, in relazione alla vicenda, nel porre l’accento su alcune determinazioni personali del più giovane dei due imputati, mi spinge a ritenere che, nonostante gli aspetti di atipicità, possa essere comunque riscontrabile anche nel caso di specie un retroterra di stereotipi e panico morale a tema satanico, quantomeno come collante che tiene insieme la serie di suggestioni che abbiamo visto nei paragrafi precedenti.

A tal proposito, pur senza dilungarmi troppo sull’argomento, cosa che renderebbe l’articolo dispersivo, per quanto il tema sia di interesse date le sue implicazioni collettive, mi limito qui a qualche osservazione relativa al caso di specie, e in particolare al modo in cui elementi di tale isteria abbiano connotato la comunicazione con specifico riferimento al più giovane degli imputati.
In prima battuta, deve essere sottolineato che sebbene esista, statisticamente, qualche crimine riconducibile al cosiddetto “satanismo acido”, perfino tali crimini sono aneddotici e sono spesso oggetto di abbondanti mistificazioni mediatiche, come anche recentemente dimostrato da studi e inchieste, tra cui una recente pubblicazione di Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani.
Al di là di questo, però, va sottolineato che il Satanismo razionalista, di cui tanto si è parlato in relazione a Samuele Aquini, al pari di altre forme di Satanismo, non ha nulla a che vedere con quei, sia pure rarissimi e aneddotici, fenomeni criminali.
Il Satanismo razionalista è una filosofia di stampo sostanzialmente ateo o agnostico, senza la benché minima connotazione criminale, che considera Satana come simbolo (e non come una entità o divinità) di una serie di valori: si tratta di una realtà che, per quanto minoritaria e magari, in quanto poco nota, facile bersaglio di pregiudizi, è del tutto legalitaria.
Statisticamente, la probabilità che un individuo che segue tale forma di filosofia o ne è appassionato commetta un illecito non è superiore alla media sociale.
Inoltre, giacché siamo in argomento, mi sembra a questo punto interessante far notare che il Satanismo razionalista presenta una serie di incompatibilità rispetto alle idee veicolate negli scritti di Erostrato.
Limitandomi a pochi esempi, si tratta di una filosofia che non ha alcuna posizione omofoba ma è anzi “gay-friendly” e tendenzialmente in linea con posizioni politiche progressiste. [3]
Di contro, e lo specifico per chiunque non conoscendo bene l’argomento potrebbe essere a propria volta vittima di certe suggestioni, il Satanismo razionalista, non contempla riferimenti all’Anticristo, al katechon, e similari: insomma, i riferimenti di Erostrato di ispirazione millenarista non hanno alcuna attinenza con le idee filosofico-religiose di Samuele Aquini.
Per questa ragione, soffermarsi tendenziosamente su un tale aspetto personale, che in un’opinione pubblica generalmente poco informata su filosofie e culti emergenti può ingenerare una ingiustificata ostilità ai danni di una persona, già in una situazione delicata in quanto colpita da un procedimento penale che, per consentire un corretto accertamento dei fatti, dovrebbe svolgersi all’insegna della serenità e non dell’isteria, è un atteggiamento che a mio avviso merita un particolare biasimo.
Tale accanimento, infatti, potendo compromettere l’imparzialità del giudicante, rischia di costituire un concreto pericolo e, in ogni caso, appare come una ingiustificata forma di lesione della libertà e dignità di un individuo che, pur essendo coinvolto in un procedimento penale, deve essere per quanto possibile tutelato.

Il mio augurio è un generale recupero della lucidità che colga tutti in sincrono in occasione dell’appello. Con un pizzico di umiltà e buona volontà si potrebbe anche ridimensionare una faccenda che ha preso vita dal nulla, facendo cadere le accuse e restituendo quel minimo di serenità ad una famiglia che merita, quantomeno, di lasciarsi questa brutta storia alle spalle e riprendere il controllo della propria esistenza.

