La festa è finita, liberate Bossetti

debt-money-dna “Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato.”

(Albert Einstein, lettera a Max Born del 4 dicembre 1926)


In principio fu la menzogna.
Se la vicenda mediatico-giudiziaria relativa al sig. Massimo Bossetti fosse collocata in un testo religioso, senza dubbio si aprirebbe con queste parole.

D’altro canto, gli elementi di stampo mitologico sembrano non mancare: dal misterioso furgone bianco che cambia volta a volta i propri connotati strutturali quel tanto che basta per adeguarli alla bisogna, alla “magica” polvere di calce che si ritiene il muratore porti sempre con sé, ed in effetti tanto magica da comparire nell’alveo bronchiale nell’ordinanza del GIP e da non essere invece evidenziata, nello stesso punto, dalla relazione autoptica. Non è un caso che la maggior parte dello spazio su questo blog sia stata dedicata a smentire una lunga serie di notizie distorte e insussistenti, ma la madre di tutte le inesattezze, quella che ha dato sin dall’inizio un manto d’infallibilità a questa indagine costellata di errori è stata quella secondo la quale l’analisi del DNA sarebbe stata ripetuta da quattro diversi laboratori.
Ce lo hanno ripetuto per mesi, in tutti i modi e in tutte le salse, ma non corrisponde al vero. C’è infatti una differenza sostanziale tra il fare un’analisi (cosa fatta da un solo laboratorio) e il controllarne i risultati su carta al fine di “certificarla”: e c’è una differenza sostanziale, perché se c’è un errore a monte in una qualsiasi fase precedente, in questo modo l’errore verrebbe semplicemente replicato, sic et simpliciter.

Qualche giorno fa è stato pubblicato in questo blog l’articolo Ignoto1? Un DNA impossibile in natura. Ed ora affannatevi meno nell’arrampicata sugli specchi e liberate Massimo Bossetti: questo articolo, che tanti ha fatto saltare sulla sedia in quanto meno diplomatico del solito, è stato pubblicato sulla base di presupposti ben precisi, e nessuna considerazione è stata lasciata al caso.

Di recente, qualcuno ha ben pensato di provare a sostenere, naturalmente senza alcuna valida argomentazione sottesa, che quanto recentemente divulgato in relazione alla non corrispondenza del dna mitocondriale di Ignoto1 con quello di Massimo Bossetti sia poco più che una quisquilia, o un cavillo difensivo.
E’ intervenuto perfino il Procuratore di Bergamo, Dott. Francesco Dettori, il quale ha affermato quanto segue:
«Sulle notizie apparse sui mezzi di comunicazione di massa in ordine alla valenza probatoria del dna repertato e utilizzato nel processo a carico di Massimo Giuseppe Bosseti, mettendola in qualche modo in discussione e incentrando le relative critiche sulla distinzione tra dna mitocondriale e dna nucleare, la procura di Bergamo ribadisce che tale profilo è stato già oggetto di ampia e approfondita valutazione in sede di accertamenti tecnici, con i risultati ampiamente conosciuti e che tali evidentemente rimangono».

Sembra quasi voler dire, il Dott. Dettori, nel suo palesare un certo fastidio in relazione alla notizie apparse circa la non corrispondenza del dna mitocondriale, che i panni sporchi si lavano in famiglia.
Chi scrive, in realtà, avrebbe ben gradito una situazione nella quale le vicende giudiziarie sono appannaggio dei tribunali e non di giornali e trasmissioni televisive, ma deve essere rammentato che chi ha portato fuori dalla famiglia i proverbiali panni sporchi (e che in questo caso sembrano essere davvero molto sporchi) non è certo stata la difesa del sig. Bossetti.
Deve essere rammentato anche che non c’è stato alcun intervento del Procuratore nel momento in cui, ad esempio, sono stati dati in pasto ai giornali stralci di interrogatori i cui contenuti, privi non solo di qualsivoglia valenza indiziante ma anche di qualsivoglia interesse pubblico sotteso, si configuravano come palesemente lesivi della privacy e della dignità di un’intera famiglia (oltre che, ovviamente, dell’indagato, il quale è pure una persona che deve essere, ove possibile, tutelata).

In questo caso, però, non siamo di fronte alla divulgazione di un elemento inutile, ma di un elemento che in qualsiasi Paese civile (per inferenza logica è dunque evidente che l’Italia non possa definirsi tale) avrebbe comportato l’immediata scarcerazione dell’indagato: infatti, come vedremo nel corso dell’articolo, da un punto di vista strettamente logico e perfino scientifico, non si può assolutamente ritenere alla luce delle nuove risultanze che “i risultati ampiamente conosciuti” rimangano tali e l’unica conclusione possibile e, a parere di chi scrive, irrefutabile, sembra essere il fatto che il sig. Bossetti non possa essere considerato Ignoto1.

Ora, in qualità di curatrice di questo blog, vorrei fare alcune doverose premesse.
La prima è che non mi sono mai limitata, in questo spazio, a riportare acriticamente tesi difensive, come pure qualcuno ha provato a sostenere.
Se mi desse una qualche soddisfazione personale divulgare veline preconfezionate, allora di certo, anziché scrivere (ben volentieri) a titolo gratuito su questo blog, lavorerei per qualche grande ed importante testata giornalistica, magari finanziata dai contribuenti.
Tra le linee guida di una tale testata giornalistica comparirebbero certo, sciorinati con veemenza ma raramente rispettati, ideali di correttezza deontologica e accuratezza delle notizie, magari anche riferimenti all’uguaglianza e ai principi democratici, ostentati in vetrina ma solertemente dimenticati.
In quel caso avrei potuto riportare per mesi, certa o quasi di una totale impunità, una lunga serie di pseudonotizie tese unicamente a ingenerare nell’opinione pubblica la convinzione che il sig. Massimo Bossetti sia colpevole, pur accorgendomi della fallacia delle stesse e senza mai offrire contraddittorio.
Avrei dedicato lungo spazio alle lampade solari fatte dal sig. Bossetti in un centro estetico “vicino alla fermata del bus di Yara”, naturalmente fingendo di dimenticare che i centri estetici sono chiusi nelle fasce orarie in cui gli studenti prendono l’autobus, e ancora avrei provato a sostenere, senza alcuna vergogna, che costituisca un fatto sospetto e del tutto inusuale l’acquisto di materiali edili da parte di un muratore.
Di contro, al venir fuori una notizia clamorosa come la non corrispondenza del dna mitocondriale di Ignoto1 con quello di Massimo Bossetti, anziché fare quanto dovuto, ossia mettere in discussione l’operato degli inquirenti, sarei corsa immediatamente non da un genetista esterno al caso per chiedere ragguagli sulle implicazioni di un fatto simile, ma dai consulenti della Procura, per dare loro la possibilità di salvare il salvabile (e tutelare i propri scranni) arrampicandosi sugli specchi, e soprattutto tranquillizzando i lettori del fatto che, no, non c’è nessun errore e che, parafrasando le eloquenti parole dell’Avv. Claudio Salvagni, sia cosa del tutto normale avere nelle proprie cellule un dna nucleare riconducibile ai propri genitori e un dna mitocondriale del proprio vicino di casa.

In data 30 gennaio su Il Garantista Errico Novi ha intervistato il Prof. Alessandro Meluzzi (vedi qui: http://ilgarantista.it/2015/01/30/quel-dna-e-costato-troppo-lo-difenderanno-coi-denti-anche-se-e-una-bufala/).

L’intervista, intitolata “Quel Dna è costato troppo: lo difenderanno coi denti, anche se è una bufala“, un titolo da me apprezzato, essendo ormai chiaro che le cose stanno proprio in questo modo -e lo dico da persona ben poco amante delle dietrologie, ma anche abbastanza acuta da comprendere quando sia il vil denaro a muovere determinati meccanismi-, proponeva una serie di considerazioni interessanti, ma ai fini di questa trattazione ne richiamerò due in particolare.
Con riferimento alla improponibile (e verrà spiegato anche il perché di un aggettivo così categorico) linea difensiva adottata dai consulenti della Procura, il Prof. Meluzzi sottolineava come tale linea non risponda al quesito di base che viene posto, ed evidenziava inoltre come il sostenere la “bontà” e la valenza probatoria di quella traccia, alla luce degli ultimi riscontri, sembri rispondere ad un criterio di tipo “esoterico” piuttosto che scientifico.

Ora, non so effettivamente se il Professore si sia lasciato andare ad una considerazione spontanea o se ci fosse, a monte, un percorso riflessivo più complesso, tuttavia penso che questa constatazione riassuma un concetto fondamentale, che poi è lo stesso sotteso alla battuta (ironica solo in minima parte) riportata nell’articolo precedente, secondo la quale, a questo punto, solo il Divino Otelma potrebbe risolvere il busillis.

Il grande antropologo Lucien Lévy-Bruhl dedicò una serie di studi ai popoli primitivi, caratterizzati da culture con una netta preponderanza di un pensiero di tipo “magico”.
Lo studioso parlava, a tal proposito, di “prelogismo”, volendo con ciò evidenziare la differenza ed il distacco di simili concezioni rispetto al pensiero sviluppatosi a partire dalla nascita della logica classica, in seno alla quale vennero elaborati, per la prima volta, i principi di identità e non contraddizione.

Il principio di non contraddizione, alla base del pensiero razionale e scientifico, afferma la falsità di ogni proposizione che implichi un fatto e, in concomitanza, la sua negazione. Aristotele definisce il principio in questi termini:

“È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo .”

Applicando questo criterio razionale al caso in disamina, è chiaro che debba essere rigettato l’assurdo sulla base del quale il sig. Bossetti possa trovarsi ad essere (sulla base del DNA nucleare), e contemporaneamente a non essere (sulla base del DNA mitocondriale), Ignoto1.

E’ un criterio di tipo logico e scientifico a portare a questa conclusione, mentre la conclusione opposta risponde ad una concezione sottesa che disconosce palesemente i cardini della scienza.
A nulla vale sostenere che il dna mitocondriale abbia minor potere identificativo.
Sia chiaro: nessuno mette in dubbio questa affermazione, trattandosi di una constatazione acclarata, in quanto, mentre il dna nucleare contiene informazioni ereditate sia in linea materna sia in linea paterna, il dna mitocondriale è ereditato unicamente dalla madre ed è condiviso dall’intero ceppo materno (identico).
Se sul luogo di un delitto fosse rinvenuto il mio dna mitocondriale sarebbe dunque impossibile (essendo identico) stabilire se è mio, di mia madre, di mia nonna materna, di mio fratello e così via- mentre il dubbio si chiarirebbe definitivamente con il dna nucleare. Un’evidenza altrettanto inoppugnabile, tuttavia, è il fatto che in natura non esiste e non può esistere nessuna cellula che abbia un corredo di informazioni che rimandi a soggetti diversi nel nucleo e nel mitocondrio.

La mattina del 28 gennaio, su Radio Padania, è stato intervistato il Dott. Marzio Capra, biologo e genetista forense di chiara fama, con particolare riferimento al caso Yara e all’ultima novità del dna mitocondriale.

Il Dott. Capra, in relazione all’assurdità di questa anomalia, ha proposto il significativo paragone di una persona che si guardi allo specchio e, normalmente, vi si riconosca, ma poi si accorga, voltandosi di spalle, di essere un altro soggetto completamente diverso.
Il Dott. Capra ha anche sottolineato che già da anni era noto che quella traccia presentasse alcune grosse anomalie “difficilmente spiegabili o inspiegabili”.

Inserisco, di seguito, la trasmissione menzionata, segnalando che la parte relativa al caso Yara comincia al minuto 47:

Alcune delle anomalie cui il Dott. Capra fa riferimento furono segnatamente evidenziate dai RIS, e riprese dalla difesa del signor Massimo Bossetti nell’istanza di scarcerazione presentata a settembre.

Relazione RIS Anche in questo caso, come da copione, ci si affannò immediatamente a sminuire la cosa, tuttavia quanto sottolineato dalla difesa del sig. Bossetti rimandava ad alcune considerazioni non di poco conto.

Ci si chiedeva infatti se tale traccia dovesse davvero considerarsi “oltre ogni ragionevole dubbio”, e ce lo si chiedeva in quanto appare chiaro, dalla relazione dei RIS, ed anche il Dott. Marzio Capra ha avuto modo di soffermarsi sull’argomento, che ci troviamo quantomeno di fronte ad un campionamento ambiguo, nel quale la traccia biologica riscontrata non è visibile a occhio, a causa della forte degradazione del materiale, ma nel contempo non emerge una corrispettiva degradazione del DNA, che infatti consente non solo di estrarre un profilo completo ma si presenta, addirittura, “abbondantemente cellularizzato”, salvo poi non consentire di diagnosticarne l’origine biologica.

Tuttavia, se in relazione a queste anomalie si poteva obiettare (e si è obiettato) che non potessero inficiare i risultati ottenuti, posto che era stato in ogni caso estratto un profilo completo, non si può rispondere altrettanto di fronte all’evidenza di un dna mitcondriale non coincidente con quello dell’indagato, e nondimeno perfettamente chiaro e appartenente a persona specifica, diversa dall’indagato e allo stato non identificata.

Al fine di spiegare meglio questa anomalia, ho chiesto delucidazioni ad alcuni biologi e genetisti, e le spiegazioni ricevute mi sembrano del tutto incompatibili con la linea assunta dai consulenti della Procura di Bergamo e dai loro amici e colleghi; cosa peraltro del tutto comprensibile: in tempi non sospetti inserii nel blog una traduzione, fatta dall’amico Rocco Cerchiara, di Forensic DNA Evidence. The Myth of Infallibility, del Prof. William C. Thompson, che stigmatizzava a più riprese (con riferimento a casi concreti nella casistica statunitense) la reticenza dei laboratori coinvolti nell’ammissione di eventuali errori.

A tal proposito è interessante notare come questa evidenza paia turbare i sonni di molti, causando una serie di imbarazzanti inversioni di tendenza.
Così, c’è chi fino a qualche giorno fa riteneva che, nel caso di specie, fosse impossibile (peraltro non si capisce su quale base) che potesse configurasi un’ipotesi di trasferimento secondario del dna o una contaminazione, ed ora sostiene con veemenza queste ipotesi, ovviamente -ça va sans dire- limitandole al solo DNA mitocondriale, e senza che alcuna considerazione realmente scientifica di fondo possa avvalorare un simile quadro.
Allo stesso modo, c’è anche chi fino a poco tempo fa si palesava garantista ritenendo prospettabile l’ipotesi del trasporto ma, alla luce della non corrispondenza del dna mitocondriale, sembra aver maturato un inspiegabile livore nei confronti della difesa del sig. Bossetti, arroccandosi in una posizione che potrebbe essere riassunta in questi termini: “difendetelo pure, ma nessuno parli di dna mitocondriale!”

Esempi che ben mostrano, purtroppo, il volto di una scienza che si risolve in malleabili formule di stile, un contenitore vuoto nel quale inserire tutto e il contrario di tutto secondo la convenienza del momento.

Dopo aver evidenziato tutto questo, la questione che vorrei sollevare è, di fatto, una sola. Orbene, se qualcuno nei salottini televisivi non ha avuto molti peli sulla lingua nel dichiarare che gli importa relativamente poco del sig. Bossetti, io ne ho ancor meno nell’affermare che a me non importa assolutamente nulla di quanti, di fronte ad una clamorosa cantonata, potrebbero vedere stroncata la propria fiorente carriera.

Detto questo, e posto altresì che di fronte ad una Procura (il cui discutibile modus operandi è stato, in queste pagine, abbondantemente illustrato) che ha avuto ed ha a disposizione milioni di euro pubblici, e ad un operaio che protesta la propria innocenza e al quale non posso che credere, a questo punto per ragioni palesi, non ho dubbi su quale posizione sia dovere etico e civile assumere, penso che le cose, laddove chiare, debbano essere ribadite, e lo faccio subito, ripetendo che in natura non è scientificamente possibile che nella stessa (e poi vedremo perché ribadisco la parola stessa) cellula ci sia il dna mitocondriale di un soggetto e quello nucleare di un altro.

Vorrei a questo punto riportare alcune considerazioni scientifiche, scusandomi anticipatamente per l’eventuale inadeguatezza terminologica o altre piccole “sbavature” in tal senso, ma si tratta di cose che mi sono state spiegate, da esperti di settore, per mezzo di esempi adeguati ai “non addetti ai lavori”.

Come anticipato, è del tutto inutile sostenere che sia maggiormente identificativo il dna nucleare, in quanto caratteristica precipua della scienza e del metodo scientifico è la ripetibilità di esperimenti e risultati: è proprio a questo che la scienza deve la sua robustezza, ed è in virtù di questo che si distingue dalla superstizione e dalla ciarlataneria.

In un contesto scientifico, se si ha un protocollo e lo si ripete, il risultato è sempre il medesimo, ed in caso contrario è l’intero procedimento a risultare travolto.
Insomma, mettiamoci d’accordo: se, come ci è stato ripetuto per mesi, “la scienza non mente”, non mente neppure quando scagiona l’indagato e neppure quando, evidenziando un errore a monte, mette a rischio gli scranni di tanti illustri signori.

Alla luce dei presupposti sui quali si basa il metodo scientifico, implicante appunto la riproducibilità degli esperimenti e la compatibilità dei risultati ottenuti, se si ha una cellula con il dna nucleare di X, anche il dna mitocondriale deve essere di X.

Se ciò non accade qualcosa non va e anche se di norma l’identificazione si fa per mezzo del dna nucleare (in quanto contenente un maggior numero di informazioni), ovviamente la si fa nella prospettiva che il dna mitocondriale sia della stessa persona, essendo il contrario impossibile in natura: ribadisco il concetto “impossibile in natura” perché, nel caso di specie, vi è una impossibilità per ragioni squisitamente scientifiche di qualsivoglia ipotesi alternativa, come illustrerò nelle righe successive.

“Merita” a questo punto di essere richiamata un’altra ipotesi prospettata dai consulenti della Procura, secondo i quali il mtDNA del sig. Bossetti sarebbe stato “coperto”: questa tesi propone un caso che appare non prospettabile nel caso di specie.

Anzitutto, è chiaro che se un dna mitcondriale può essere coperto, di certo non può materializzarsene un altro ex nihilo, cosa che invece dovrebbe essere evidentemente accaduta in questo caso.
Su questo aspetto, non credo si possano sollevare obiezioni, se non proponendo un Ignoto2, con il mtDNA di Ignoto1 che scompare, mentre nel contempo scompare il dna nucleare di Ignoto2.