Il peso dell’intuizionismo giudiziale: la fallacia della fascina

“Non mi aspettavo un vostro errore
Uomini e donne di tribunale
Se fossi stato al vostro posto…
Ma al vostro posto non ci so stare.”
(Fabrizio De André, Nella mia ora di libertà)

In conclusione di questo ciclo di articoli sul caso Erostrato, anche se, come avrò modo di spiegarvi meglio, con ogni probabilità non sarà questa l’ultima volta in cui Colonna Infame si occuperà della vicenda, ho deciso di dedicare un paragrafo a quello che considero un ulteriore aspetto che merita una particolare attenzione.
Con questo paragrafo, manterrò l’ultima delle mie promesse: spiegare cosa ho voluto intendere esternando il mio timore di vedere in fiamme -con l’Erostrato bellunese del XXI secolo- non il tempio di Artemide, bensì il tempio di Themis, la Giustizia.
In queste ultime pagine, infine, proprio in quanto argomento intrinsecamente collegato al tema del paragrafo, confluiranno le prime riflessioni relative alle perizie grafologiche che hanno caratterizzato -e, in buona misura, segnato- l’andamento processuale della vicenda in esame.
Parlo necessariamente di “prime riflessioni” in quanto, per il momento, potrò svolgerne solo alcune: questa, tra l’altro, è anche la ragione per cui ho anticipato che, con ogni probabilità, questo non sarà l’ultimo articolo.
Infatti, mentre reperivo il materiale disponibile sulla vicenda per la stesura di questo articolo, ho notato, nelle notizie relative alle perizie grafologiche, una serie di punti a mio avviso meritevoli di un approfondimento ulteriore.
Tuttavia, non avendo personalmente una particolare competenza in materia, dovrò qui limitarmi, oltre alle considerazioni prettamente giuridiche, solo ad alcune osservazioni che, sulla base di miei precedenti studi ed esperienze professionali che si sono “incrociati” con le discipline forensi, ritengo di essere in grado di svolgere.
Per approfondire gli ulteriori aspetti che, nel corso delle ricerche, ho individuato come possibilmente problematici, ho deciso di coinvolgere una ulteriore persona: si tratta di un amico, in passato già collaboratore del blog Colonna Infame per alcuni aspetti “tecnici” relativi alle discipline forensi, che avendo accesso a un certo numero di pubblicazioni specialistiche, potrà reperire probabilmente informazioni degne di un ulteriore articolo.

Tornando a noi, se dovessi spiegarvi i motivi della mia apprensione, alla luce di questa vicenda, per il tempio di Themis, non partirei affatto dalla regola processuale secondo la quale la colpevolezza degli imputati deve essere provata oltre ogni ragionevole dubbio.
Non partirei da questa regola perché, stavolta, sarebbe ozioso e superfluo.
Sono infatti convinta che in questa vicenda non solo vi sia il “ragionevole dubbio”, che do per scontato, ma ci siano, di fatto, soltanto dubbi: paradossalmente, la più grande certezza è che il quadro indiziario a carico dei due imputati non si regga in piedi.
Lo abbiamo visto, in ogni modo possibile, soffermandoci sulle tantissime anomalie e contraddizioni che sembrano costituire l’unico vero punto fermo di una vicenda che, per quanto ci si possa sforzare, porta con sé il retrogusto amaro di un grande errore.
Ogniqualvolta mi trovi dinnanzi a casi di questo genere, in cui troppe e plateali mi paiono le incongruenze, anziché soffermarmi sui principi processuali, preferisco interrogarmi sui principi di diritto sostanziale.
D’altro canto, etimologicamente, la sostanza è ciò che “sta sotto”, alla base, alle fondamenta: e quando si osserva un edificio che proprio non si regge in piedi, il primo sospetto dovrebbe essere che ci sia qualcosa che non va già nelle fondamenta, prima ancora che nella struttura.
Per questa ragione, anche in questo caso, non ho potuto fare a meno di dare uno sguardo alla sostanza, alle fondamenta, nutrendo il sospetto che proprio in quel punto si potessero trovare le prime falle, quasi una sorta di “peccato originale”, per usare un linguaggio forse più congruo a una vicenda che, per certi versi, lascia il sospetto di essere stata, sia pure inconsapevolmente e in buona fede, inficiata da pregiudizi di tipo religioso.

Ora, mi rendo conto di non potermi permettere di scendere troppo nel dettaglio di questioni giuridiche che risulterebbero, per un blog, eccessivamente tecniche e complesse: cercherò, dunque, di essere lieve.
Ai fini di comprendere i termini della questione, basti sapere che, poiché in un procedimento penale si pone la necessità di accertare se un fatto lesivo sia riferibile alla condotta di un soggetto, sorge la conseguente necessità di individuare degli standard probatori adeguati, ed è per questa ragione che il diritto deve interfacciarsi con modelli scientifici che godano di una particolare attendibilità. [4]

Già alla luce di questo primo tassello, mi sembra quasi superfluo osservare che, nel caso preso in esame, vi siano degli elementi che sfuggono in maniera plateale a un accertamento di questo tipo, se non altro perché un simile accertamento non è concretamente possibile.
Basti pensare, a titolo d’esempio, alla questione relativa agli incendi, trattata nella prima parte dell’articolo, che richiamo qui in quanto penso sia quella che mostra in maniera più chiara ciò a cui mi riferisco.
Infatti, anche al di là di tutte le altre molteplici contraddizioni relative agli incendi, che ho già avuto modo di osservare, è del tutto evidente che se non è dimostrabile neppure l’origine di tali incendi, che pertanto potrebbero essere stati dovuti perfino a cause naturali, a maggior ragione non è certamente possibile affermare “oltre ogni ragionevole dubbio” che siano stati appiccati dolosamente da persone specifiche, chiunque esse siano.
Con questa considerazione, intendo porre l’accento sul fatto che, per quanto riguarda gli incendi, a rigore non dovrebbe essere possibile neppure ascriverli al vero “Erostrato”.
Ma, in realtà, non è questo il motivo per cui ho scelto di scrivere questo paragrafo.
Infatti, se per ragioni di principio non posso fare a meno di evidenziare anche anomalie di questo genere, il motivo per cui ho scelto di scrivere su questa vicenda e ho scritto ad oggi oltre cinquanta pagine, cosa che ha richiesto un impegno significativo, non è certo quello di alleggerire la responsabilità del vero Erostrato.
Certamente, anche il vero Erostrato dovrebbe avere, come ogni altro individuo che abbia commesso un reato, il diritto ad un equo processo, cosa che implica il rispetto di una serie di garanzie: questa potrebbe suonare ai più “giustizialisti” come un’affermazione spiacevole e infelice, ma se c’è un punto fermo che ho potuto trarre dall’aver studiato diritto, è che proprio dalle garanzie accordate al reo si desume il livello di civiltà di una nazione: non a caso, uno studioso tedesco dell’Ottocento definì il codice penale come “Magna Charta del reo”.

Tuttavia, non mi sarei presa la briga di scrivere un ciclo di articoli su Colonna Infame per contestare aspetti come questo: se non altro, perché non sono tanto le questioni di principio il tema del blog.
Il motivo per cui ho scelto di scrivere, come ho detto sin dall’inizio, è la profonda convinzione che la vicenda in esame sia un errore giudiziario.
Per questo motivo, se il 23 marzo avessi letto sui giornali che Nemesio e Samuele Aquini erano stati condannati in primo grado per i reati commessi da “Erostrato”, ma che era caduta l’accusa relativa agli incendi, in quanto di origine non dimostrabile, questi articoli li avrei scritti comunque.
Il perché penso di averlo ormai abbondantemente spiegato, soffermandomi, in ognuno dei paragrafi precedenti, su un numero di anomalie e incongruenze tale da avermi spinta a parlare di “zeri” e di “somma tra zeri”.
Questo riferimento alla “somma tra zeri”, dopo aver cercato di mostrare come zero sia il sostanziale valore di ognuno degli elementi considerati parte del quadro indiziario contro gli Aquini, non è casuale.
Mentre cercavo di apprendere e comprendere il più possibile su questa vicenda, mi è tornato in mente spesso il concetto di “fallacia della fascina”, locuzione usata dall’epistemologa Susaan Haack per indicare la fallacia che consiste nel ritenere che una serie di evidenze deboli, per semplice sommatoria, possa restituire un quadro indiziario forte, e vorrei invitarvi a tenere a mente questo concetto, in particolar modo, nella lettura di questo paragrafo, in quanto vi sarà utile ricordare in quale quadro siano andate a inserirsi le perizie calligrafiche, di cui parlerò a breve.
Anche il fatto che abbia lasciato la questione relativa alle perizie calligrafiche alla fine non è un caso, né è un caso che abbia scelto di trattare l’argomento dopo il paragrafo relativo al peso del pregiudizio.
Volevo che fossero chiari, infatti, alcuni elementi, tra i quali il clima generale in cui tali perizie hanno avuto luogo e la sostanziale inconsistenza di ogni altro indizio e dunque il nulla che, a tali perizie, fa da contorno.
Per quanto riguarda, nello specifico, le perizie calligrafiche che hanno caratterizzato questa vicenda processuale, va premesso che le perizie svolte dal consulente dell’accusa e quelle svolte dai consulenti della difesa sono pervenute a risultati opposti in merito alla compatibilità degli scritti di Erostrato con la grafia degli Aquini.
In ragione di tali risultati contrapposti delle perizie di parte, è stata disposta e svolta una CTU dalla Dott.ssa Nives Andreani, con esiti sostanzialmente sovrapponibili a quelli della perizia dell’accusa.
Il mio intento non è, naturalmente, quello di mancare di rispetto ai periti di parte pubblica o di metterne in dubbio la professionalità, bensì quello di spingere i lettori ad inquadrare alcuni aspetti che potrebbero essere molto rilevanti.