Se si vuole proporre una soluzione di questo tipo, o siamo di fronte ad un miracolo tanto grande ed evidente da far annichilire qualunque adepto del CICAP, oppure, più prosaicamente, ci troviamo di fronte ad una clamorosa arrampicata sui vetri.

La prima considerazione da fare, infatti, può essere riassunta in termini molto spicci: non prendiamoci in giro.
Un’ipotesi di questo tipo implicherebbe una serie di avvenimenti tanto incredibili da non avere neppure la minima parvenza di credibilità sul piano sostanziale: bisognerebbe infatti postulare due diversi agenti che lascino una traccia biologica esattamente nel medesimo punto ed in secondo luogo bisognerebbe postulare una scomparsa “selettiva” delle parti “scomode” dei rispettivi dna.

Ci troviamo di per sé dinnanzi ad una ipotesi estremamente risibile, ma in realtà esistono anche ragioni di tipo scientifico che portano a ritenere che questa soluzione nel caso in disamina sia del tutto impossibile.
Affinché una parte del dna venga “coperta” devono ricorrere una serie di condizioni che in questo caso non sono soddisfatte.
Per mostrare come una parte del dna di un soggetto possa essere “coperta”, faccio un esempio pratico, lo stesso che è stato fatto a me.

Si tratta di un esempio “scolastico” e diverso dal caso in esame, finalizzato unicamente a comprendere il meccanismo di fondo.
Il mio sangue gocciola sul campione di tessuto epidermico di X.
Supponendo che accada che nella mia goccia di sangue non ci siano globuli bianchi ma solo piastrine e globuli rossi, nel momento in cui andassi ad analizzare la traccia troverei una popolazione finale mista, con nuclei solo di X ma con mitocondri miei e suoi, perché i globuli rossi non hanno nucleo.
Questo accadrebbe perché quando si sequenzia un frammento di DNA la popolazione minore in una situazione mista è sfavorita, a volte tanto da sembrare un rumore di fondo e (questo dipende molto dai kit utilizzati) da non essere rilevata.

Allontanandoci dall’esempio scolastico e prospettando un caso autentico, la possibilità astratta si configura in questi termini: sia il nucleo sia i mitocondri sono protetti da una membrana, per cui una rottura della cellula non implica necessariamente anche la rottura del nucleo o dei mitocondri; di conseguenza, nel caso di una traccia mista, con più contributori, può verificarsi che nuclei e mitocondri di persone diverse si mischino nella medesima traccia e che la componente minore, sfavorita, non venga rilevata.

Affinché un’ipotesi di questo tipo possa in concreto verificarsi, è però necessario che le cellule non siano integre (devono essere spezzate, ridotte in frammenti), condizione che non è affatto soddisfatta nel caso di Ignoto1.

A dirlo, ancora una volta, non sono i consulenti della difesa, ma la relazione dei RIS richiamata nell’ordinanza che definisce la traccia come “abbondantemente cellularizzata”. Fluido-cellularizzato Abbondantemente cellularizzata significa, in genetica forense ma anche in Italiano, che le cellule sono integre, in caso contrario il fluido non potrebbe mai essere definito cellularizzato, perché non ci sarebbero cellule, ma frammenti, e meno ancora potrebbe definirsi “abbondantemente cellularizzato”.

Posto dunque che il dna mitocondriale del sig. Bossetti non può, nel caso concreto, essere stato “coperto” dalla componente biologica di Yara o di un terzo, è evidente che ci troviamo di fronte ad una situazione nella quale è impossibile sostenere con sicumera che il sig. Bossetti sia Ignoto1.

Appare peraltro strano un errore interpretativo sul dna mitocondriale perché, come evidenziato nel precedente articolo, sussistono elementi di fatto che fanno sospettare che tale esito negativo non sia stato ottenuto ora per la prima volta.

A questo punto le spiegazioni mi pare siano solo due, ed entrambe portano alla medesima conclusione: Massimo Bossetti non può essere scientificamente considerato Ignoto1.

Il teorema viene travolto sin dalle fondamenta, in quanto se in una cellula il dna mitocondriale non appartiene all’indagato, non ci può essere, nella parte nucleare, nessuna decantata “naturale corrispondenza su 21 marcatori autosomici STR”.

Infatti, posto che in natura, come sopra evidenziato, non esiste e non può esistere nessuna cellula che abbia un corredo di informazioni che rimandi a soggetti diversi nel nucleo e nel mitocondrio, o siamo di fronte ad un frutto di laboratorio, nel qual caso la corrispondenza non può dirsi “naturale”, o -se si vuole sostenere che si tratta di un dna naturale e posto che nessuno sembra contestare la non corrispondenza mitocondriale, peraltro messa nero su bianco da consulente della pubblica accusa- c’è un errore (di tipo procedurale o meramente interpretativo) per quanto attiene alla parte nucleare e non c’è, consequenzialmente, la corrispondenza su tutti i 21 marcatori autosomici.

In questo caso, che tuttavia è una semplice ipotesi al momento non suffragata da elementi certi e che dunque suggerisco di prendere con il dovuto beneficio di inventario, potrebbe darsi che la corrispondenza esista ma sia in realtà inferiore a quella prospettata, magari comunque alta ma non completa, cosa che potrebbe trovare spiegazioni congrue nelle “sottopopolazioni”: è attestato, infatti, che gli appartenenti a sottopopolazioni (quale potrebbe essere, ad esempio, quella della Val Seriana) tendono ad avere dna simili, tanto da provocare, talvolta, effetti distorsivi considerevoli sulla random match probability (Jobling&Gill, 2004).
Per il resto, c’è da sottolineare altresì che una sopravvalutazione della corrispondenza potrebbe essere dovuta al fatto che mi pare chiaro che la comparazione non sia stata effettuata in cieco, ossia tra il 15 e il 16 giugno si sapeva bene di star comparando il dna di Ignoto1 con quello della persona sospettata di essere Ignoto1: questa consapevolezza può causare, anche del tutto involontariamente, errori interpretativi, dei quali la casistica statunitense è costellata.

In conclusione mi pare si possa dunque affermare che il tanto decantato cavallo di battaglia della Procura di Bergamo si sia rivelato un cavallo zoppo, o forse dovremmo dire un cavallo inesistente.
Lascio ai lettori la valutazione dell’atteggiamento tenuto, in merito, dalla Procura di Bergamo, e mi limito ad una considerazione giuridica.

L’articolo 25 della nostra Costituzione sancisce il principio di riserva di legge delle norme penali, di ascendenza illuministica, che porta con sé un triplice corollario: il principio di precisione, che vincola il legislatore a formulare le norme penali nel modo più chiaro possibile, il principio di tassatività, che lo vincola a formulare norme incriminatrici rispettose del divieto di analogia della legge penale, e infine il principio di determinatezza, che impone al legislatore di incriminare solo fatti suscettibili di essere accertati e provati nel processo.

Tale principio fu elaborato da Montesquieu e successivamente approfondito da Feuerbach e dall’italiano Beccaria.
In questa sede non parliamo di legislazione, dunque il richiamo potrebbe apparire improprio, ma se si riflette sulla ratio di questo principio e dei suoi corollari, i quali implicano che le decisioni sulla libertà di un individuo non possano e non debbano essere rimesse all’arbitrio di un giudice privo di limiti ben delineati, diviene chiaro il perché la scrivente ritenga che, sulla base delle ultime risultanze, il sig. Massimo Bossetti non dovrebbe, in un Paese civile, neppure essere rinviato a giudizio, ma scarcerato con tante scuse, che dovrebbero quanto prima prendere il posto della strenua negazione dell’evidenza.
Ho parlato più volte, in questa pagine, del paradosso del iudex peritus peritorum in relazione alla prova scientifica: ma se la prova scientifica si configura come prova insussistente e piegata ad interessi d’altro calibro, la questione diviene ben più grave, e il rischio è proprio che si decida inaccettabilmente ad libitum sulle sorti di un cittadino.

Questa vicenda è costellata di troppi errori e di troppi dubbi.
Dubbi che si sono conficcati come spine nella coscienza di chiunque abbia seguito il caso in maniera autenticamente critica sin dall’inizio.
Dubbi che portano ad un’unica conclusione: da oltre sette mesi, nella casa circondariale di Bergamo, è rinchiuso un innocente.
Per mesi ci è stato ripetuto che “il dna non vola” (frase peraltro del tutto risibile, posto che il dna, pur non volando, è trasportabile e la prova scientifica dovrebbe essere decisamente demistificata), ora la prospettiva di mitocondri volanti sembra allettare gli stessi solerti sostenitori della prima ora della frase di cui sopra.

Io credo che ci sia più di una persona che dovrebbe farsi, quanto prima, un accurato esame di coscienza.
Nelle aule dei nostri Tribunali campeggia la scritta secondo la quale “la legge è uguale per tutti”.
Anche le leggi scientifiche sono uguali per tutti, e lo sono anche quando scagionano Massimo Bossetti.

La festa è finita, e siete stati voi a metterlo nero su bianco: scarceratelo, perché nessuna carriera e nessuna spesa, per quanto ingente, vale quanto la libertà umana.

Alessandra Pilloni

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Ignoto1? Un DNA impossibile in natura. Ed ora affannatevi meno nell’arrampicata sugli specchi e liberate Massimo Bossetti

necrologio_ignoto1 “I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera.” (Edoardo Mori, giudice)


Articolo scritto a sei mani con Laura e Sashinka.

In data primo agosto, pubblicai su questo blog un articolo intitolato Il re è nudo: siamo tutti Massimo Bossetti: in questo articolo, nell’evidenziare la crescente disinformazione sulla vicenda, qui stigmatizzata sin dai primi tempi, mi permettevo di ascriverla espressamente all’assenza di qualsivoglia elemento probatorio concreto che potesse giustificare la carcerazione del sig. Massimo Bossetti.
In quell’occasione avevo altresì evidenziato una forte somiglianza della vicenda mediatico-giudiziaria relativa al sig. Bossetti con la celebre fiaba di Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, segnatamente per la nonchalance con la quale il sovrano della fiaba, conscio di essere in mutande, continuava tronfio a sfilare tra la folla.

I frequentatori abituali di questo blog saranno certamente già a conoscenza delle ultime informazioni emerse, in particolare della clamorosa non corrispondenza del DNA mitocondriale di Ignoto1 con quello di Massimo Bossetti, evidenziata non dai periti della difesa, ma dall’ultima relazione depositata dai consulenti della pubblica accusa, ed in particolare dal Dott. Carlo Previderè.
Tuttavia, dal momento che in questa sede abbiamo sempre cercato di procedere per gradi al fine di collocare ogni elemento in quadro più ampio, non rinunceremo neppure stavolta all’analisi delle notizie e pseudonotizie susseguitesi negli ultimi tempi.

Perdonate l’ironia racchiusa nell’immagine introduttiva, essa nasconde invero un’indicibile amarezza.
Ci siamo lambiccate il cervello immaginando una ricostruzione degli eventi che spiegasse un trasporto accidentale di materiale organico, ed in effetti siamo riuscite anche a trovare una cospicua casistica scientifica (nell’articolo Lo Stato di diritto ai tempi dell’austerity: se “la scienza non mente”, è bene che non menta per nessuno abbiamo anche inserito specifiche tabelle con dati tecnici, tratte da una nota pubblicazione nell’ambito della genetica forense) e giudiziaria, che non manca di episodi eclatanti.

Naturalmente non ci rimangiamo nulla di quanto scritto fino ad ora, in quanto ci siamo sempre preoccupate di proporre ipotesi giuridicamente e scientificamente accurate, che restano dunque del tutto valide.
Dobbiamo però dire, a questo punto, che proprio nel nome dell’accuratezza delle informazioni e intimorite dalla prospettiva di potere, ventilando ipotesi infondate, arrecare al sig. Bossetti più danni che benefici, abbiamo sempre cercato di respingere in fondo allo stomaco il dubbio di un errore di laboratorio commesso a monte, perché sarebbe stato troppo anche per noi, ipercritiche nei confronti degli investigatori e diffidenti verso la Procura, credere che si lasciasse marcire un uomo in galera per una questione che si riduce al detto “mors tua vita mea”.

Certo lo avevamo ipotizzato, ma più per esorcizzare il pensiero di una simile bestialità che per la convinzione che stesse avvenendo davvero.
Avevamo tuttavia più di una volta, sia pure con discrezione, lasciato trasparire la possibilità di un errore in tal senso, specie dovuto a contaminazione, sottolineando come la cosa, sempre rabbiosamente respinta da opinionisti e presunti esperti negli ultimi mesi, non avrebbe certo costituito una novità nel panorama investigativo e giudiziario nostrano. Gongolare non fa onore e, a dire il vero, non è nemmeno giunto il tempo per farlo, nonostante si possa ormai affermare con sufficiente tranquillità che la traccia biologica che da sette mesi tiene (peraltro indebitamente, vedi qui: AAA cercasi “un giudice a Berlino”: perché la mancata scarcerazione di Bossetti dovrebbe preoccupare tutti noi) in carcere il signor Bossetti, è quantomeno –nella più rosea delle prospettive che si profilano ormai all’orizzonte della pubblica accusacontaminata, dunque inutilizzabile e priva di qualsivoglia valore probatorio.

In ogni caso, finché il sig. Massimo non sarà “dissequestrato”, come ha simpaticamente scritto Luca, un iscritto al nostro gruppo facebook, in un suo commento, e non verrà prosciolto da ogni accusa, non si mangeranno confetti in questa casa.

Deve essere anche chiaro che la nostra scelta di attendere ed auspicare l’immediata, specie alla luce delle ultime risultanze, scarcerazione di Massimo Bossetti non è frutto di simpatie o prese di posizione personali, né tantomeno del fatto che siamo un club di persone invasate e sovversive, come la Dott.ssa Matone, magistrato, sembra considerare (vedi l’articolo Libera espressione: chimera o realtà?) i promotori di gruppi in difesa di questo o quell’indagato.
Dal canto nostro, siamo liete per le grandi e inattese manifestazioni di stima ricevute da più parti nel corso dei mesi, ma qualora ce ne fosse bisogno ricordiamo che abbiamo sempre perorato questa causa senza alcun tornaconto, diretto o indiretto, e per pura convinzione e idealismo personale.

Questo blog è il frutto del lavoro individuale e collettivo di una serie di persone che hanno deciso, dopo aver letto l’ordinanza di custodia cautelare del GIP Ezia Maccora, considerandola, ad onta del linciaggio mediatico senza pari, assolutamente fumosa, di voler discutere il caso, partendo dai propri dubbi, per capirne di più.

Nonostante alcuni di noi abbiano una formazione giuridica, in questa sede abbiamo cercato di valutare la questione sia dal punto di vista formale, sia da quello sostanziale, cercando di ricostruire i fatti: certamente, possiamo allora dire che dietro il nostro progetto c’è di più del semplice garantismo, perché mentre il garantismo è una questione meramente “formale”, noi siamo altresì convinte, sulla base di osservazioni alle quali abbiamo dedicato uno spazio considerevole, dell’innocenza sul piano fattuale del signor Bossetti.
E noi non crediamo a Massimo Bossetti -attenzione!- al fine di ostacolare il corretto svolgimento delle indagini né tantomeno per partito preso, ma gli crediamo per la semplice constatazione del fatto che in oltre sette mesi questa indagine non è riuscita a darci una sola ragione per la quale non credergli, ma anzi ha fatto di tutto per renderci sempre più convinte di quanto già pensavamo.
Nel già menzionato articolo Libera espressione: chimera o realtà?, in particolare, abbiamo individuato e discusso, tra il serio e il faceto, otto pseudonotizie spacciate per indizi a carico del sig. Bossetti dai nostri media, e in realtà autentiche fanfaluche, alcune delle quali molto imbarazzanti; al fine di capire meglio quanto accaduto negli ultimi tempi, è arrivato il momento di offrirvi qualche “nuova” (si fa per dire, perché giornali e Procura di Bergamo sembrano affetti da un’inguaribile carenza di fantasia) perla, ed in particolare di coglierne il meccanismo crono-logico di fondo, ormai chiaro a qualsiasi osservatore dotato di un Q.I. superiore a quello del fratello scemo di Mr. Bean.

Come affermato anche dall’Avv. Claudio Salvagni in un’intervista rilasciata in data 19 dicembre al Garantista con il titolo “Basta sciocchezze Tv, così rovinate un uomo” (http://ilgarantista.it/2014/12/19/lavvocato-di-bossetti-basta-sciocchezze-tv-cosi-rovinate-un-uomo/) la “macchina del fango” si è sempre attivata prontamente ogniqualvolta stessero emergendo o fossero emersi elementi a favore di Massimo Bossetti, da ultimo l’assenza di qualsivoglia riscontro negli accertamenti tecnici condotti su auto, furgone, oggetti sequestrati, telefoni cellulari.

Crediamo che questa dinamica sia ormai chiara a chiunque segua con attenzione il caso, ma di recente il tempismo e i contenuti delle pseudonotizie/veline della Procura sono stati così profondamente imbarazzanti che crediamo valga la pena di riportarli, foss’anche per non togliere ai nostri affezionati lettori il piacere di una sana risata.
In data 12 dicembre i giornali hanno diffuso, un po’ sottovoce ma su questo soprassediamo, la notizia del fatto che è stata depositata la perizia su auto, furgone e oggetti sequestrati a Massimo Bossetti, i cui risultati parlano chiaro: non è stata trovata nessuna traccia riconducibile a Yara.

Una certezza, questa, che non può essere rigirata in alcun modo, trattandosi di un accertamento tecnico irripetibile e regolarmente condotto in contraddittorio.
Appena qualche giorno dopo, in data 16 dicembre, sono arrivati i 180 giorni dal fermo, e con essi è scaduto il termine utile per la richiesta di giudizio immediato, che non è stato chiesto.
Un fatto, questo, di significato e peso notevole.
Il giudizio immediato viene chiesto, ai sensi dell’art. 453 c.p.p., “quando la prova appare evidente”.
La mancata richiesta di giudizio immediato, indica dunque che neppure la Procura di Bergamo ritiene di avere in mano prove evidenti a carico del sig. Bossetti.