Per spiegare il primo di questi aspetti, è necessaria una breve digressione nella quale cercherò di fornire, per quanto possibile, gli strumenti per una valutazione critica della questione relativa alle perizie calligrafiche in questo processo.
In questo blog, nel corso degli anni, è stata affrontata ripetutamente la questione delle discipline forensi nel processo penale, evidenziandone talvolta i limiti.
Si afferma spesso che l’introduzione delle scienze forensi nell’ambito del processo penale abbia portato ad un aumento delle garanzie, in quanto le scienze forensi tenderebbero a far scagionare l’innocente e a far condannare il colpevole.
Tale affermazione ha un fondo di verità (è sufficiente pensare ai tanti casi di errore giudiziario che, negli USA, hanno potuto essere corretti grazie al DNA) ma, se non contestualizzata e se non letta con un doveroso approccio critico, rischia di essere completamente fuorviante.
È infatti divenuto sempre più evidente, nel corso degli anni, che una buona parte degli errori giudiziari risulti inscindibilmente legata proprio a processi che hanno visto come protagoniste le scienze forensi: e con questa considerazione si apre, tra l’altro, una pubblicazione del Prof. Gary Edmond, che allego per chiunque fosse interessato ad approfondire (chi volesse leggere l’intera pubblicazione, può farlo al seguente URL: http://classic.austlii.edu.au/au/journals/UNSWLawJl/2014/15.html).



La contraddizione tra la maggiore affidabilità che le discipline forensi dovrebbero apportare e il venire in considerazione di un gran numero di errori giudiziari proprio in cui processi che vedono il contributo di tali discipline, a ben vedere, è solo apparente: il vero problema, infatti, non è rappresentato tanto dalle scienze forensi in sé considerate, bensì dal fatto che in casi di tesi scientifiche contrapposte, bassi coefficienti probabilistici e dunque, in definitiva, irrisolutività delle scienze forensi, si spalanchino di fatto le porte all’intuizionismo giudiziale, cosa che accade sia nel caso in cui il giudice rifiuti gli apporti peritali nel nome della mera intuizione, sia nel caso in cui, al contrario, il giudice subisca acriticamente gli apporti peritali senza entrare nel merito della loro affidabilità. Constatazioni di questo genere sono state alla base di un crescendo di correttivi, attraverso i quali si è cercato di porre rimedio a questo genere di problematiche: sono stati conseguentemente indicati degli standard atti a fungere da basi epistemologiche affinché la valutazione degli apporti peritali possa essere fondata su criteri rigorosi e idonei a offrire il grado di certezza preteso dal processo penale. [5]
Tra questi standard, risultano di particolare importanza e devono essere qui richiamati i criteri Daubert, elaborati originariamente dalla giurisprudenza statunitense e, infine, accolti dalla nostra Suprema Corte di Cassazione nel 2010 con la cosiddetta sentenza Cozzini.

Spero siate riusciti a seguire bene queste premesse, che ho cercato di semplificare quanto più possibile: esse saranno infatti necessarie per una maggiore comprensione delle considerazioni seguenti.
Come ben sa chi segue da tempo Colonna Infame, il tema delle scienze forensi nel processo penale è stato affrontato qui, in passato, con riferimento quasi esclusivo alla genetica forense.
Sebbene proprio in relazione alla genetica forense su Colonna Infame abbiamo spesso avuto modo di osservare una serie limiti, deve essere precisato che in linea di massima e in condizioni ottimali (ossia in presenza di campioni di DNA buoni a livello quantitativo e qualitativo, in quei casi in cui non emergano anomalie e si possano ragionevolmente escludere ipotesi di contaminazione) un test del DNA, pur non dimostrando di per sé necessariamente la colpevolezza per un reato, garantisce risultati attendibili quantomeno sulla appartenenza ad uno specifico soggetto.

Nel caso di discipline forensi come la grafologia, invece, ci si trova già in partenza di fronte ad una situazione diversa, data dal fatto che di per sé si tratta di discipline che, anche in condizioni ottimali, non garantiscono uno standard di certezza assimilabile a quello di un test del DNA e di altre cosiddette “prove scientifiche”, in quanto includono margini decisamente rilevanti di apprezzamento soggettivo.
In effetti, nel panorama statunitense, a seguito della enunciazione dei criteri Daubert non sempre le perizie calligrafiche sono state considerate sufficientemente attendibili per poter essere ammesse nelle Corti.
Sebbene sia impossibile procedere qui ad una analisi dettagliata della giurisprudenza italiana in merito alla attendibilità delle perizie calligrafiche, dal momento che non basterebbero decine di pagine, è necessario ricordare che tali perizie non sono considerate “prova” ma semplice indizio e che il fatto che non siano in grado (neppure in condizioni ottimali) di offrire certezze è stato più volte, anche di recente, ribadito dai Tribunali.


Questa, tuttavia, è una considerazione di ordine generale: va da sé, infatti, che a seconda dei casi considerati l’attendibilità potrà essere maggiore o minore, così come potrà essere maggiore o minore il grado di certezza offerto da una specifica perizia.

Anzitutto, va sottolineato che l’alto grado di soggettività nella valutazione implica, tra le altre cose, che discipline come la grafologia siano di per sé più esposte al rischio di cosiddetto “bias di conferma”, concetto che fa rifermento a quel fenomeno in base al quale si tende a concentrarsi maggiormente sui dati che confermano le proprie convinzioni preesistenti e a scartare le evidenze contrarie.
Questa problematica, che può riguardare anche i migliori laboratori e professionisti ed è esacerbata da un retroterra, per quanto inconsapevole, di pregiudizi, è studiata anche in relazione all’ambito delle discipline forensi, in cui è spesso venuta in considerazione come causa o concausa di errori peritali.
Per far comprendere meglio la portata di questo aspetto, allego un’immagine tratta da una rivista scientifica con la descrizione di un caso di errore peritale concausato da “bias di conferma” (si noti, peraltro, che il caso fa riferimento a una tipologia di perizia considerata tendenzialmente ben più attendibile di una perizia calligrafica; se qualcuno volesse leggere l’intera pubblicazione, inserisco un link da cui risulta liberamente scaricabile: https://web.williams.edu/Psychology/Faculty/Kassin/files/Kassin%20Dror%20Kukucka%20(2013)%20-%20Forensic%20Confirmation%20Bias.pdf).


Tuttavia, le perplessità in merito alla questione delle perizie calligrafiche non si fermano al possibile ruolo del bias di conferma, che pure nel caso di specie potrebbe aver rivestito un ruolo decisamente ampio.
Vorrei infatti permettermi sin da ora, a questo punto, una riflessione su una serie di altri elementi, limitatamente al poco che so in materia di discipline forensi, che potrebbero aver inciso in maniera significativa.
Per comprendere il nocciolo della questione che desidero già da oggi sottoporvi, è necessario far riferimento al concetto di random match probability, che quanti seguono Colonna Infame da tempo già conoscono.
In ogni caso, spiego brevemente il concetto, sia per chi non lo conoscesse, sia per “inserirlo” nel contesto della grafologia.
Nelle discipline forensi, per random match probability si intende la probabilità che un soggetto casualmente scelto tra la popolazione presenti le stesse caratteristiche che emergono nel materiale oggetto di una determinata perizia.
Ad esempio, se si parla di un DNA che coincide in 15 marcatori autosomici con quello di un imputato, la random match probability esprime la probabilità che un soggetto scelto a caso tra la popolazione possa avere la stessa compatibilità.
Per quanto riguarda le perizie calligrafiche, pur dovendosi sottolineare che a livello quantitativo la random match probability è in partenza completamente diversa a causa della già evidenziata minore oggettività della disciplina in questione, il concetto è analogo, e la random match probability esprime la probabilità che un soggetto scelto a caso tra la popolazione generale possa avere la medesima compatibilità, rispetto ad un testo scritto, di un imputato identificato come probabile autore di quello scritto.