I più attenti ricorderanno che per settimane, dopo il fermo del sig. Massimo Bossetti, venne strombazzata ai quattro venti la notizia secondo la quale sarebbe stato chiesto il giudizio immediato.
Le cose, evidentemente, non sono andate così, e il tempo ha dato ragione ai pochi che avevano sempre avuto l’ardire di sostenere che la Procura di Bergamo non avesse in mano nessun autentico elemento probatorio idoneo a superare il vaglio processuale.
Dal momento che per mesi e mesi era stato sostenuto l’opposto, in un mondo ideale ci sarebbe aspettato, il 17 dicembre, qualche articolo giornalistico pronto a fare mea culpa. D’altronde, se dispongono di prove solide, se tutto è chiaro sulla colpevolezza di Massimo Bossetti, per quale motivo non chiudere i faldoni e andare a giudizio?

Ma ecco che accade la sorpresa (si fa per dire), e il 17 dicembre la mancata richiesta di giudizio immediato viene, secondo i soliti moduli ormai noti, coperta con una velina che ha letteralmente dell’incredibile.

Esordiamo nella nostra analisi sottolineando che il modus operandi manifestato nella diffusione ad arte di veline, ha seguito un criterio davvero scientifico, anche se non per veridicità: sembra infatti rispondere perfettamente al terzo principio della dinamica (3ª legge di Newton).

La 3ª legge di Newton può essere espressa formalmente così: 

Le forze si presentano sempre a coppie. Se un oggetto A esercita una forza F su un oggetto B, allora l’oggetto B eserciterà sull’oggetto A una forza -F uguale e contraria”

o in termini più correnti:

“Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”

Dopo questa chicca scientifica possiamo iniziare la nostra puntata.

Non vogliamo illudere i lettori con la vana speranza di un nuovo elemento, e allora diciamo subito che il 17 dicembre, mentre tutto tace sulla mancata richiesta di giudizio immediato, rispunta, a partire dalla Stampa, la solita e sempre più imbarazzante minestra (sur)riscaldata del furgone bianco, per l’occasione con un vestitino seminuovo: i giornali e la TV ci informano di “nuovi filmati” che mostrerebbero “il furgone di Massimo Bossetti per ben un’ora ripreso a circolare nei pressi della palestra di Yara dalla videocamera di sorveglianza di un distributore” e soprattutto, cosa più divertente di tutte, “riconosciuto grazie ad una macchia di ruggine”.

Smentire la notizia è molto semplice: soprassediamo sul “riconoscimento furgoni a mezzo ruggine” (noi, poco avvezze alle nuove diavolerie delle indagini avvenieristiche, eravamo convinte che gli autoveicoli si riconoscessero sulla base della targa), che riportiamo solo al fine di scatenare l’ilarità dei lettori, e limitiamoci ad evidenziare che la notizia non può essere vera per due motivi semplicissimi.
Anzitutto la videocamera del distributore nei pressi della palestra non può mostrare nessun furgone che gira “intorno alla palestra per un’ora”, in quanto per ragioni di privacy tale videocamera “guarda” esclusivamente all’interno dell’area di servizio.
Dunque, a meno che un furgone non sia rimasto per un’ora a far benzina, quella videocamera non può aver ripreso nessun furgone “per un’ora” né tantomeno “circolare vicino alla palestra”.

L’unica cosa che può aver ripreso è uno delle decine e decine di furgoni che ogni giorno, transitando sulla strada principale di Brembate, si fermano a far benzina. In secondo luogo, non c’è nessun “nuovo filmato” né dai filmati non può saltar fuori nulla di nuovo, perché i filmati sono stati acquisiti 4 anni fa (si resettano dopo qualche mese), dunque ciò che mostrano ora è esattamente ciò che mostravano prima, ossia nulla, tanto che proprio l’assenza di qualsivoglia ancoraggio che consentisse un’indagine “tradizionale” ha portato a spendere sette milioni di euro, riesumare morti, prelevare campioni di DNA alla cieca per anni.

Pensate che le fandonie siano finite qui?
Magari!

Il Giornale ha voluto strafare pubblicando “le foto” (in realtà una sola) che “inchiodano Bossetti” mostrando il suo furgone a Brembate per 50 minuti prima della scomparsa di Yara.
Così, perlomeno, in data 17 dicembre, leggevamo sulla pagina facebook del Giornale.

mgb Alla ricerca di emozioni forti, aprivamo l’articolo, e lì scoprivamo, finalmente, la foto “che inchioda Bossetti” mostrando il suo furgone a Brembate nei 50 minuti precedenti alla scomparsa di Yara.
Eccola:

foto-furgone Non è uno scherzo, secondo Il Giornale questa foto mostra il furgone di Bossetti a Brembate in un orario compreso tra le 18 e le 18,55 circa, in data 26 novembre: è noto a tutti, infatti, che in quell’orario e in quel periodo dell’anno sia pieno giorno!

In realtà, come può essere verificato tranquillamente, c’è solo una cosa vera in quanto scritto: il furgone della foto appartiene a Massimo Bossetti.
L’immagine non risale, ovviamente, al 26 novembre di quattro anni fa, ma a pochissimo tempo prima del fermo, e non è ripresa da una videocamera vicina alla palestra: è un’immagine di google maps mostrante il furgone di Bossetti, nell’anno 2014, parcheggiato accanto all’abitazione del fratello, a Brembate.
L’immagine non è in alcun modo utile all’accusa, anzi tende ad essere utile alla difesa, in quanto mostra chiaramente che ben dopo la scomparsa di Yara il sig. Bossetti era solito passare per Brembate.

Non dobbiamo neppure sorprenderci, in quanto appare ormai chiaro che la trattazione mediatica della cronaca nera è ridotta a poco più che ad una squallida barzelletta.

Tra faide familiari, parenti serpenti, cani cercati (e di questo siamo felici pur dissociandoci dal modus operandi dell’associazione AIDAA e del suo presidente), supertestimoni passati da Medjugorje, immagini piangenti, inversioni di tendenza e, finalmente, cani ritrovati, nulla di strano che trovi spazio anche un furgone uscito direttamente dalla prima, storica serie del 1984 nota in Italia come Transformers.

Tale furgone, oltre a cambiare colore, catarifrangenti, serbatoio e forma dei fari ha evidentemente anche la facoltà di autoigienizzarsi e sterilizzarsi da solo.

Per capirci meglio, in data 9 gennaio Tiziana Maiolo ha pubblicato un interessante articolo su Il Garantista, che dato voce ad una serie di crescenti preoccupazioni e perplessità sul caso Bossetti, evidenziando il fatto che, ad onta del gran parlare di furgoni, sul furgone di Massimo Bossetti, pure rivoltato come un calzino, non si è trovata neppure una minuscola traccia di Yara.

Ci permettiamo dunque di riproporre la domanda della Maiolo: “I dati di fatto ci dicono che né sull’auto né sul furgone di Bossetti sono state trovate tracce di Yara. Quindi, se il muratore è colui che l’ha rapita, l’ha portata via a piedi o in canna a una bicicletta?”

Ora ci chiediamo: “cui prodest” tutto ciò? A chi può arrecare beneficio questo caos di informazioni distorte? I media esercitano un potere non indifferente sulle masse, e purtroppo anche sull’animus dei giudici.

Allora viene da pensare e da dire, senza timore di sorta, che non può ridursi tutto al bilancio delle vendite di materassi e impianti doccia che nel giro di qualche giorno torneranno a prezzo pieno; c’è sotto qualcosa di più grosso.

Certo è che la cronaca nera è calamita di attenzione morbosa da parte del grande pubblico e quindi fonte di grossi guadagni ma è altrettanto vero che, specialmente nei casi che non si risolvono con una confessione o con una pistola fumante tra le mani, diventa un grosso aiuto affinché le forze dell’ordine e gli inquirenti arrivino all’agognato epilogo.
E non ci sarebbe alcunché di sbagliato se il giornalismo si limitasse a narrare i fatti avvenuti senza prendere posizioni e evitasse di pontificare.
Ma purtroppo non è così. Si assiste ogni giorno ad un uso scorretto della professione (per chi è della professione aggiungo) che diviene abuso e noi, poveri don Chisciotte, ci ritroviamo inevitabilmente a portare avanti la nostra battaglia contro i mulini a vento.

Tra l’altro, come ben spiegato nel già citato e apprezzatissimo articolo di Tiziana Maiolo, le pressioni subite da Massimo Bossetti sono quanto di più indicativo possa esserci dell’assenza di prove a suo carico.

Ne riportiamo, a beneficio dei lettori, i punti salienti, che spiegano in modo davvero magistrale i motivi che ci spingono, da mesi, a ritenere questa situazione e l’intera vicenda inaccettabile:

“Alla fine lo dice anche lui: “Dal 16 giugno, il giorno del mio arresto, le hanno provate tutte per farmi confessare. Speravano che prima o poi sarei crollato… Ho ricevuto pressioni fortissime, hanno cercato di convincermi in ogni modo a confessare, hanno provato a allettarmi con il conto degli anni…”.
Lo dice anche lui, per la prima volta, Massimo Bossetti, indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, in un’intervista a Repubblica.
Non è un processo per fatti di mafia, il suo, né per terrorismo.
Pure, manca solo l’applicazione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario e il trattamento sarebbe completo. In lingua italiana si chiama “tortura”.
L’isolamento per 134 giorni, sei mesi di custodia cautelare, la gogna mediatica con la diffusione di notizia pruriginose sulla sua vita personale, su quella di sua moglie e quella di sua madre, le minacce e le violenze subite da lui e dai suoi familiari.
E la pressione continua, insistente, soffocante, perché confessi, alla faccia della presunzione di non colpevolezza prevista dalla Costituzione.
Lui resiste come solo gli innocenti sanno fare, a meno che non siano terroristi o mafiosi. (…) Nella data dell’anniversario della scomparsa di Yara, alla fine di novembre, il pubblico ministero aveva organizzato una grande parata trionfale, presentandosi all’interrogatorio dell’indagato con un corteo di accompagnatori gallonati (…)
E’ vero, c’è la coincidenza del DNA, ma non è una prova dell’omicidio, al massimo può comportare il fatto che ci sia stato un contatto (diretto o indiretto) tra l’indiziato e la vittima. Oltretutto, se non sarà possibile, per mancanza di materiale genetico, ripetere l’esame con la presenza dei periti della difesa, al dibattimento questo indizio sarà molto indebolito.
Ma soprattutto, vien da chiedersi, se gli inquirenti ritengono che quella del dna sia una prova solida, perché non andare al processo con il rito immediato? Perché insistono tanto sulla confessione se ritengono di avere ben altre frecce nel proprio arco? (…)
La situazione pare destinata ad un inquietante immobilismo.
Il mito fideistico della prova scientifica non ha trovato finora altro supporto probatorio.
La vita del carpentiere quarantenne è stata, come lui stesso ricorda nell’intervista, radiografata in ogni suo lato: non è stato trovato nulla, né prima né dopo la morte di Yara, che possa gettare ombre sui suoi comportamenti. Massimo Bossetti non è un pedofilo, non ci sono tracce di violenza sessuale sul corpo della ragazzina, non c’è movente plausibile per quell’omicidio (…).
E allora? Fatevi una bella autocritica, cari magistrati inquirenti con annesse forze dell’ordine che tanti errori hanno fatto nelle indagini fin dal primo giorno, quel 26 novembre del 2010, quando Yara sparì e non si sapeva neppure se fosse viva o morta. Fate l’autocritica e cominciate con lo scarcerare Massimo Bossetti, invece di torturarlo per un’improbabile confessione. Il 25 febbraio ci sarà la discussione in cassazione, dove i giudici, dopo i dinieghi del gip e del tribunale del riesame, dovranno decidere sulla richiesta di scarcerazione presentata dal legali di Bossetti.
Ci sarà un giudice a Berlino? A noi basterebbe un giudice Corrado Carnevale ad applicare la legge.”

In attesa del nostro giudice a Berlino, comunque, portiamo avanti la nostra trattazione e vediamo un altro interessante caso di applicazione della terza legge di Newton.

Qualche tempo fa, il pool difensivo del sig. Massimo Bossetti, ha fatto sapere di star seguendo una pista alternativa.
Per una trattazione più puntuale dell’argomento, vi rimandiamo all’articolo C’è una testimone che scagiona Bossetti, pubblicato su Il Garantista e ripreso in questo blog: ai fini del nostro articolo, ci limitiamo a riassumere brevemente la vicenda.
Il pool difensivo ha rintracciato una donna (che, ci teniamo a sottolineare, non spunta dal nulla dopo quattro anni, ma già anni fa raccontò la vicenda) che anni fa aveva conosciuto un giovane operaio romeno in cerca di alloggio.
Questo operaio le raccontò di una ragazza, della quale si diceva innamorato, chiamata Yara. La donna, incuriosita dal nome, le chiese se si trattasse di una ragazza straniera, e lui rispose che no, era una ragazza minorenne della provincia di Bergamo, una ginnasta.

Il 26 novembre, giorno della scomparsa di Yara, il giovane operaio chiamò la signora, chiedendole se poteva andare da lei a fare la doccia perché in partenza per la Romania. Il giorno dopo chiamò la signora per dire di essere arrivato, ma la chiamata apparve brusca e frettolosa, tanto che la donna, stupita, provò a richiamarlo, trovando per tutta risposta una segreteria estera.
Tale testimonianza, come chiaro a chiunque legga integralmente l’articolo sopra citato, potrebbe essere dotata di fondamento, ma la Procura di Bergamo, innamorata della sua tesi, evidentemente conduce un’indagine a senso unico.
Ecco, infatti, cosa ha dichiarato a Sky l’Avv. Claudio Salvagni: “La Procura non ci è venuta incontro: avevamo chiesto un elenco di telefoni per vedere se questa persona fosse passata di lì ma ci è stato negato. Ricordo a tutti che il pm deve cercare anche gli elementi a favore dell’indagato.”

Bisogna a questo punto aggiungere una cosa: poco male se la Procura si limitasse a non cercare eventuali elementi a favore dell’indagato, il punto è che anche in questa occasione, dopo la diffusione della notizia sui giornali, si è attivato il solito meccanismo della “legge di Newton”: ebbene, a noi piacerebbe che la Procura smettesse di trincerarsi dietro uno squallido gossip e rendesse conto al Paese intero di cosa ha fatto e non fatto per quattro anni e di cosa sta facendo ora.
Ecco, infatti, che arriva la contromossa.

Notizia shock, titolano giornali e giornaletti, una supertestimone “spunta” e dopo quattro anni ricorda di aver visto Yara e Bossetti in auto nei pressi della palestra.
Peccato che le cose non stiano così: una donna, dopo quattro anni e mesi dopo lo stesso fermo di Bossetti, senza mai aver fatto prima una sola parola del fatto, sostiene di aver visto in un’auto un uomo biondo (che non ha alcuna certezza sia Bossetti) e una ragazza (che non ha alcuna certezza sia Yara).
Il sospetto di trovarsi di fronte ad una barzelletta di cattivo gusto è d’obbligo, e lo stigma va, in parti uguali, a chi ha dato in pasto ai media una simile “notizia” e a chi, cosciente del suo valore pari a zero, non solo l’ha pubblicata, ma l’ha altresì distorta incollandola all’indagato.

Per riassumere lo squallore della vicenda, ci permettiamo di inserire un ottimo commento, che condividiamo appieno, scritto su facebook da un amico, l’avvocato Arles Calabrò: “Alle tue riflessioni vorrei aggiungere un mio pensiero. Potrei farlo in modo diplomatico, moderatamente, come si addice a tutte le persone sagge (forse un po’ bugiarde), ma in realtà lo voglio esprimere in tutta sincerità , perché spesso, a mio avviso, il confine tra diplomazia e ipocrisia è davvero labile e non si può sempre far finta di nulla, essere falsi, moderati, diplomatici (soprattutto quando si parla della morte di una ragazza, della libertà di una persona forse innocente e della vita di intere famiglie: c’è un limite alla diplomazia e c’è anche un limite al disinteresse verso certe dinamiche.) Ovviamente anche questa testimonianza, come tu hai ben evidenziato, altro non è che una grande bufala (una delle tantissime) che ci hanno propinato per raggiungere un duplice obiettivo: chi ha diffuso la notizia cerca in tutti i modi possibili – anche con questo giochetto- di influenzare l’opinione pubblica (e i giudici) della colpevolezza di Bossetti, mentre chi l’ha resa pubblica, oltre a questo obiettivo, ha anche quello di fare quanto più audience possibile, o di vendere qualche copia in più. Ovviamente tutti coloro che l’hanno diffusa e tutti coloro che l’hanno resa pubblica sanno benissimo che si tratta di una notizia vera, ma palesemente gonfiata ad arte, visibilmente tendenziosa, che, per giunta, offende anche l’intelligenza di chi guarda certi programmi o di chi legge certi giornali. Un esempio per capirci meglio (si usa dire così, ma già so che noi ci capiamo benissimo). Anche nel caso della povera Elena Ceste si registrarono DECINE e DECINE di “testimonianze” di persone pronte a giurare di aver visto la povera donna in giro per l’Italia, (e nel mondo, addirittura), queste persone erano sicurissime e alcune di queste “testimonianze” furono riportate pedissequamente dai media, anche per intere settimane. Tantissimi programmi televisivi all’epoca camparono propinandoci a raffica queste notizie. Ovviamente tutti sapevano e sanno che si tratta di persone influenzate dai media, suggestionate, le quali, magari anche in buona fede, credono di vedere persone o cose che in realtà non si trovavano lì in quel momento. Per ogni caso mediatico di queste “testimonianze” ce ne sono DECINE E DECINE. Questo lo sanno benissimo coloro i quali diffondono la notizia ma lo sanno benissimo anche coloro i quali la pubblicizzano. Ma conviene loro far finta di niente e farle passare come “notizie bomba”, “novità clamorose”. Ieri un famoso programma televisivo intitolava: “clamorosa testimonianza”, “testimonianza choc di una donna che ha visto Yara e Bossetti parlare in macchina”. Ovviamente la signora in questione non ha alcuna certezza – e lo ha detto- che quelle due persone fossero realmente Yara e Bossetti, ma per i nostri giornalisti e per chi l’ha diffusa la notizia è “clamorosa”, “choc,” “bomba”. Con questo non voglio dire che tali testimonianze non vadano acquisite da chi di dovere (ogni strada va tentata, ci mancherebbe) ma voglio solo sottolineare la malafede di taluni e lo squallore che ormai inonda i nostri schermi. Le tragedie si trasformano in business (di ascolti e di copie vendute) e la forte sinergia tra taluni (quelli che diffondono le notizie) e talaltri (quelle che le pubblicizzano) è talmente forte che diventa quasi impossibile per i collegi difensivi replicare a cotante fandonie, idiozie, falsità, bugie e nefandezze. Un altro esempio. Poco tempo fa, come tu sai benissimo, sempre sullo stesso caso, molte testate giornalistiche intitolavano: “Incontrai Bossetti al cimitero, mi chiese se era bella la mia sorellina”. (testate nazionali, sia ben chiaro). Anche qui, l’obiettivo di chi diffuse la notizia e di chi poi la pubblicizzò era sempre lo stesso: chi l’ha diffusa voleva convincere il popolo (e i giudici popolari e togati) che Bossetti sia un pedofilo (o comunque uno a cui piacciono le bambine), mentre chi l’ha pubblicata aveva lo stesso obiettivo a cui si univa anche lo scopo di vendere quante più copie possibili. Ovviamente, anche in questo caso, la notizia era palesemente tendenziosa: la sorellina in questione aveva oltre quaranta anni e Bossetti si era limitato a fare un complimento alla signora, chiedendole, appunto, se la di lei sorella fosse affascinante come la sua interlocutrice. Un ultimo esempio. Dopo la notizia vera e di assoluta rilevanza relativa alla mancanza di tracce di Yara sul furgone, sugli oggetti, nell’auto ecc, con una puntualità davvero imbarazzante, dall’altra parte, ci hanno propinato un’altra notizia palesemente gonfiata e tendenziosa. Bossetti si sarebbe aggirato per 50 minuti con il suo furgone nei pressi della palestra di Yara proprio nell’orario in cui Yara sparì. Questa è un’altra notizia-immondizia. Non vi è alcun bisogno di aspettare il dibattimento, per verificarne la veridicità: palle di questo genere vanno immediatamente cestinate, respinte subito al mittente, perché hanno sempre e quell’unico obiettivo di cui sopra. In quella via, quel giorno, come ogni giorno, passarono centinaia di furgoni. E (e sottolineo se) anche Bossetti passò di là, passò unicamente per tornare a casa, quindi una sola volta (come faceva tantissime volte tornando dal lavoro). Questa ulteriore balla va smentita subito (e lo si è fatto), perché se lo si fa dopo è troppo tardi. E’ evidente che si tratta di notizie false e tendenziose tese a ingenerare nell’opinione pubblica (e nei giudici) la convinzione che quell’uomo sia colpevole. Le immagini di quelle telecamere sono in possesso degli inquirenti da ben 4 anni, quindi è davvero squallido che taluni (con una puntualità impressionante, cioè subito dopo le risultanze di cui sopra) ce le propinino dopo tutto questo tempo facendole passare come delle verità assolute quando anche il più ingenuo di tutti gli ingenui sa benissimo che identificare con precisione il furgone di Bossetti per 50 minuti nei pressi della palestra è praticamente impossibile. Potrei andare avanti all’infinito con questi esempi per sottolineare lo squallore che connota tutti (nessuno escluso) i processi mediatici: con il caso Bossetti, poi, a mio avviso, abbiamo davvero raggiunto la vetta assoluta. Ma tutti questi aspetti, tu già li conosci e anche meglio di me. Purtroppo le autorità che dovrebbero controllare (privacy, minori, comunicazioni) stentano molto ad intervenire e anche la stragrandissima maggioranza degli addetti ai lavori (avvocati, magistrati, criminologi ecc) si fanno appassionatamente i fatti loro, perché nessuno osa toccare questi due poteri fortissimi. Molto hanno paura, tanti altri sono servili e si inzittiscono per convenienza (le riflessioni, sul punto, sono sempre molto diplomatiche, moderate e, quindi, false). Il risultato? Il risultato è che la verità storica viene completamente stravolta da una veritià mediatica costellata da finti scoop, notizie palesemente false, gonfiate e tendenziose, tese unicamente a mostrificare la figura dell’indagato e ad ingenerare nell’opinione pubblica (e nei giudici) la convinzione che quello stesso soggetto sia davvero colpevole (ovviamente in mancanza assoluta di prove, perché laddove le prove ci fossero davvero non vi sarebbe alcuna necessità di avvalersi di questi squallidi giochetti).”

Crediamo che sul punto non siano necessari ulteriori commenti, oltre al sentito consiglio ai nostri lettori di farsi prescrivere dal proprio medico curante un buon antiemetico da assumere prima della lettura di alcuni giornali o la visione di alcune trasmissioni.

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Vorremmo però sottolineare un altro aspetto che si lega al suddetto meccanismo e che porta, appunto, alla sostanziale distorsione delle notizie originarie nel momento in cui rimbalzano da una fonte giornalistica all’altra.
Che non esistano più i giornalisti di una volta, autenticamente mossi da spirito critico e desiderio di informare, lo abbiamo detto tante volte: non esiste più, con buona pace di Hayek, neppure la concorrenza nel mondo del giornalismo.

Lo scopo di quanti si occupano di cronaca giudiziaria, ed in particolare di cronaca nera, infatti, non è quello di fare informazione, ma di restare nella cricca dei cronisti ammessi alla “indiscrezioni” degli inquirenti, vere o false che siano.

Così, accade che i giornali riportino tutti la stessa velina preconfezionata, spesso senza verificarne la veridicità, parandosi il sederino a vicenda, in quanto se qualcuno scegliesse, sciaguratamente, di allontanarsi per un attimo dalle sottane delle Procure, resterebbe privo della “notizia shock” (o la bufala shock) quotidiana con la quale compiacere i magistrati e solleticare la pruderie del popolino.
A titolo d’esempio, ci limitiamo a citare un caso relativo alla vicenda.

In data 22 settembre, La Repubblica, violando il segreto istruttorio e la privacy di un’intera famiglia, pubblicò stralci dell’interrogatorio a Massimo Bossetti.

In questo interrogatorio al sig. Bossetti (che nell’interrogatorio successivo, comprendendo l’andazzo, ha pensato bene di avvalersi della facoltà di non rispondere: ne approfittiamo per fargli i nostri più sentiti complimenti, dal momento che la sua buona fede è sempre stata travisata ed anzi ritorta contro di lui, come ben evidenziato nell’articolo Lo strano caso del muratore che acquistava materiali edili) vennero rivolte domande relative alla vita familiare, nonché alla vita sessuale con la moglie: uno squallore mediatico così eclatante che intervenne al Garante della Privacy imponendo il blocco alla divulgazione dell’articolo e redarguendo la stessa Procura di Bergamo.
Inutile dire che l’appello cadde nel vuoto.

Comunque, in questi stralci c’era anche un’altra domanda, eccola:

PM: come mai, Bossetti, ha avuto paura quando l’hanno portato in carcere?

Sull’acume della domanda evitiamo di commentare …”che è meglio”, direbbe qualcuno, ma la cosa incredibile è un’altra.
Dopo qualche giorno, questa domanda viene manipolata così tanto dai media fino a trasformarsi nella notizia-bufala secondo la quale Bossetti, impaurito, avrebbe cercato di scappare vedendo la polizia.
Smentire la notizia è semplicissimo: basta leggere l’ordinanza di non convalida del fermo. Non a caso il fermo non è stato convalidato, non sussistendo alcun pericolo di fuga giacché l’indagato non ha mai dato segno di voler fuggire.

ord.maccora ord.maccora1 Ma chi va a leggere l’ordinanza del GIP, e soprattutto a mettere in discussione i taglia e cuci di giornali e salottini? Nessuno.

Ed è così che dell’informazione non resta che una tomba.

Segnaliamo questo esempio anche per mostrare quanto i media abusino delle scarse conoscenze tecniche e settoriali, in questo caso giuridiche, della maggior parte dell’opinione pubblica (che non sa quali siano i presupposti richiesti per la convalida del fermo) per propinarle scientemente una marea di fandonie.

Per quanto riguarda un ultimo aspetto relativo alla questione della testimone della difesa e alla “legge di Newton” in azione, vorremmo anche sottolineare l’aplomb con il quale pare presentarsi la malattia del secolo: l’ipocrisia.
In un noto salottino televisivo, infatti, ecco che il conduttore afferma, con  palese tono di disapprovazione e un’espressione di disgusto, in opposizione alle dichiarazioni del dott. Denti che illustra la pista seguita nel corso di indagini difensive durante le quali sarebbe emersa l’esistenza di un uomo intenzionato a prendere in affitto un appartamento per sé e per la sua ragazza (una minore di nome Yara a suo dire), che a lui importa relativamente poco di Bossetti (e su questo non avevamo dubbi), poiché gli preme maggiormente non infangare la memoria di una ragazzina che non va “bollata” come una che poteva aver allacciato una relazione sentimentale alla luce della sua giovane età.

Respiro.

C’è mancato poco che, come un professore di matematica isterico, cacciasse Denti dall’aula.

Ora, qui nessuno ha dimenticato che una ragazzina che si affacciava alla vita è stata strappata agli affetti e nessuno vorrebbe mai che un assassino o comunque un molestatore restasse a piede libero.
Detto questo non capiamo l’ipocrisia, a senso unico peraltro, sia del conduttore che di altri commentatori-vendicatori-giustizieri del web, nel sostenere l’impossibilità assoluta di una storia d’amore giovanile che coinvolga un’adolescente laddove “lui” sia l’anonimo affittuario, mentre vige una necessaria e di comodo accettazione dello stesso medesimo fatto se questo si configura tra la stessa ed il Bossetti.

Agli occhi di una persona imparziale e dotata di onestà intellettuale in ognuna delle due ipotesi non si configura un comportamento immorale da parte della bambina in quanto tale, bensì da parte di qualsiasi adulto che intraprenda una relazione con una giovane donna non intellettivamente matura per vivere una situazione del genere.
Quindi questa ostentata moralità non è altro che ipocrisia vestita da buonismo da quattro soldi.

Ma vale la pena di soffermarsi anche su un altro paio di osservazioni.
La prima è che basterebbe essere un po’ meno ipocriti per notare come né la testimone della difesa, né gli appartenenti al pool difensivo, abbiano mai detto di essere a conoscenza di una relazione di Yara.
In effetti non c’è alcuna prova del fatto che Yara frequentasse qualcuno, né la testimonianza prospettata dalla difesa dice questo: la signora sostiene che il giovane operaio romeno dicesse, magari millantasse, di stare con una ginnasta di nome Yara, cosa diversa del fatto effettivo che stessero insieme.

Infatti, se quanto dichiarato dalla testimone fosse vero, chi ci dice che il giovane frequentasse davvero Yara e non fosse, piuttosto, qualcuno che ne era invaghito e profondamente ossessionato?

Anche un quadro di questo tipo sarebbe pienamente compatibile con la testimonianza della donna e anche altrettanto interessante ai fini investigativi.

Inoltre, mentre non si capisce cosa ci sia di offensivo nell’eventualità che ad una ragazza adolescente possa battere il cuore per un ragazzo comunque giovane, di qualche anno in più, cosa capitata a tutti nell’adolescenza, ben più strano è certamente sostenere che una ragazzina frequentasse un quarantenne sposato e con prole, cosa per giunta impossibile in piccoli paesini senza che la cosa finisca rapidamente sulla bocca di tutti.

Abbandoniamo ora media e ipocrisia e inauguriamo la seconda parte della nostra puntata. Il DNA mitocondriale di Ignoto1 non è di Massimo Bossetti: non lo diciamo noi, né lo dice una perizia di parte.

Sta scritto, nero su bianco, sull’ultima relazione depositata dal consulente dell’accusa, Dott. Carlo Previderè.

In realtà la relazione dice anche altre cose molto importanti: anzitutto mette definitivamente la parola fine sulla questione dei reperti piliferi.
Nessuno di questi, infatti, appartiene a Bossetti (anche se due appartengono alla stessa persona, non identificata, cosa che evidentemente alla Procura di Bergamo pare di poco conto).

Non solo: si è anche stabilito che è la parte minoritaria della traccia mista (Yara+Ignoto1) ad appartenere ad Ignoto1 e non, come erroneamente scritto fino ad ora, quella maggioritaria: prendiamo dunque atto di aver sempre avuto ragione nel sostenere che la traccia fosse esigua, e suggeriamo a chi, tra una foto e l’altra della piccola Yara in copertina oscenamente modificata con photoshop, titolava “Bossetti perse tanto sangue” (sic), di rinunciare alla cronaca nera, onde evitare di danneggiare persone e cose, e di tornare ad occuparsi di “tartarughe sexy” e slacciamento di reggiseni su For Men Magazine.

Tornando a noi, dalla relazione si scopre anche che il dna di Ignoto1 è terminato: nessuna possibilità di ripetere il test in contraddittorio, e sappiamo bene che l’estrazione fu compiuta illegittimamente, in assenza delle parti, ossia in violazione di quanto prescritto dal nostro codice di procedura penale.

Ma non è solo la traccia a non esistere più, perché il fatto clamoroso è che anche Ignoto1 non esiste.

Non esiste ora, e probabilmente non esiste da anni.

Il DNA mitocondriale, infatti, non è di Massimo Bossetti.

L’arrampicata sugli specchi di Procura e giornalisti, nel momento in cui scriviamo, è già cominciata.
Sostengono che sia sufficiente la corrispondenza sul DNA nucleare, che il DNA mitocondriale di Bossetti sia “sparito” perché coperto da quello di Yara.

Le cose non stanno così, e non stanno così per motivi ben precisi.
Il punto è che nella relazione non c’è scritto che  il DNA mitocondriale nella traccia denominata Ignoto1, non c’è: il DNA mitocondriale c’è, ed è anche del tutto “leggibile”.

Ha solo un problema: non è di Massimo Bossetti.

In natura, ovviamente, è impossibile che una medesima cellula abbia il DNA nucleare di un soggetto e il DNA mitocondriale di un altro: e allora cosa succede, fino a ieri la scienza non mentiva, ed oggi è diventata un optional?

Pur di non ammettere l’errore s’agitano e si dimenano, arrivando a sostenere che a causa delle intemperie un campione può degradarsi, ma ovviamente solo per quanto riguarda il dna mitocondriale, dimenticando che la cosa non risolve il problema, perché anche se a causa della degradazione un DNA mitocondriale può “sparire” di certo non può materializzarsene un altro, e dimenticando, per giunta del fatto che il dna mitocondriale si degrada molto meno rispetto a quello nucleare, in quanto protetto da una doppia membrana: una caratteristica, questa, che fa sì che si riveli utilissimo, in ambito forense, proprio in caso di campioni degradati.

Leggiamo ad esempio sul sito dell’Università di Tor Vergata, e proprio a firma del Prof. Emiliano Giardina, consulente della Procura, che:

“Per le sue proprietà biologiche il DNA mitocondriale rappresenta uno strumento importante per le applicazioni forensi. Consideriamo innanzitutto le caratteristiche morfologico-strutturali. In particolare, la doppia membrana del mitocondrio protegge efficacemente il DNA da rotture e danni indotti dagli stress ambientali. In aggiunta, la natura circolare del DNA garantisce una minore suscettibilità alle esonucleasi (enzimi che tagliano il DNA), permettendo alla molecola di DNA mitocondriale di conservarsi meglio nel corso del tempo. A tutto ciò si aggiunga il notevole vantaggio di poter disporre di un numero di genomi mitocondriali per cellula enormemente maggiore rispetto al DNA nucleare, aumentando le possibilità di successo della tipizzazione. Il mtDNA è spesso usato nei casi in cui il materiale biologico è degradato o disponibile in limitata quantità. ”
figura 1 Più chiaro di così: interessante come anche la scienza sembri piegarsi ad altro genere di interessi, modificando volta a volta le proprie regole secondo la convenienza.

E’ bene anche sottolineare, per chi dice che il DNA nucleare ha “maggiore potenziale identificativo”, che la cosa non è data dalla sua maggiore affidabilità intrinseca, ma solo dal fatto che è diverso in ogni soggetto, derivando sia dal ceppo materno sia da quello paterno, mentre il DNA mitocondriale è ereditato unicamente dalla madre e per giunta è uguale, ad esempio, tra madre e figli e tra fratelli.
Ma la cosa non ha, in questo caso, nessuna rilevanza: il problema infatti non è che il dna mitocondriale può essere di Bossetti o di persona a lui imparentata nel ceppo matrilineare, il problema è che il dna mitocondriale di Ignoto1 non è di Massimo Bossetti.

Se i processi italiani proseguiranno sulla strada della tecnicizzazione esasperata, a breve potremmo annoverare casi giudiziari con aneddoti migliori di quelli statunitensi, in cui sono celebri i casi di esperti di settore tecnico-scientifico che nelle aule dei Tribunali finiscono per dire l’esatto opposto secondo che, per l’occasione, siano consulenti dell’accusa o della difesa.

Ma è bene rimarcare che queste disquisizioni sono del tutto inutili.

E’ evidente che se cellule con la caratteristica di DNA nucleare e mitocondriale diversi non esistono in natura, semplicemente la traccia di “Ignoto1” non poteva essere, ab origine, come è oggi, dunque può ormai trovare spazio solo in un’ipotetica barzelletta sui carabinieri, non certo in un’aula di Tribunale.

Non si tratta del DNA di un soggetto, né di due DNA misti, ma di un DNA impossibile: se un DNA con tali caratteristiche non esiste in natura, non può che essere esito di un intervento umano (di matrice dolosa e colposa che sia, ai fini di quanto rileva oggi in questa sede non ha importanza).

E quale sia questo intervento umano, per giunta, non potremmo mai stabilirlo essendo terminati i campioni.

“Ignoto1” non è un DNA naturale, è un pastiche di laboratorio, esito di contaminazione o d’altro scenario, e nulla significa il fatto che il DNA nucleare continui a coincidere con quello del signor Bossetti, perché quel dna nel suo complesso, in origine e in natura, non poteva e non può essere così, dunque non sappiamo cosa ci fosse e di chi fosse la traccia originariamente presente sugli abiti della piccola Yara, né lo sapremo mai essendo terminato il materiale.