Chiarito preliminarmente questo concetto, va aggiunta una considerazione, che non è un’opinione personale, bensì un dato di fatto, ossia che la random match probability subisce variazioni significative a seconda del numero di elementi preso in considerazione in una perizia: minore è il numero di elementi che può essere preso in considerazione in una valutazione peritale, maggiore è la probabilità che un soggetto casualmente scelto tra la popolazione risulti compatibile.
Per far capire meglio anche questo concetto, farò nuovamente un esempio relativo al DNA, che ritengo più “concreto” e quindi di più facile comprensione: come vedemmo anni fa presentando ai nostri lettori la sintesi di una interessante pubblicazione scientifica (https://colonnainfame2014.wordpress.com/2014/08/18/sul-test-del-dna-in-ambito-forense-da-forensic-dna-evidence-the-myth-of-infallibility-di-william-c-thompson-sintesi-di-rocco-cerchiara/) laddove sul luogo di un delitto venga rivenuto materiale genetico incompleto e possano dunque essere presi in considerazione pochi alleli, la probabilità di una corrispondenza casuale aumenta in misura considerevole, causando un serio rischio di errori giudiziari.
Ora, questo problema naturalmente non riguarda solo il DNA, ma qualsiasi disciplina forense.
Venendo alla vicenda oggetto dell’articolo, la problematica è di enorme rilevanza: infatti, nelle perizie calligrafiche in questione un certo numero di elementi normalmente esaminati in questo genere di perizie non può essere preso in considerazione, per motivi evidenti.

Deve essere infatti ovviamente considerato che gli scritti di Erostrato sono realizzati con grafia artefatta (le lettere sembrano suppergiù squadrate seguendo i quadretti del foglio): conseguentemente, la comparazione può avere ad oggetto solo un numero ridotto di elementi, ossia quegli elementi che presumibilmente, nonostante ogni tentativo di modificare la propria grafia, restano invariati in quanto frutto di automatismo.
Tuttavia, neanche tutti questi elementi “automatici” possono essere oggetto di valutazione nel caso in esame.
Ad esempio, di norma una perizia calligrafica tiene conto della pressione esercitata sul foglio: è chiaro che questo elemento non possa essere preso in considerazione se si parla di murales (peraltro, viene difficile pensare che possa essere preso in considerazione anche per le lettere, dal momento che sono scritte con un pennarello, e che di certo la pressione esercitata sul foglio con un pennarello non sarà la stessa esercitata con una penna).
A tutto questo deve essere aggiunto un elemento: la perizia calligrafica relativa ai murales non è stata effettuata sui murales, dal momento che furono ovviamente rimossi quasi subito, bensì su fotografie.
Ora, benché non sia di per sé vietato effettuare una perizia calligrafica su fotografie o comunque su copie fotostatiche, e benché l’incidenza di questo elemento sulla affidabilità del risultato dipenda anche dalla qualità delle copie in questione (sulla quale non posso esprimermi, non avendo visto né le copie né l’originale), in linea generale è pacifico che una perizia effettuata su copie fotostatiche, ancorché di buona qualità, sia in ogni caso meno attendibile: infatti, alcuni dettagli vanno inevitabilmente persi.
Per questa ragione, il fatto che il materiale sottoposto a perizia calligrafica non sia originale è pacificamente considerato un limite.



Nel caso specifico va inoltre aggiunto che effettuare tali perizie su fotografie ha anche un ulteriore effetto collaterale, ossia quello di non poter prendere in considerazione in maniera adeguata il movimento che l’imputato avrebbe dovuto eseguire per tracciare le lettere: un problema non certo di poco conto, vista anche l’altezza dei murales, sulla quale ho già avuto modo di scrivere.

Quanto visto, tuttavia, non sembra essere l’unico limite evidenziabile nel caso in questione. Infatti, un ulteriore limite è rappresentato dai campioni di scrittura, certamente riconducibili agli imputati, oggetto di comparazione con gli scritti di Erostrato: tali campioni dovrebbero essere della stessa tipologia di quelli contestati.


Nel caso in questione, evidentemente, non lo sono: i graffiti o le scritte in pennarello realizzati da Erostrato con grafia artefatta difficilmente potrebbero infatti considerarsi appartenenti alla stessa tipologia dei campioni di scritti degli imputati presi in esame.
Anche in questo caso, il mio intento non è quello di sostenere che la comparazione nel caso di specie sia impossibile, bensì è quello di mostrare che, se già di norma una comparazione tra documenti non può essere in grado di restituire le medesime certezze offerte da altre scienze forensi, lo è ancor meno in un caso in cui vi sono degli evidenti limiti oggettivi alla comparazione.