Certo sarebbe stato bello, in un’Italietta in cui nessuno ammette mai i propri errori, se fosse stata la stessa Procura di Bergamo (che ora sostiene l’impossibile e pensa di portare a dibattimento “mezzo DNA” inesistente in natura e acquisito in violazione delle garanzie procedurali) dinnanzi ad un’evidenza tanto eclatante, a disporre, non prima di avergli posto le dovute scuse, l’immediata scarcerazione di Massimo Bossetti.
La cosa avrebbe contribuito forse anche a dare, una volta tanto, il buon esempio ai cittadini italiani, da parte di chi dovrebbe essere preposto alla tutela del rispetto delle regole.

Ci sia consentito, a questo punto, di portare le nostre osservazioni alle estreme conseguenze, e di interpretare la reticenza ad ammettere un errore laddove è la scienza a metterlo nero su bianco come indice di consapevolezza, da parte di qualcuno, di essere ormai disposto a tutto pur di salvare la faccia.

Così, dopo la miracolosa transustanziazione di indizi in prove e di fandonie in indizi, siamo forse giunti al punto in cui si dovrà trasformare un DNA impossibile in natura in un DNA credibile.
Non possiamo allora che suggerire una consulenza del Divino Otelma, Primo Teurgo della Chiesa dei Viventi e Gran Maestro dell’Ordine Teurgico di Elios.

mago-otelma-2- Alla difesa suggeriamo invece, ben più seriamente, di valutare la possibilità che la non coincidenza del DNA mitocondriale fosse già nota a qualcuno e sia stata scientemente omessa per sette mesi, cosa che tra l’altro spiegherebbe, in buona misura, anche accanimento e torture psicologiche finalizzate ad ottenere dal signor Bossetti una confessione (di ciò che non ha fatto).
Il nostro suggerimento non è legato ad antipatia o semplice diffidenza nei confronti della Procura, ma ad una considerazione ben più tecnica, che riportiamo anche per i lettori. Sappiamo tutti che il DNA mitocondriale viene normalmente usato al fine di effettuare i test di maternità: infatti, il dna mitocondriale si eredita dalla madre ed è del tutto identico tra madre e figli.

Dall’ordinanza sembra però ricavarsi che il rapporto di maternità tra la signora Ester Arzuffi e “Ignoto1” non è stato effettuato, come da prassi consolidata, attraverso la corrispondenza del dna mitocondriale, ma attraverso il DNA nucleare (si parla, infatti, di marcatori autosomici e alleli). comparazione_Arzuffi_Ignoto1 Sarebbe davvero interessante scoprire se si tratta di una, per quanto strana e ironica, coincidenza, o se, consapevoli della non coincidenza mitocondriale, si sia ripiegato sul DNA nucleare omettendo la circostanza nella speranza che nessuno facesse verifiche più approfondite.

Posto che il DNA del soggetto noto (perdonate il gioco di parole) come “Ignoto1”, per quanto ci si ostini ad arrampicarsi sugli specchi, è semplicemente impossibile in natura, crediamo dal canto nostro che sia giunto il momento, per qualcuno, di ammettere l’errore.

Ovviamente, andare in dibattimento con simili risultanze significherebbe solo protrarre nel tempo una pagliacciata, per giunta in modo pericoloso per la libertà di un cittadino innocente.

L’articolo 3 della nostra Costituzione, nel sancire il principio fondamentale della dignità umana porta come corollario il principio secondo il quale l’individuo non possa e non debba mai essere ridotto a mezzo per il raggiungimento di fini esterni alla sua persona: sono stati spesi milioni di euro nella spasmodica ricerca, durata anni, di un sospettato sostanzialmente mai esistito.

Noi crediamo che gli errori siano abbastanza, e che non sia necessario salvare la faccia sacrificando un capro espiatorio.

Ci permettiamo di concludere il nostro articolo rivolgendo la nostra solidarietà e le nostre parole a Massimo Bossetti, nella speranza che il buon senso di qualcuno trovi al più presto la strada di casa e torni presto ad essere un uomo libero.

Caro Massimo, questo nostro articolo oggi è scritto con la consapevolezza di saperti dietro le sbarre, stremato, stanco e forse sulla via della rassegnazione, che per fortuna, cerchi di non intraprendere per la tua famiglia e, speriamo, per noi che crediamo, ormai a ragione, che tu non sia colpevole, ma vittima di un grosso errore.

Un uomo che ha fatto sempre parlare di sé, molto tempo fa, ha scritto un libercolo dal titolo “La storia mi assolverà”, nel quale esponeva le sue idee e i motivi per cui un giorno sarebbe stato “assolto” da tutte le accuse che gli venivano rivolte.

Dedichiamo a te questo titolo oggi.

E nel dedicartelo comprendiamo, oggi più che mai, che i più pericolosi, come ben mostra la Storia, sono sempre stati i “dotti” che si nascondevano dietro alla “massa”, per giustificare le loro “oculate” nefandezze. Illustri professori, giornalisti quotati, esimi uomini di scienza che, forse, dentro di sé pensavano che ci fosse sempre bisogno di un capro espiatorio, un qualcuno per qualche motivo alto che si sacrifichi per qualche sorta di “bene” astratto.
Queste credenze medievali, per cui esistono ancora potenti convinti di virare il destino dei più deboli, a nostro avviso, possono elegantemente andare a farsi fottere.

Ora dobbiamo occuparci del dissequestro di un uomo che ha il diritto di uscire di galera e di recuperare una parte della sua vita, rubata e distrutta senza umana pietà.

Riprendendo la tendenza degli ultimi tempi, nel nostro gruppo facebook in tanti abbiamo affermato “Je Suis Bossetti”, parafrasando la frase diventata celebre in segno di solidarietà alla redazione di Charlie Hebdo. jsCi teniamo però a sottolineare che non ci sarà nessuna puntata successiva intitolata “tout est pardonné“: non chiediamo vendetta, ma vorremmo vedere, alla luce delle ultime risultanze, meno arrampicate sugli specchi, e più occhi bassi da parte di chi dovrebbe, per decenza, uscire di scena.

E come a suo tempo propose la nostra amica e collaboratrice Dott.ssa Chiara Rimmaudo, chimica d’esperienza molto attiva nel nostro gruppo facebook e che in tempi non sospetti avanzò l’ipotesi di un “pasticcio di laboratorio”, chiediamo una legge che tuteli gli indagati dall’esecrazione della pubblica piazza, dalla gogna, dal linciaggio morale: chiediamo una legge che sia denominata, esemplarmente, “legge Bossetti”, che tuteli le troppe vittime di una giustizia morta e sepolta da tempo.

Lo Stato di diritto ai tempi dell’austerity: se “la scienza non mente”, è bene che non menta per nessuno

“Il dubbio è fastidioso, ma la certezza è ridicola”

(Prof. Guglielmo Gulotta)
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In queste pagine ho parlato spesso di processi mediatici e di tutto ciò che suole denominarsi, con un simpatico neologismo, “brunovespismo”. E in effetti, ai fini di questo articolo, non c’è termine più adatto di “brunovespismo”, poiché è giunto il momento di parlare della puntata di Porta a Porta andata in onda in data 2 ottobre. Siamo in tempi di austerity, è cosa nota, ma non credevo che le nuove politiche economiche avrebbero toccato perfino i principi dello Stato di diritto. Invece, pare sia proprio così; si sa che a pensar male si fa peccato ma, come si suole aggiungere, spesso ci si azzecca, e alla luce della disparità di trattamento osservata in alcune trasmissioni televisive, verrebbe da pensare che la giustizia dei tribunali mediatici abbia fissato un’imposta anche sulla presunzione di innocenza. Un’imposta a scaglioni, come l’Irpef, ma regressiva: paga di più chi ha meno. Così, ci sono i “dottor Stasi” e i “muratori”: per i primi si fa sfoggio di un sano garantismo, per i secondi si perviene a condanne di piazza sulla base di “prove” immaginarie sbandierando tesi colpevoliste e perfino scientificamente inesatte come se non ci fosse un domani. Avevo già notato queste palesi disparità di trattamento in altre trasmissioni, ma mi permetto di evidenziarle oggi per un semplice motivo: vorrei infatti dire, pubblicamente, che finché davanti alla giustizia televisiva ci saranno i “dottor Stasi” e i “muratori”, mi sentirò pienamente legittimata a considerarla espressione di una società malata. Nulla di personale nei confronti di Alberto Stasi, che ha diritto come tutti ad un equo processo e al contraddittorio, ça va sans dire, ma è avvilente osservare come nel suo caso sia stato riservato un accurato servizio sulla difesa con l’esposizione puntuale delle contestazioni all’accusa, mentre nel caso di Massimo Bossetti tale servizio sia stato un’autentica farsa, nel quale le possibili tesi difensive venivano presentate solo per essere, almeno in apparenza, smontate senza licenza di contraddittorio. E’ bene sottolineare infatti sin dall’inizio che nella summenzionata puntata di Porta a Porta, al fine di affrontare il caso Bossetti, Bruno Vespa, forse dimenticando che il contraddittorio è uno dei principi fondanti di ogni democrazia, ha avuto la brillante idea di invitare in studio quattro volti noti (Barbara Benedettelli, Roberta Bruzzone, Simonetta Matone e Andrea Biavardi) e notoriamente colpevolisti. Il contraddittorio avrebbe forse dovuto essere dato dall’unico garantista, tra l’altro ampiamente penalizzato dal collegamento esterno, il Prof. Guglielmo Gulotta, encomiabile per i suoi interventi, ma sistematicamente interrotto senza ritegno. In una trasmissione a sfondo religioso in una teocrazia islamica il confronto sarebbe stato sicuramente maggiore. Il Prof. Gulotta, nonostante le innumerevoli interruzioni, ha detto una frase che mi ha colpita, e che ho segnalato in incipit: “Il dubbio è fastidioso, ma la certezza è ridicola”. E non avrebbe potuto usare termine più adeguato di “ridicola” per definire la caciara di affermazioni che sono state fatte, non in una discussione tra amici, vale la pena di sottolinearlo, ma in una trasmissione mandata in onda dal Servizio Pubblico pagato dai contribuenti. Potrei esordire, a titolo d’esempio, richiamando l’attenzione sul fatto che il signor Biavardi abbia dato prova di “conoscere” una relazione dei RIS diversa dalla relazione dei RIS, oppure dalle fini esternazioni della Dott.ssa Bruzzone, che riferendosi alla signora Ester Arzuffi, ed in particolare al fatto che la signora nega il contatto sessuale con Guerinoni, ha affermato che questo sarebbe il secondo caso di Immacolata Concezione. In queste pagine mi sono sempre guardata bene dal porre l’accento sulle questioni relative ai rapporti di filiazione, se non altro perché trattasi di qualcosa che non ha nulla a che vedere con le indagini, posto che il “problema” di Massimo Bossetti non è quello di essere o meno figlio di Giuseppe Guerinoni, ma la corrispondenza con la traccia biologica di “Ignoto1”, tuttavia ho voluto sottolineare questo passaggio perché da tempo non mi capitava di imbattermi in cotanta empatia nei confronti di una donna il cui figlio è in carcere da quasi quattro mesi con un’accusa infamante (e a sostegno della quale non ci sono prove), mentre il marito è malato terminale. Per il resto, chi sia il padre dei figli della signora Arzuffi, è qualcosa che non mi interessa, e che non dovrebbe interessare neppure al resto degli Italiani, anche se la cosa pare solleticare la pruderie del popolino, che dimostra, ahimè, come non sia cambiato proprio nulla rispetto all’Italietta che nel ’68 condannava per “plagio” il Prof. Braibanti, “reo”, di fatto, di essere omosessuale. A beneficio dei posteri inserisco comunque un link con le interessanti parole affidate, in data 20 giugno, dalla stessa Dott.ssa Bruzzone a Io Donna, che offrono un interessante spaccato sulla tendenza, tutta italiana, a balzare da un carro all’altro con estrema facilità: http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2014/yara_bruzzone_intervista-402147644485.shtml. E’ difficile capire cosa sia cambiato dal 20 giugno ai giorni immediatamente successivi per causare nella criminologa un’inversione a U di questa portata, ma a tal proposito mi si potrà dire che cambiare opinione su un determinato argomento è una libera scelta individuale. Concordo pienamente su questo, decisamente meno su altri aspetti: se infatti dobbiamo rendere conto del fatto che, come ormai tutti dicono, “la scienza non mente”, diviene meno chiaro come sia possibile che, nel cambiare idea, nel susseguirsi di dichiarazioni una traccia biologica “esigua e di origine non accertata” si trasformi in una traccia biologica “abbondante ed ematica”, la qual cosa ricorda un po’ la barzelletta del papà di Pierino, che dopo essere andato a pesca torna a casa con un pesce che “si allunga di qualche cm ogni volta che ne parla”. Ironia a parte, non riprendo le considerazioni sul fatto che la traccia fosse notoriamente esigua, deteriorata e di natura non accertabile: basta scorrere i precedenti articoli per trovare dei riferimenti, tratti non da opinionisti, ma dalla documentazione e dalle parole degli stessi che hanno svolto le analisi. Sulla natura non accertabile della traccia mi limito ad inserire uno stralcio della relazione dei RIS: ” (…) Tale evidenza rende di per sè non agevole la diagnosi dei singoli contributi biologici all’interno di una mistura prodotta da più soggetti; può talvolta risultare utile, in casi del genere, un approccio deduttivo, per esclusione di esiti oggettivamente verificati (es. negatività a determinati test), ma mancherebbe comunque il legame univoco: profilo dell’unico donatore — diagnosi della traccia” e questo perché nessuno dei test diagnostici “prescinde dalla integrità della struttura molecolare delle proteine che costituiscono i marcatori “bersaglio” della maggior parte di tali saggi diagnostici (emoglobina, PSA, semenogelina, ecc.)”. Mi preme di più, però, concentrarmi sulle altre considerazioni in ambito di genetica forense fatte dalla Dott.ssa Bruzzone, che genetista non è, quindi, non essendo genetista neppure io, direi che partiamo ad armi pari. Se la Dott.ssa Bruzzone vuole dunque affermare nella radiotelevisione pubblica che la traccia è “coeva” all’omicidio e che “non può essere esito di trasferimento secondario” perché in quel caso non avrebbe potuto restituire un profilo completo, a rigor di logica dovrebbe perlomeno citare degli studi scientifici che avvalorino le sue affermazioni, non da ultimo perché non stiamo parlando di questioni mondane, trucco e parrucco, ma stiamo sentenziando contro un uomo incensurato a carico del quale ci sono indizi che potremmo definire immaginari. Dal momento che non lo fa, di fronte al nuovo spettacolo del “diritto alla rovescia” e dell’onere della prova capovolto, mi prendo però la briga di citarli io, gli studi, che ben lungi dall’avvalorare alcunché smentiscono le sue affermazioni. Che il DNA non sia databile, a meno che la Bruzzone non abbia fatto la scoperta scientifica del secolo, lo sanno tutti e lo abbiamo ripetuto più volte: basta leggere qualsiasi testo di genetica per appurarlo. L’unica soluzione che trovo per ribadirlo, a questo punto, è inserire le parole a caratteri cubitali che si possono leggere sul sito dell’Associazione Identificazioni Forensi – A.I.Fo. AIFO Richiamo anche l’attenzione sul fatto che è la stessa relazione dei RIS ad affermare che non esiste ad oggi alcun metodo che consenta di datare con precisione una traccia. Nel fare riferimento a traccia “non coeva” la relazione dei RIS mirava infatti semplicemente ad escludere che vi fosse stata una contaminazione recente della traccia da parte delle stesse forze dell’ordine e nello specifico “dovute a semplice contatto manuale o ad imprudente approccio al reperto da parte del personale operante senza le cautele che il caso impone”: in quel caso infatti la traccia sarebbe stata probabilmente meno deteriorata. Passiamo alle altre note dolenti. Parto dal presupposto che, come già scrissi come introduzione all’articolo La necessità di cautela nell’uso del test del DNA per evitare la condanna di innocenti, del Prof.Michael Naughton, Università di Bristol – Sintesi di Rocco Cerchiara, una contaminazione (che può essere avvenuta in più di una fase) non può essere esclusa. Chiariamoci: nella “ricostruzione” dell’accusa ci sono dei buchi e delle contraddizioni evidenti, che farebbero annichilire in un sol colpo le presunte contraddizioni di Bossetti sui suoi spostamenti di quattro anni prima (sic). Sostenere che il corpo di Yara sia rimasto all’aperto a Chignolo per tre mesi (con la traccia nella parte posteriore del corpo e a contatto con il terreno umido) e che non ci sia stata contaminazione è scientificamente risibile. Non c’è nessuno studio che attesti una possibilità di questo tipo e, al contrario, ci sono studi (citati nell’articolo inserito sopra) che la smentiscono clamorosamente: una traccia ematica a contatto con il terreno (asciutto) non restituisce profili già dopo trenta giorni. Questo senza l’azione ulteriore di acqua, fluidi prodotti dalla decomposizione del cadavere, saprofiti. Se ci si vuole basare sulla scienza, non si possono salvare capra e cavoli: o Yara non è rimasta a Chignolo per tre mesi, o la traccia non era lì sin dall’inizio. Tertium non datur. Ad ogni buon conto, nel ricordare che la piena compatibilità di cui si parla non è propriamente tra Bossetti e la traccia di Ignoto1, ma tra Bossetti e l’amplificazione del DNA di Ignoto1 estratto da una traccia (una apparente sottigliezza che in alcuni casi può rilevare) la cui estrazione è con ogni probabilità non ripetibile in contraddittorio, ai venditori di certezze non posso che consigliare un ottimo testo: Application of Low Copy Number DNA Profiling, Forensic Science Service, Trident Court, Birmingham, UK, del Prof. Peter Gill [1]. Parla dei rischi presenti nel DNA “low copy number”, ossia estremamente esigui e degradati. Il Prof. Gill sottolinea che in questi casi ci sono diverse conseguenze che non possono essere evitate: casi di allelic dropout, cosiddetti “falsi alleli” analizzati, e contaminazioni. Sono gli stessi kit di amplificazione e gli stessi strumenti utilizzati per l’analisi di tracce particolarmente problematiche in quanto esigue e deteriorate ad esporre ai rischi di contaminazione a causa della loro particolare sensibilità. Questo per ricordare, sebbene io non abbia mai propeso particolarmente per dinamiche di questo tipo ed abbia sempre preferito basarmi sull’evidenza che il DNA è trasportabile, come il solo sciorinare certezze assolute sia ridicolo. Meritano di essere riportate le considerazioni finali dello studio del Prof. Gill, quanto mai adatte al nostro caso: “Quando vengono analizzate piccole quantità di DNA, si impongono considerazioni particolari come le seguenti: a) Anche se è stato ottenuto un profilo del DNA, non è possibile identificare il tipo di cellule da cui il DNA ha origine, né è possibile affermare quando sono state depositate le cellule. b) non è possibile fare alcuna conclusione circa il trasferimento e la persistenza del DNA in questo caso. (…) c) Poiché il test del DNA è molto sensibile, non è raro trovare dei commisti. Se le potenziali fonti dei profili di DNA non possono essere identificate, non ne consegue necessariamente che siano pertinenti nel caso di specie, dal momento che il trasferimento di cellule può essere esito di contatto casuale. In effetti, il valore della prova del DNA LCN è diminuito rispetto al DNA convenzionale. Ciò deriva inevitabilmente dalle incertezze relative al metodo di trasferimento di DNA su una superficie e dalle incertezze relative al quando il DNA è stato trasferito. Si sottolinea che la rilevanza della prova del DNA in un caso può essere valutata solo sulla base di una considerazione simultanea di tutti gli altri elementi di prova diversi dal DNA”. Stando alle conclusioni del Prof. Peter Gill, va da sé che diviene palese il motivo per il quale c’è chi, come la sottoscritta, non riesce a capire per quale ragione Massimo Bossetti sia in carcere: infatti, nel caso di Massimo Bossetti, gli elementi di prova diversi dal DNA semplicemente non esistono, a meno che non si voglia parlare di gossip e dei summenzionati indizi immaginari. Non entro nel merito della problematicità di per sé del processo indiziario, e vado direttamente alla questione indizi, perché in questo caso siamo ben al di là del processo indiziario. Chi segue il caso, ed anche chi segue questo blog, sa che c’è una “querelle” sul valore degli elementi dell’ordinanza, che ho sollevato sin dall’inizio. Il GIP li ritiene indizi perché assumerebbero, a suo dire, rilievo “in una valutazione globale” e non valutati singolarmente. Il nocciolo della questione è che gli indizi, per essere tali, non possono essere corbellerie di per sé insignificanti unite tra loro: certo, deve procedersi ad una valutazione globale, ma prima gli indizi devono già essere indizi. E quelli “a carico” di Massimo Bossetti, per giunta anche smontabili in altro modo (nel caso in cui fossero indizi), non sono indizi, perché del tutto carenti di univocità. L’esempio più eclatante è quello delle celle telefoniche: quale univocità può avere l’aggancio di una cella telefonica compatibile con la propria abitazione? Messa in questi termini, la questione delle celle telefoniche di per sé è neutra, perché non è univoca, nel senso che è passibile di plurime interpretazioni che, fuor di retorica e mistificazioni, in mano all’accusa non lasciano davvero un bel nulla. Questo anche senza aggiungere la discrasia cronologica evidente (di oltre un’ora) nell’aggancio della medesima cella telefonica da parte di Yara, ed anche senza aggiungere il fatto (guarda caso omesso nell’ordinanza di custodia cautelare), già trapelato dalle fonti giornalistiche dell’epoca e ora provato dai tabulati Vodafone, che l’ultima cella telefonica agganciata da Yara non è, come riportato nell’ordinanza, quella di Mapello alle ore 18,49, ma quella di Brembate alle 18,55. Partiamo da una considerazione: la distanza in linea retta tra Mapello e Brembate di Sopra è 2.72 km, ma la distanza di guida è 4.7 km. In auto, ci vogliono 10 minuti circa per andare da Brembate a Mapello. Alle 18,44 Yara aggancia (per la seconda volta) la cella telefonica di Ponte S. Pietro, compatibile con il cortile della palestra. Se per spostarsi da Brembate a Mapello ci vogliono dieci minuti in auto, e se Yara alle 18,44 era ancora in un’area compatibile con il cortile della palestra dal quale ha agganciato la cella di Ponte S. Pietro, come poteva trovarsi a Mapello alle 18,49, dopo solo 5 minuti? Quindi, se davvero Yara fosse stata a Mapello alle 18,49, non solo il tragitto in auto sarebbe durato la metà del tempo medio necessario, ma in questi 5 minuti dovrebbe collocarsi anche il rapimento o il “convincimento” della ragazza teso a farla salire sull’auto di uno sconosciuto. Ma il problema più grave resta ciò che manca nell’ordinanza. 18,55, Yara aggancia la cella telefonica di Brembate. E’ di nuovo a Brembate, ancora una volta in tempi inferiori a quelli richiesti? E perché andare avanti e indietro tra i due paesi? L’unico scenario verosimile è che l’aggancio della cella telefonica di Mapello sia stato del tutto “incidentale”, dovuto a sovraccarico della cella miglior servente, e che prima delle 18,55 Yara sia sempre stata a Brembate. Il fatto che l’aggancio della cella di Mapello sia circondato dall’aggancio di celle telefoniche compatibili con l’area di Brembate, induce a pensare che la cella telefonica agganciata incidentalmente sia proprio quella di Mapello alle ore 18,49. In soldoni, le celle telefoniche non sono suggestive del fatto che Yara e Bossetti si trovassero nella stessa area (al di là del fatto che parlare della stessa area in spazi geografici così ridotti ha poco senso), ma dell’esatto opposto. Tale considerazione fa a cadere, a mò di tifone, un intero “indizio”, ma è bene sottolineare che tale indizio già non era tale, come avevo già notato da tempo (vedi La questione delle celle telefoniche: tanto rumore per nulla?). Il grande Prof. Alfredo Gaito, nel suo saggio“La prova penale”, si sofferma estesamente proprio sul fatto che gli indizi debbano prima essere valutati singolarmente ed essere, appunto, indizi. Leggendo questa descrizione risulterà immediatamente evidente che quelli contenuti nell’ordinanza di custodia cautelare, in virtù dei quali un uomo è in carcere da oltre cento giorni, non sono neppure valutabili come elementi indiziari. Riporto parte del testo: “(…) Per gli indizi sono prefigurati requisiti ulteriori, in mancanza dei quali resta de iure esclusa la legittimazione di un giudizio di colpevolezza. Permangono, per vero, alcune difficoltà ermeneutiche, giacché le qualifiche di gravità, precisione e concordanza non possono essere caratterizzate da un sicuro ed univoco referente; va, comunque, evocato l’insegnamento della giurisprudenza di cassazione, per cui gli indizi: a) sono precisi solo quando sono non generici e non suscettibili di diversa ed antitetica interpretazione e, perciò, non equivoci nonché quando sono considerati certi i relativi elementi indiziari (…); b) sono gravi solo quando sono dotati di un elevato grado di fondatezza e, quindi, di un’elevata intensità persuasiva di ogni singolo strumento gnoseologico indiziario; c) sono concordanti solo quando i loro risultati, basati su singoli elementi indiziari, lungi dal porsi in antitesi con altri dati o elementi certi, confluiscono verso una ricostruzione unitaria del fatto cui si riferiscono. Considerato che la prova indiziaria è ontologicamente (e normativamente) composita, richiedendo l’art. 192 c.p.p. la presenza di una pluralità di indizi, tra di loro precisi e concordanti, e di conseguenza gravi, si impone al giudice di merito di verificare la rispondenza degli elementi conoscitivi acquisiti alla regola di giudizio codificata, mediante un accertamento di routine della sussistenza del requisito della concordanza con tutti gli altri elementi indiziari presenti agli atti, e soprattutto di valutare (id est: non ignorare) la rilevanza delle prove contrarie, al fine di articolare un ragionato giudizio di prevalenza delle une rispetto alle altre, singolarmente e nella loro globalità. A fronte della molteplicità degli indizi, si deve procedere in primo luogo all’esame parcellare di ciascuno di essi, definendolo nei suoi contorni, valutandone la precisione (che è inversamente proporzionale al numero dei collegamenti possibili col fatto da accertare e con ogni altra possibile ipotesi di fatto) nonché la gravità; si deve quindi procedere alla sintesi finale accertando se gli indizi, così esaminati possono essere collegati tutti ad una sola causa o ad un solo effetto e collocati tutti, armonicamente, in un unico contesto dal quale possa per tale via essere desunta l’esistenza o, per converso, l’inesistenza di un fatto. (…) Nella valutazione complessiva, ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, onde il limite della valenza di ognuno risulta superato, sicché ove il giudice collochi in un contesto indiziario circostanze che non rispondono ai requisiti normativi, è l’intero quadro indiziario che deve essere riconsiderato, al fine di accertare se la caducazione di taluno degli indizi non determini il venir meno della conclusione finale. Simmetricamente, così come non è dato procedere a scomposizioni di comodo della c.d. costellazione indiziaria per contestare la validità del discorso accertativo, allo stesso tempo non è consentito assemblare risultanze singolarmente imprecise per poi apoditticamente tagliare corto che la complessità degli indizi vale a dimostrare alcunché: stando ancorati all’insegnamento giurisprudenziale collaudato, i singoli indizi devono essere anzitutto precisi; che anzi, valendo la precisione a requisito indefettibile della gravità, è logicamente precluso definire grave un indizio non preciso. Le parole del Prof. Gaito sono sostanzialmente adatte a comprendere i termini del problema. E’ il GIP stesso nell’ordinanza ad ammettere che gli elementi hanno rilevanza solo in una valutazione globale e non isolata. Infatti, singolarmente considerati non sono ontologicamente indizi perché non hanno nessuna univocità. Ne discende che non ci sono indizi “precisi”, e di conseguenza non ci sono indizi “gravi”, e ancora di conseguenza non ci sono “indizi”. La valutazione della prova è sempre una tematica estremamente complessa e, vista l’attinenza con il nome del blog mi permetto di richiamare anche un calzante monito del Prof. Tonini ( Manuale breve di diritto processuale penale, V edizione, Giuffrè 2010): “in questa materia l’aspetto problematico sta nel fatto che, al posto di regole di esperienza ricostruite mediante criteri razionali, il giudice (come ogni persona umana) è portato ad utilizzare, a volte inconsciamente, pregiudizi e luoghi comuni. La storia è piena di esempi in tal senso, a cominciare da quei processi agli untori che sono stati descritti da Alessandro Manzoni”. Appurato per l’ennesima volta che il DNA non è accompagnato da elementi indiziari dotati di sussistenza ontologica, sposterei a questo punto la querelle sull’ultima affermazione della Dott.ssa Bruzzone: a suo parere (parlo di parere, dal momento che non ha citato alcuno studio in grado di avvalorare una simile esternazione) una traccia di DNA esito di trasferimento secondario non restituisce profili completi. Davvero? Sarei curiosa di sapere allora per quale ragione la casistica giudiziaria contempli casi in cui ciò si è verificato, e sarei ancora più curiosa di sapere da dove la Bruzzone abbia tratto questa informazione, dal momento che è sufficiente cercare qualche studio scientifico per appurare l’esatto opposto. Evito scientemente giri di parole, e imposto subito la questione nei termini (sia pure, come abbiamo visto, non avvalorati) più graditi alla Bruzzone e a chi ostenta certezze colpevoliste: la traccia è senza alcun dubbio ematica, la contaminazione è esclusa tout court, il DNA è diventato databile e ci permette di dire che la traccia è stata depositata contestualmente all’omicidio. Ebbene, non è difficile reperire studi che hanno accertato non solo il trasferimento secondario di traccia ematica, ma perfino quello terziario (e più), ricavando sulle superfici finali profili completi, perfino a partire da sangue essiccato su superfici non porose (come il vetro). A titolo di esempio, sul trasferimento terziario: “Il trasferimento di sangue liquido ha dato un profilo genetico completo ben oltre gli eventi di trasferimento secondario sia su substrati di cotone sia su vetro. Il sangue secco ha dato un profilo completo ben oltre gli eventi di trasferimento secondario solo su vetro, ma in misura minore rispetto al sangue liquido. Il DNA da contatto ha prodotto solo un profilo completo sul substrato primario sia su cotone sia su vetro, e le quantità rilevabili al di là dell’evento trasferimento secondario solo su vetro. I nostri risultati contribuiranno ad una migliore comprensione del trasferimento terziario e successivo del DNA, che consentirà una migliore valutazione della probabilità di scenari alternativi che spieghino perché il DNA di un individuo è stato trovato sulla scena del crimine.” (da Following the transfer of DNA: How far can it go?, da Forensic Science International Genetics Supplement Series 01/2013, V.J. Lehmann, R.J. Mitchell, K.N. Ballantyne, R.A.H. van Oorschot). Ma non spingiamoci al trasferimento terziario, ed occupiamoci di quello secondario, che nel caso in esame a livello giornalistico si è spesso supposto derivare, ad esempio, dall’uso di un’arma del delitto sporca, come un attrezzo da lavoro. C’è uno studio interessantissimo, che inserisco [2] e che a breve inserirò anche in traduzione integrale, Secondary DNA transfer of biological substances under varying test conditions (M. Goray et al. / Forensic Science International, 2009) Si tratta di uno studio finalizzato all’analisi dei fattori che possono influenzare il trasferimento secondario del DNA, con particolare riferimento al tipo di sostanza biologica depositata, alla natura del substrato primario e secondario ed al contenuto di umidità della sostanza depositata. Le componenti biologiche utilizzate sono state DNA puro, sangue e saliva, i substrati primari e secondari plastica (non porosa), lana e cotone (porosi), e sono stati provati tre tipi di contatto: contatto passivo, pressione e frizione. I risultati hanno mostrato che il trasferimento secondario risulta influenzato sia dal tipo di substrato primario sia dall’umidità del campione biologico, e che risulta inoltre essere maggiore in caso di frizione/attrito. Sebbene le tre diverse fonti biologiche testate (DNA puro, saliva e sangue) abbiano viscosità diverse, non sono emerse fra loro differenze importanti nella quantità di trasferimento secondario, cosa che spinge ad ipotizzare che materiali biologici diversi, come sperma, lacrime e urine produrrebbero risultati simili. Nel caso di campioni umidi il substrato ha mostrato un forte impatto sulla percentuale di trasferimento, maggiormente agevolato dalla plastica (non porosa) come substrato primario e dal cotone (poroso) come substrato secondario, fino a tassi di trasferimento, per il sangue fresco, del 97% del materiale iniziale nel caso di frizionamento.

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Ipotizzando uno scenario come il trasferimento secondario a mezzo arma, il substrato primario sarebbe non poroso (arma), il substrato secondario poroso (indumenti), e la modalità di trasferimento frizione/attrito: condizioni che, come abbiamo visto, sono proprio quelle che sperimentalmente agevolano il trasferimento secondario di traccia ematica. C’è da introdurre una variabile: il sangue su un’arma sporca non sarebbe liquido ma essiccato, anche se verosimilmente potrebbe reidratarsi, almeno in parte, venendo a contatto con il sangue fresco della vittima, in quantità intuibilmente ben maggiore. Comunque, voglio spingermi fino in fondo nel prendere per buone tutte le tesi sciorinate nei salotti televisivi da persone che sentenziano senza citare studi, e allora parliamo di sangue essiccato tout court senza tener conto della possibile reidratazione. Il grafico parla da sé: in condizioni di frizionamento/attrito il trasferimento secondario del sangue secco da substrato primario non poroso (plastica) a substrato secondario poroso (cotone) è del 16,1%, una percentuale certo non paragonabile a quella del sangue fresco, ma che permette comunque senza nessun dubbio di trovare una quantità ancora considerevole di materiale biologico sulla superficie finale, certamente idonea ad estrarre un profilo completo (che ormai si ricava perfino da un paio di cellule!).

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Detto ciò, si consideri semplicemente che 1 ml di sangue contiene ben 20.000 ng di DNA, e che è possibile ottenere un profilo da un solo nanogrammo di DNA. Basta fare qualche calcolo per inferire come un trasferimento a mezzo arma possa lasciare sulla superficie finale anche più di quanto necessario all’estrazione di un profilo. Il mio campo (proprio come quello della Dott.ssa Bruzzone) non è la scienza, quindi trovo doveroso citare studi a sostegno delle mie affermazioni anziché presentare opinioni personali come verità assodate, anche se vorrei sottolineare che in casa mia esiste un principio, che gli antichi romani erano soliti compendiare nei termini “affirmanti incumbit probatio”: la prova spetta a chi afferma. Non dovrei essere io a citare degli studi, ma gli studi dovrebbero essere citati da chi, nel Servizio Pubblico pagato dai contribuenti, fa affermazioni in contrasto con i principi costituzionali, come il diritto alla presunzione di innocenza e, a quanto pare, anche con la tanto decantata scienza. Nel cercare una giustificazione alla legge ed agli ordinamenti stessi, la filosofia del diritto avanza diverse ipotesi con altrettanti principi. Uno di questi è la coerenza, ossia la capacità di applicare a se stessi le norme che si vorrebbero imporre agli altri. Ebbene, se si vuole che per Massimo Bossetti la scienza non menta, allora non deve mentire per nessuno: neanche per chi nei saloni televisivi si erge a giudice di un uomo da quasi quattro mesi protesta la propria innocenza mentre è in carcere sulla base di un quadro probatorio di per sé nullo e di un quadro indiziario insussistente. Non posso che concludere con una bellissima citazione di Richard P. Feynman che ci ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, che è proprio la scienza a nutrirsi di dubbi piuttosto che di certezze: chissà che queste parole non possano ancora insegnare qualcosa e restituirci una parvenza di civiltà. “Questa libertà di dubitare è fondamentale nella scienza e, credo, in altri campi. C’è voluta una lotta di secoli per conquistarci il diritto al dubbio, all’incertezza: vorrei che non ce ne dimenticassimo e non lasciassimo pian piano cadere la cosa. Come scienziato, conosco il grande pregio di una soddisfacente filosofia dell’ignoranza, e so che una tale filosofia rende possibile il progresso, frutto della libertà di pensiero”. Alessandra Pilloni

Bibliografia: 1-Application of Low Copy Number DNA Profiling, Prof. Peter Gill: lcn dna article gill 2- Secondary DNA transfer of biological substances under varying test conditions, M. Goray et al. : Secondary DNA transfer of biological substances under varying test conditions

Henri Poincaré e la marmellata d’arance: cronistoria di un’arrampicata sugli specchi

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Pietà per la nazione i cui uomini sono pecore
e i cui pastori sono guide cattive
Pietà per la nazione i cui leader sono bugiardi
i cui saggi sono messi a tacere
Pietà per la nazione che non alza la propria voce
tranne che per lodare i conquistatori
e acclamare i prepotenti come eroi
e che aspira a comandare il mondo
con la forza e la tortura
Pietà per la nazione che non conosce
nessun’altra lingua se non la propria
nessun’altra cultura se non la propria
Pietà per la nazione il cui fiato è danaro
e che dorme il sonno di quelli
con la pancia troppo piena
Pietà per la nazione – oh, pietà per gli uomini
che permettono che i propri diritti vengano erosi
e le proprie libertà spazzate via
Patria mia, lacrime di te
dolce terra di libertà!