In conclusione, vorrei fare un cenno a un ulteriore elemento sul quale non ho potuto fare a meno di interrogarmi.
Mi riferisco ad una frase della consulente d’ufficio Nives Andreani, riportata da Il Gazzettino in un articolo del 2 dicembre 2021, che riporto testualmente: “(…) si tratta in ogni caso di una certezza tecnica, non assoluta. A livello scientifico non ci sono probabilità in termini quantitativi ma qualitativi in base alle evidenze riscontrate.”
Ora, io non so se la frase in questione sia stata davvero pronunciata in questo modo esatto o se, sia pure virgolettata e attribuita alla Dott.ssa Andreani nell’articolo del Gazzettino, sia frutto di una rielaborazione o perfino di una incomprensione del giornalista.
Se però fossero state davvero pronunciate queste parole, non posso che trovarle significative: infatti, parlare di certezza “non quantitativa”, oltre a costituire a mio avviso un ossimoro, mi sembra una dichiarazione confessoria del fatto che le perizie in questione non siano adeguate agli standard di certezza richiesti dai criteri Daubert.
Cos’è, infatti, una certezza non ancorabile a un rigoroso parametro quantitativo se non un lasciapassare per il più sfrenato e arbitrario intuizionismo giudiziale?
Ed è con questa domanda che, per il momento, vorrei chiudere questa serie di prime osservazioni in merito alle perizie calligrafiche, in attesa di poter scrivere qualcosa di più. La domanda, d’altronde, esprime un dubbio- ed è di dubbi, non già di certezze (quantitative o qualitative) che questa vicenda giudiziaria è costellata.

Se qualcuno mi chiedesse perché ho scritto queste pagine, con ogni probabilità non saprei dare una risposta certa.
Per quanto ami scrivere, non posso affermare di aver scritto queste pagine “volentieri”: non certo perché scriverle sia stato un peso, ma perché avrei scritto volentieri solo se avessi potuto raccontarvi di una sentenza di assoluzione.
Forse potrei dire di aver considerato doveroso scrivere, in quanto la vicenda mi ha colpita profondamente, e in quanto ho sempre pensato che esistano dei limiti oltrepassati i quali, semplicemente, non si può non prendere posizione.
Ancora, forse, potrei dire che tanti e troppi ricordi di celebri e terribili errori del passato mi sono sembrati sin dall’inizio riecheggiare in questa storia: non a caso, ho voluto aprire la prima parte dell’articolo con una dedica al Chevalier de La Barre.
O forse, meglio, potrei dire di aver scelto di scrivere nella speranza contribuire, nel mio piccolo, a offrire un antidoto, perché scrivere e leggere significa sempre, in qualche modo, mantenere viva la creatività.
E come scrisse Jacques Vergès (e come d’altro canto mostrato dall’astio e dal sospetto che hanno finito per circondare indebitamente il manoscritto del Sig. Nemesio), “gli errori giudiziari sono storie immaginarie nate dal cervello di individui senza immaginazione”.


Note:
1) Sulle affermazioni di Feuerbach in merito ad accuse vaghe e processi per stregoneria, cfr. G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè.

2) Il recente caso nel quale i giudici d’appello, assolvendo l’imputata, hanno “bacchettato” il tribunale di primo grado (https://www.ildubbio.news/2022/05/06/altro-che-infermiera-killer-fausta-bonino-travolta-da-un-teorema-destituito-di-fondamento/?fbclid=IwAR0F2DOg6joXkx8WG9CLxVqBmZHIQKyQSItTe8f6PxGTT8f9qeVmF9RMl9I), al quale si fa riferimento è quello relativo alla Sig.ra Fausta Bonino, un caso sul quale scrivemmo anche su Colonna Infame.

3) Sulle idee gay-friendly nel Satanismo razionalista: The Satanic Scriptures, Peter H. Gilmore, capitolo “Founding Family: “morality” versus same-sex marriage”, pp. 128 ss.

4) G. Manca, Rapporto di Causalità, in Trattato Breve di Diritto Penale, diretto da G. Cocco e E.M. Ambrosetti, Il reato

5) G. Manca, ibidem