Lawrence Ferlighetti


Un ringraziamento particolare a Rocco Cerchiara per le preziose osservazioni su movente sessuale e pedofilia.

Pietà: la fallacia è servita, non c’è trucco non c’è inganno!

Non a caso esordisco con i celebri versi di Ferlighetti (spesso erroneamente attribuiti a Pasolini): vorrei farli miei, fermarmi un attimo e invocare pietà.
Pietà per ciò che da quasi tre mesi a questa parte l’opinione pubblica italiana si trova ad ascoltare, pietà per l’imbarazzo che suscita il vedere come un tristissimo caso di cronaca nera si stia vergognosamente trasformando in qualcosa di sempre più simile ad una barzelletta a puntate, pietà per un Paese che ha perduto, in un sol colpo, civiltà, capacità critica e buon senso.

“Una donna viene trovata strangolata e parzialmente bruciata nella sua casa.
Un DNA coincidente con quello del suo ex compagno – che sostiene di non averla vista per diversi mesi – viene isolato nel suo pigiama.
L’uomo afferma che il suo DNA deve essere arrivato attraverso i vestiti o i giocattoli del loro bambino. 
Gli credereste? Continuate a leggere prima di prendere la vostra decisione.”

Con queste parole esordisce un articolo del New Scientist (http://www.newscientist.com/article/mg21328475.000-how-dna-contamination-can-affect-court-cases.html#.VAiCi8V_vzl) pubblicato in data 13 gennaio 2012.

L’articolo prosegue con l’elencazione di alcuni esempi di trasporto del DNA, e si conclude con una considerazione del Prof.Peter Gill, scienziato presso l’Università di Oslo e precedentemente presso il Forensic Science Service del Regno Unito, che afferma:

“Penso che quando abbiamo a che fare con piccole quantità di DNA dobbiamo segnalare che un profilo di DNA corrisponde, ma come e quando sia arrivato lì proprio non lo sappiamo”.

Sebbene l’articolo sia incentrato principalmente sul cosiddetto touch DNA, spesso indicato in Italiano come DNA da contatto, cioè il DNA che viene generalmente lasciato toccando oggetti o persone, che secondo un recente studio dell’Università “La Sapienza” di Roma deriverebbe non -come si credeva- dalle cellule localizzate nello strato più superficiale della pelle per effetto del loro sfaldamento, ma dalle ghiandole sebacee, le considerazioni ivi esposte possono rivelarsi del tutto valide anche per il trasporto di DNA derivante da materiale biologico d’altra natura, passibile di trasferimento secondario.

“Il trasferimento secondario si verifica quando il DNA depositato su un elemento o una persona è, a sua volta, trasferito su un altro oggetto o su un’altra persona, oppure su un punto diverso dello stesso oggetto/persona.
Non c’è stato alcun contatto fisico tra il depositante originale e la superficie finale in cui si trova il profilo del DNA.
Qualsiasi sostanza biologica come sangue, sperma, capelli, saliva e urine
potrebbe essere trasferita in questo modo.”
(da Secondary DNA transfer of biological substances under varying test conditions, di Mariya Goray, Ece Eken, Robert J. Mitchell, Roland A.H. van Oorschot).

Ancora, nelle conclusioni dello studio del Prof. Michael Naughton, dell’Università di Bristol, “La necessità di cautela nell’uso della prova del DNA per evitare condanne di innocenti”, si legge chiaramente che:

“Il test del DNA non è infallibile e ci sono limiti alla sua applicazione nelle indagini.

Come evidenziato dalla ricerca scientifica e dai casi precedentemente esaminati, ci sono insidie associate alle banche dati del DNA e all’uso di alcune forme di DNA, come LCN, profili di DNA parziali e misti, per condannare i sospettati di crimini.
L’uso di tali mezzi di prova, quindi, deve essere trattato con cautela
al fine di evitare identificazioni errate e condanne di individui innocenti.

Inoltre, il DNA, anche quando porta a identificazioni corrette, è prova attendibile solo di un’associazione con una scena del crimine o una vittima di un crimine.
Non è una prova prima facie di colpevolezza per un reato penale.
Ci può anche essere una spiegazione del perché il DNA di una persona innocente venga trovato sulla scena del crimine.
Infatti, come altre prove, il DNA è facilmente trasportabile, non può essere datato, è suscettibile di contaminazione e può essere mal interpretato.
Nonostante questi profili di fallibilità, investigatori penali e tribunali
sembrano non essere riusciti a prendere coscienze dei difetti intrinseci nelle applicazioni tecniche del DNA mostrate dalla scienza e dai casi giudiziari.

La conclusione generale che si può trarre dalla precedente analisi è che è ben possibile che le persone che sostengono di essere innocenti nonostante la prova del DNA li colleghi ad un reato del quale sono accusate/condannate stiano dicendo la verità.

DNA e banche dati non sono la panacea dell’identificazione criminale come a livello popolare si crede.
La presunzione di innocenza che si afferma sia il cuore di tutte le indagini ed azioni penali impone che di questo si debba tener conto in maniera più
adeguata da parte del sistema di giustizia penale al fine di evitare errori giudiziari.”
(The need for caution in the use of DNA evidence to avoid convicting the innocent, THE INTERNATIONAL JOURNAL OF EVIDENCE & PROOF, 2011).

La vicenda relativa al signor Massimo Bossetti, ai più disillusi, fa tirare un sospiro di sollievo per l’assenza nel nostro Paese di una banca dati del DNA, in quanto da quasi tre mesi buona parte degli Italiani (e non mi riferisco ad un ipotetico idraulico che mentre beve un grappino al bar si lascia andare a qualche avventata considerazione sulla cronaca nera, ma anche ad una nutrita schiera di opinionisti che affollano i nostri salotti televisivi e giornalisti che tanto peso hanno nella formazione della cosiddetta opinione pubblica) sta facendo costante sfoggio di una tanto sconcertante quanto pericolosa disinformazione in materia.

Volendo indulgere a termini espliciti, il 99% degli Italiani sembra cascare a mò di pera cotta dinnanzi alla cosiddetta fallacia dell’accusatore, nota altresì come fallacia del condizionale trasposto, che può essere compendiata in questi termini [1]:

“Se X fosse colpevole
allora N sarebbe molto probabile;
se fosse innocente, allora N sarebbe molto improbabile;
ma si è verificato;
perciò è molto improbabile che X sia innocente,
ovvero è molto probabile che sia colpevole.”

Nel nostro caso, l’esempio concreto diviene “Se il DNA non fosse di Tizio, la probabilità che un’altra persona a caso abbia quei markers genetici è piccolissima, perciò è stato certamente lui”.

Cosa non quadra in questo ragionamento?
E’ semplice: la fallacia dell’accusatore si annida nel confondere la probabilità che il DNA sia di un determinato soggetto (rectius, che possa appartenere ad un altro soggetto su base casuale) con la probabilità che il soggetto sia colpevole.
In parole povere, una probabilità statistica viene attribuita ad una classe di fatti diversa da quella alla quale si riferisce.

L’esempio storico per eccellenza di fallacia dell’accusatore (con tanto di relativo errore giudiziario) è il caso Dreyfus.

L’accusa sostenne che un documento trovato dal controspionaggio francese in un cestino dell’ambasciata tedesca e scritto, per sua stessa ammissione, da Dreyfus, contenesse dei messaggi cifrati, poiché in quel documento le lettere dell’alfabeto comparivano con una frequenza diversa da quella con cui sarebbero comparse nella prosa francese “normale”.
Nel processo del 1894 lo scienziato forense Alphonse Bertillon calcolò la probabilità che quella particolare combinazione di lettere trovata nel documento si fosse prodotta in modo casuale, ossia supponendo che Dreyfus fosse innocente e non avesse scritto alcun messaggio cifrato.
Giacché dai calcoli di Bertillon tale probabilità risultò infinitesimale, si concluse erroneamente, sulla base della fallacia del condizionale trasposto, che dovesse essere infinitesimale anche la probabilità che Dreyfus fosse innocente.

Ma Dreyfus era innocente e la fallacia fu smascherata da Henri Poincaré nel secondo processo d’appello.

Oggi, come già visto in vari articoli precedenti, la fallacia dell’accusatore è tipicamente rilevata nei processi penali in relazione alla prova scientifica, ed in particolare al DNA.

Nel nostro caso, al Tribunale non si è ancora arrivati, e mi auguro non si arrivi, ritenendo personalmente che non vi siano elementi tali da giustificare neppure il rinvio a giudizio dell’attuale indagato, ma i media ci hanno regalato dei clamorosi, e spesso piuttosto imbarazzanti, esempi di fallacia del condizionale trasposto.
Uno dei più evidenti, in quanto colpisce perfino il titolo, è a firma Stefano Zurlo su Il Giornale in data 21 giugno, con evidente confusione della probabilità statistica relativa all’appartenenza del DNA con la probabilità statistica di colpevolezza.

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Poincaré si sarà intuibilmente rivoltato nella tomba più e più volte, in quanto non si tratta di un esempio isolato, anzi: la fallacia ha finito inesorabilmente per colpire anche tanti (troppi) garantisti, che si sono limitati unicamente ad ipotizzare la possibilità di un errore di laboratorio, dimenticando tout court che il DNA di per sé dimostra solo appartenenza e non colpevolezza e che l’onere della prova dovrebbe essere ancora a carico dell’accusa, che ben difficilmente riuscirà a dimostrare che quell’unica traccia, attribuita a Massimo Bossetti, sia indice di colpevolezza, non essendo emerso alcun corollario di indizi univoci a sostegno di tale ipotesi.

Da Poincaré alla marmellata d’arance, ovvero il movente tappabuchi che non c’è

“La stupidità ha fatto progressi enormi. È un sole che non si può più guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è più nemmeno la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé”.
(Ennio Flaiano, Ombre grigie tratto dall’elzeviro sul Corriere della sera, 13 marzo 1969)

In data 19 giugno, sui polverosi scaffali della cancelleria di un Tribunale, con il deposito dell’ordinanza di non convalida del fermo e disposizione di custodia cautelare del GIP Dott.ssa Vincenza Maccora, è stato approssimativamente ed avventatamente impacchettato il destino di un uomo che si dichiara innocente, procedendo al sequestro della sua vita.

I media si sono affrettati, sulla base di una traccia di DNA interpretata come prova di colpevolezza secondo i tipici moduli della fallacia dell’accusatore, a cucire addosso a quest’uomo, papà di tre bambini incensurato e con una vita perfettamente ordinaria, la veste dell’assassino.
Nonostante l’estenuante lavoro di sartoria, però, dopo quasi tre mesi, quell’abito continua ad andargli stretto, e l’inchiesta arranca, aggrappandosi al gossip come ultimo colpo di reni.

Oggi è stato pubblicato su Panorama un articolo di taglio che definirei garantista, sia pure con qualche profilo di ambiguità, giacché ancora una volta, nessuno spiega ai lettori che il DNA è trasportabile e non indica colpevolezza.

Panorama

Vedasi qui: http://news.panorama.it/cronaca/Nessuna-nuova-prova-contro-Bossetti-Lo-si-inchiodi-sul-gossip

Dall’articolo si apprende che la signora Marita resta orfana del primo amante (che pare non esistesse), ma viene ribadito il secondo, in modo piuttosto discutibile: in primis poiché non si capisce da cosa derivi la certezza essendo la parola di questo signore (che a questo punto non so nemmeno se sia certa visto che il primo pare fosse inventato) contro quella della signora Marita, in secondo luogo perché una coerente critica al gossip, almeno in linea teorica, imporrebbe di evitarlo a propria volta.

Però, “Allegria!”, finalmente si è riusciti a dire ciò che io scrissi seduta stante, in data 23 agosto (mi fa fede l’articolo Tra realtà e reality, tra processo giudiziario e processo mediatico, la condanna del nostro secolo avverrà tramite il televoto (seconda parte)), ossia che, in relazione all’indiscrezione sulla pedopornografia non è stato trovato né materiale pedopornografico né accessi a siti del genere, e che la ricerca su google delle parole “tredicenne” e “sesso”, attribuibile logicamente al figlio tredicenne o al limite ad un genitore che fa una ricerca per aiutare il proprio figlio adolescente ad affrontare un tema delicato, rimandi appunto a risultati google di forum per adolescenti, tra i quali spicca in prima battuta Yahoo Answers, dove sciami di ragazzini alle prese con le prime curiosità sul mondo del sesso pongono le loro domande, e non certo a materiale pedopornografico.
Davvero ci sono volute due settimane per arrivarci, ossia per capire che i siti pedopornografici sono illegali ed oscurati e non si raggiungono sicuramente dai motori di ricerca?
Meglio tardi che mai, dice il proverbio, ma in questo caso il ritardo, giacché si trattava di arrivare all’ovvio, è piuttosto imbarazzante.
Gli Italiani peccano notoriamente di creduloneria, e questa è cosa nota, ma che la “notizia” (senza offesa al concetto di notizia) come fornita da Repubblica fosse un nonsense logico era evidente sin da una prima lettura.

Nonostante questo, ancora ieri su Pomeriggio5, la signora Barbara D’Urso, anziché porsi la legittima domanda sul significato di una simile ricerca su Google in un mondo in cui qualsiasi adulto sa che la pedopornografia è reato e un certo tipo di materiale non si trova sui motori di ricerca e in una famiglia nella quale, guarda caso!, c’è un adolescente di tredici anni (e, guarda caso ancora una volta, la ricerca è stata effettuata proprio nel maggio di quest’anno e non certo nel periodo del delitto), ha preferito la frase ad effetto.
Mica ha cercato la ricetta della marmellata d’arance.

In realtà, si potrebbe malignare che anche se avesse cercato la ricetta della marmellata qualcuno vi avrebbe visto comunque un indizio di colpevolezza: possibile che la signora Marita, essendo una frana in cucina e trascorrendo troppo poco tempo ai fornelli, abbia ingenerato nell’uomo una spinta all’omicidio?
In fondo, non sarebbe certo un’ipotesi più ridicola della maggior parte di quelle sentite finora, dalle sopracciglia ossigenate (al di là dell’irrilevanza palese della questione, è chiaro che trattasi di un semplice schiarimento causato dall’esposizione al sole) alle cene in trattoria.

Il plauso va invece, e sentitamente, a Giangavino Sulas, che nello stesso salottino televisivo, scegliendo vesti impopolari piuttosto esplicite e ben argomentate (nonché coerenti, giacché la sua linea garantista è stata palese sin dall’inizio), ha espressamente dichiarato di essere convinto dell’innocenza di Massimo Bossetti.

Tornando al’articolo di Panorama, comunque, ciò che è apprezzabile è che viene sottolineato in maniera robusta che in due mesi gli inquirenti non hanno trovato un bel nulla e che il gossip è una palese arrampicata sugli specchi, che più passa il tempo più diviene clamorosa.

“Le indagini languono e gli investigatori corrono dietro a corna e mutandine”.

Fin qui ci siamo, e con il passare del tempo quella che all’inizio pareva una mera impressione dei soliti beceri garantisti sta diventando un’evidenza innegabile.

Causa di quello che appare ormai un buco nell’acqua è, a parere di scrive, un’inchiesta che, probabilmente a causa della sua intrinseca difficoltà (cosa della quale, per onestà, è assolutamente necessario dare atto senza se e senza ma), ha seguito direttrici irrituali e rovesciate focalizzandosi per anni su un’unica traccia biologica che non dava certezza alcuna di appartenere all’assassino della piccola Yara.
Quando la traccia è stata finalmente attribuita, dopo anni di mancati riscontri, l’entusiasmo ha avuto la meglio sulla prudenza e si è tratta la fallace conclusione che appartenesse necessariamente all’assassino, ma tale fallacia sta emergendo ora prepotentemente dall’assenza di riscontri probatori/indiziari univoci, giacché è chiaro che né gli elementi contenuti nell’ordinanza (come la cella telefonica di Mapello agganciata da Bossetti che è residente nientemeno che a Mapello) né quelli emersi in seguito e solertemente riportati da salotti televisivi e organi di stampa possano avere un nesso logico ed univoco con l’omicidio, apparendo anzi, spesso, molto problematici o ai limiti del ridicolo.

La stessa ricerca (infruttuosa) di elementi che possano suffragare un presunto movente sessuale è indice di grandi difficoltà a far quadrare i conti.
L’impressione è che si cerchi un movente sessuale come “tappabuchi”, nel senso che non trovando alcun nesso tra Yara e Bossetti, giacché non emerge un movente specifico in virtù del quale un quarantenne senza precedenti potesse avercela con una bambina che neppure conosceva, si è costretti a cercare una sorta di movente passepartout.
Il problema è che i conti non tornano lo stesso.

La scena del crimine non ha nulla che possa far pensare ad un movente sessuale e il sospettato sembra non avere alcuna caratteristica del sex offender.
Come già ribadito in articoli precedenti (in particolare vedasi i primi due punti diTra realtà e reality, tra processo giudiziario e processo mediatico, la condanna del nostro secolo avverrà tramite il televoto (prima parte).), l’omicidio a sfondo sessuale non è un atto posto in essere da un giorno all’altro da un soggetto clinicamente sano, ma un atto che trae origine da disturbi psichiatrici del soggetto agente e sul quale si “fantastica” per anni, specie nel caso di “predilezione” per vittime appena adolescenti.

Ad oggi, dopo quasi tre mesi di indagini, non risulta che sia saltato fuori nulla che faccia pensare a qualcosa del genere: non una ex che ne abbia raccontato strane abitudini o desideri sessuali, non una donna che abbia detto “quel signor Bossetti mi ha fatto più volte delle proposte/mi ha toccata/mi ha molestata”, non una sola adolescente che abbia detto che lui si fermava con la macchina e la guardava insistentemente o che abbia offerto passaggi o addirittura doni e piccoli favori in cambio di prestazioni sessuali di vario genere, neppure un amico intimo o conoscente che abbia parlato di una certa passione, anche solo occasionale, per le prostitute.

La casistica giudiziaria, in casi analoghi, indica che in tre mesi sarebbero venute fuori parecchie di cose del genere… Se ce ne fossero stati i presupposti.

Dalla perizia dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, citata in alcune sue parti anche nell’ordinanza del GIP, da tempo si sa che Yara è morta di stenti, di freddo, e comunque non dissanguata.
Yara non è morta dissanguata poiché nessuna delle lesioni è stata giudicata letale, nemmeno quella inferta alla gola.
Sulla ragazza non è stato riscontrato alcun segno di violenza sessuale, e il corpo è stato trovato completamente vestito.
Unico particolare, il reggiseno risultava essere slacciato, ma con i lacci “integri e resistenti alla trazione” (dalla relazione agli atti nella parte citata nell’ordinanza del GIP), sui quali non sono state rinvenute impronte di estranei né frammenti di cellule epiteliali.
Ciò rende abbastanza palese che si sia slacciato da solo, come spesso accade a causa di movimenti bruschi, soprattutto nel caso di reggiseni con le coppe preformate e le spalline sottili (come quello indossato da Yara, ripetutamente mostrato in TV).

Per quanto atletica, una tredicenne avrebbe potuto fare ben poco contro un muratore quarantenne determinato a stuprarla e ucciderla e lui, di contro, sarebbe andato fino in fondo o perlomeno avrebbe lasciato una scena del crimine ben differente (vittima nuda o parzialmente nuda, quantomeno leggins e mutande abbassati, sarebbero stati presenti segni di violenza sessuale abbastanza evidenti) e avrebbe ucciso con molta più determinazione: ferite da arma da taglio in numero maggiore e certamente mortali, colpi alla testa più violenti e ripetuti, segni di strangolamento (tipici degli omicidi a sfondo sessuale).

Le evidenze peritali sembrano suggerire che questo omicidio è stato invece commesso da qualcuno che si è trovato in serie difficoltà nel commetterlo, che ha usato il coltello con mano debole e malferma, che non era abbastanza forte e determinato per avere la meglio in breve tempo.

Il quadro dell’omicidio non sembra suggerire neppure uno stupro non riuscito, che avrebbe ingenerato una forte aggressività nell’agente (in casi di questo tipo, la correlazione sesso-aggressività è sempre marcata) in quanto non sembra esserci un overkilling dovuto alla rabbia e alla frustrazione di chi riesce dopo molto sforzo a sopraffare la vittima: in parole povere, in un caso del genere non sarebbero emerse ferite “relativamente superficiali”, ma di tutt’altro tipo.

Il modello bipartito proposto dall’FBI in relazione agli omicidi a sfondo sessuale mostra bene come le differenze siano irreconciliabili.
In tale frangente, si suole distinguere tra omicidio a sfondo sessuale organizzato e disorganizzato: ai due modelli corrispondono due distinti profili di sex offender e differenti caratteristiche della scena del crimine.
Al di là del fatto che il profilo dell’indagato non corrisponde né al sex offender organizzato né a quello disorganizzato, poiché da ciò che sappiamo della sua vita (cioè, “grazie” ai media, tutto) il Bossetti si colloca all’interno di una “media” personale più ordinaria tra i due estremi (sex offender organizzato: soggetto d’intelligenza spiccata, generalmente con famiglia, con livello di istruzione medio-alto, alta estrazione sociale, lavoro di medio-alta qualifica ma con tendenza a frequenti cambiamenti; sex offender disorganizzato: scarsa intelligenza, situazione familiare multiproblematica, basso livello di istruzione, disoccupazione, scarsa cura di sé), ancora una volta è l’analisi della scena criminis a far risultare molto problematica questa pista.
Nel caso di sex offender organizzato la scena criminis è sempre piuttosto chiara, mostra segni di limitazioni della vittima (nastro adesivo, bende, catene, corde, indumenti, manette, bavagli), che viene sottomessa prima di essere uccisa con
mezzi di costrizione  e soprattutto restano evidenti tracce di atti sessuali- che nell’omicidio sessuale organizzato sono sempre presenti e diretti.
L’offender disorganizzato sceglie invece le vittime in modo completamente casuale, tanto che le vittime del sexual offender disorganizzato sono delle vere e proprie “vittime del caso”, mai selezionate, ad esempio, sulla base di età o caratteristiche fisiche: in tal caso sarebbe molto difficile supporre un’ossessione dell’agente per la vittima, e del tutto inutile cercare riscontri in tal senso.
In questi casi, però, l’arma del delitto è di norma lasciata ben in vista nel luogo del delitto, l’attacco è d’impeto, aggressivo, segnato da atti sessuali dopo la morte, anche se spesso manca la penetrazione diretta della vittima (sostituita da penetrazione tramite oggetti).

In questo caso, la scena del crimine non ha lasciato nulla che rimandi ad un omicidio a sfondo sessuale, e la pista non trova alcun riscontro nel profilo personale dell’indagato.

Volendo per forza vedere un movente sessuale, purtroppo, si perdono di vista tutte le altre piste possibili.

Per restare in tema di omicidi a sfondo sessuale e DNA, volendo fare un esempio che mostri platealmente le differenze, si potrebbe citare il caso di Altemio Sanchez, stupratore ed omicida seriale americano che si muoveva nella zona di Buffalo.
Sanchez venne incastrato dal DNA: erano state isolate diverse tracce di sperma sulle vittime, e il suo DNA venne prelevato da alcuni agenti che lo avevano seguito allo scopo in un ristorante nel quale si era recato con la moglie (gli agenti sequestrarono allo scopo bicchieri e posate).
Nel caso di Sanchez, però, non solo le tracce repertate nei luoghi del delitto erano plurime e di natura chiara, ma il DNA fu la verifica finale di un quadro indiziario già molto forte: vi erano fibre, impronte parziali, descrizioni di vittime sopravvissute e di persone che frequentavano i luoghi dei delitti.
Questo per rimarcare come qua non si voglia contestare l’uso della scienza nel processo penale, ma i suoi metodi.
La prova scientifica utilizzata per confermare un quadro già univoco è un ottimo strumento nelle mani degli inquirenti, ma se avulsa da un corollario che possa avvalorarla rischia di essere uno strumento pericoloso per la libertà di individui innocenti.
Se la sorte di un uomo non si decide con un tiro di dadi e si vuole usare la scienza nel processo, la si deve usare cum grano salis, logica ferrea, e freddezza tale da evitare di cadere in comode fallacie.Il trasferimento di DNA secondario (e perfino terziario, in alcuni casi) non è fantasia o cavillo difensivo, ma è scienza, e di questo prima o poi qualcuno dovrà rendere conto alla totalità dell’opinione pubblica che si è vista presentare come prova regina qualcosa che tale non era e che si sta dimostrando unica roccaforte di una colpevolezza data immediatamente per certa, il 16 giugno, senza alcuna possibilità d’appello, e che invece si sta rivelando ogni giorno più insussistente.

L’onere della prova incombe sull’accusa!

PeterGill(estratto da Misleading DNA Evidence: Reasons for Miscarriages of Justice, del Prof.Peter Gill; indica la possibilità di diversi modi di trasferimento del DNA, ed evidenzia come nel DNA non vi sia alcuna informazione utile a identificare la modalità di trasferimento dello stesso).

Sono passati ormai quattro anni dal momento in cui, purtroppo, la piccola Yara ci ha lasciati.
Il bisogno di giustizia è forte, ma non sarà la “giustizia” sommaria a dare a Yara la pace che merita.
Non saranno i gossip sulle lampade solari o le tanto presunte quanto inverificabili ed inutili ai fini delle indagini corna della famiglia Bossetti a garantire giustizia ad una bimba strappata alla sua vita e al suo futuro in modo atroce.
E non sarà neppure il linciaggio mediatico o la condanna di un uomo contro il quale non sta emergendo alcuna prova, che anzi rischia di aggiungere ingiustizia ad ingiustizia e sofferenza a sofferenza.

EcoDiBergamoEntro martedì la difesa di Massimo Bossetti presenterà istanza di scarcerazione.

Nella speculazione giuridica dottrinale, negli ultimi anni, ci si è spesso interrogati sull’eventuale influenza dei media sul processo penale.
Questo blog è nato per invertire la tendenza, cioè per ripristinare uno spazio civile nel quale dare nuovo significato e nuovo valore ai principi dello stato di diritto che i nostri media hanno, in questo caso anche più del solito, abbondantemente calpestato.
In un articolo letto qualche tempo fa sul blog di Massimo Prati, Gilberto Migliorini scriveva, emblematicamente, questa frase:
“Che gli inquirenti non abbiano in mano niente è evidente, salvo per la stampa che si è buttata come al solito sull’osso cercando di rosicchiare tutto quello che si può rosicchiare, cioè centrifugando il niente.”

Ottanta giorni sono sufficienti a valutare la situazione, e a notare come il tempo non abbia fatto altro che confermare questa considerazione.
A carico di Massimo Bossetti non c’è nessun elemento univoco, e dunque, giacché gli indizi per inchiodare una persona alle proprie responsabilità dovrebbero essere univoci, principi di ascendenza illuministica, e non dell’altro ieri, vogliono che l’istanza che verrà presentata dai suoi legali venga accolta.
D’altronde, come già mostrato nell’articolo Ecce homo, ecce mutanda!, i presupposti per la custodia cautelare in carcere sembrano davvero discutibili ed insussistenti.

Un ulteriore passo avanti sarebbe quello di una globale rivalutazione, da parte della Procura, ma anche dei media e dei comuni cittadini, dell’intera vicenda, che potrebbe insegnare davvero tanto.
Una cosa fra tutte: la presunzione di innocenza è una conquista da difendere, ed esiste non come grida di manzoniana memoria affidata alla carta e senza alcun valore concreto, ma perché nei secoli il suo valore si è rivelato imprescindibile affinché la Giustizia possa ancora, a buon diritto, chiamarsi in questo modo.

Alessandra Pilloni


1- Il superamento della fallacia della trasposizione del condizionale attraverso un processo argomentativo–operazionale- congetturale, del Prof. Sergio Novani.

NUOVO ORIENTAMENTO DI PENSIERO ALLA LUCE DELL’EVIDENZA VOLTO A RIDIMENSIONARE GLI ERRORI GIUDIZIARI NEGLI U.S.A.

Nota: un nuovo articolo di Laura, membro del gruppo facebook “Giustizia e verità: no all’accanimento mediatico contro Massimo Bossetti”.
Ancora una volta, nel proporvi l’elaborato, non posso che ringraziare Laura per il suo apprezzatissimo impegno.

La pena di morte negli Stati Uniti d’America è un argomento molto controverso e dibattuto. Gli Stati Uniti d’America sono attualmente uno dei 76 stati del mondo in cui è prevista l’applicazione della pena capitale, mentre in 120 altri stati tale pena è stata abolita.

Senza stare a dilungarmi troppo sulla diversa Giurisprudenza, figlia delle circostanze in cui nascono gli Stati Uniti, (situazione geopolitica diversa, molteplici etnie e necessità di stabilizzazione di una nazione relativamente giovane ) vorrei spostare l’attenzione del lettore, in questo gruppo che nasce per difendere la presunzione d’innocenza, su un Fatto: il coraggio e la rettitudine morale di un gruppo di persone “illuminate” le quali, seguendo il pensiero e le osservazioni mosse dal Governatore repubblicano Ryan sulla “leggerezza” di alcune condanne a morte, sono riuscite a modificare un sistema che si era rivelato fallace.

Precisando a priori che sono personalmente contraria alla pena capitale, il mio unico scopo qui è narrare un fatto storico, nemmeno troppo lontano nel tempo.

I seguenti contenuti sono stati estrapolati  Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

La commissione Ryan

Nel 2000, nello Stato dell’Illinois, i risultati di una serie di test del DNA rivelarono che in quello Stato era stata commessa una grande quantità di errori giudiziari che avevano portato alla condanna a morte di innocenti. Il Governatore dell’Illinois, il repubblicano George Ryan, da sempre noto sostenitore della pena capitale, influenzato dai risultati dei test, proclamò una moratoria a tempo indeterminato sulle esecuzioni e nominò una commissione alla quale veniva chiesto di riflettere sul tema della pena capitale e di trovare, se esistevano, riforme che potessero renderla più giusta ed equa. I membri della commissione erano tutti esperti giuristi o avvocati e rappresentavano le varie opinioni e tendenze politiche. Tra di loro lo scrittore e avvocato Scott Turow che ha scritto un libro, divenuto bestseller anche in Italia, nel quale esprime le sue considerazioni conclusive a seguito di questa importante esperienza. La commissione, dopo due anni di ricerche e analisi, stabilì che era necessario ridurre il campo di applicazione della pena, limitando il numero dei casi e sottraendo all’esecuzione le persone ritenute malate di mente. Il governatore Ryan, il giorno prima di lasciare l’incarico, nel 2002, liberò dal braccio della morte 164 condannati e diventò un detrattore della forca. La storica decisione di Ryan portò governatori di altri stati, come la Carolina del Nord, a dichiarare una moratoria e, in alcuni casi (New Jersey), alla totale abolizione.

Il rapporto conclusivo della commissione Ryan

Nell’aprile del 2002 la Commissione governativa dell’Illinois presentò il suo rapporto conclusivo. La grande maggioranza delle proposte della Commissione fu approvata all’unanimità e anche i membri della commissione che si erano rivelati in disaccordo su alcuni punti concordavano sul fatto che in quello Stato, dal 1977 al 2002, erano state applicate troppe esecuzioni (e in particolare erano stati messi a morte troppi innocenti). Tutti i componenti della Commissione concordavano sul fatto che fosse necessaria una grande riforma del sistema giudiziario se si voleva continuare ad utilizzare la pena capitale per alcuni reati e che fossero necessari più finanziamenti pubblici per migliorare la qualità delle indagini e degli addetti all’analisi delle prove. Altre proposte significative: tutti gli interrogatori dei sospettati colpevoli di reati gravi devono essere filmati e le dichiarazioni fatte negli uffici di polizia devono essere registrate, per essere accettabili durante il processo;

Il fatto che portò l’allora Governatore dell’Illinois George Ryan a definire il sistema giudiziario di quello stato “pieno di errori” e a proclamare la moratoria fu l’inquietante statistica che dimostrava che quasi metà delle persone condannate a morte nell’Illinois si erano rivelate successivamente non colpevoli o colpevoli di un reato diverso da quello per il quale erano state processate e giudicate. In altri termini lo stato governato da Ryan aveva giustiziato o stava per giustiziare degli innocenti. Nel 1999 il Chicago Tribune pubblicò diversi articoli riguardanti casi di gravi errori giudiziari in Illinois che avevano portato molte giurie, in buona o cattiva fede, a condannare a morte imputati sulla base di prove rivelatesi false o non attinenti. Il problema della condanna a morte di innocenti riguarda tutti gli Stati dell’Unione favorevoli alla pena capitale.

Molti sostenitori definiscono il prezzo da pagare in caso di errori “accettabile”, altri inorridiscono ma definiscono comunque la pena di morte una necessità statale alla quale non si può rinunciare. L’utilizzo, iniziato a partire dalla metà degli anni Novanta del Novecento, del test del DNA ha dimostrato l’esistenza di diciotto casi di innocenti condannati a morte. Il risultato di questi test ha aiutato gli oppositori della pena capitale a mostrare le prove del fallimento di questa pratica. I favorevoli, però, sostengono che il test rappresenta, anzi, un argomento di sostegno alla pena di morte, in quanto dimostra con sicurezza il legame che c’è tra la vittima e l’imputato colpevole.

A partire dall’anno 2004 il sostegno dell’opinione pubblica alla pena di morte è diminuito in maniera netta (dall’80% al 60%); è diminuito conseguentemente anche il numero di esecuzioni e di condanne, e il numero di reati punibili con la pena capitale è stato limitato dal Congresso ai crimini più gravi. Negli stati del New Jersey e del Nuovo Messico la pena di morte è stata abolita o sospesa a tempo indeterminato. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha restrinto il campo dei reati punibili con la pena capitale, sottraendo i minorenni e i ritardati mentali alla forca. Questo grande cambiamento è stato dato dalle polemiche e dagli scandali seguiti all’utilizzo dei test del DNA, che hanno provato l’esistenza di un numero enorme di innocenti condannati a morte (e in molti casi la condanna è stata eseguita).

Torniamo in Italia ai giorni nostri. Vi chiederete che attinenza abbia quello che ho sopra riportato con lo “spinoso”  argomento della (a parere di chi scrive, ingiusta) carcerazione e la “crocifissione” mediatica del sig. Massimo Bossetti “prigioniero” del pregiudizio da oltre un mese e “inchiodato” da una dubbia traccia di DNA.

Vuole essere un metro di confronto tra la maturità intellettuale, etica e morale di due nazioni. La prima è una Nazione giovane, gli U.S.A. (e preciso non sono una filoamericana a tutti i costi) che contestualmente alla sua nascita già si macchiava di gravissime colpe, spesso calpestando i diritti umani,  la quale è riuscita comunque a fare un passo indietro e a rivedere alcune sue posizioni, come sopra illustrato con la commissione Ryan, per amore della Giustizia, opponendosi con una Riforma alla fallacità della prova del DNA che aveva portato a numerose, irreversibili e  tragiche  condanne alla Pena Capitale.

La seconda è la nostra Italia che pur vantando antichi e nobili natali e pur avendone dati a sua volta a menti brillanti, è precipitata in quello che io chiamo tristemente il Neo-MedioEvo. Quella che in passato fu la culla della civiltà, patria di illuminati, scienziati e artisti è ora una non propria definita Nazione composta di gruppi e sottogruppi di stanziali, senza vincoli tra loro che occupano la stessa porzione di territorio e, non appartenendo ad una Società civile ed organizzata, oltre che andare a caccia, coltivare la terra e venerare la Dea TV, amministrano la giustizia così come suggerito dai Profeti (piccolo gruppo di personaggi che, protetti da uno schermo, dettano legge e proferiscono parole sacre da non mettere mai in discussione).

In realtà, sarcasmo a parte, la cultura dell’Italia è profondamente legata alla civiltà romana e a quella dell’antica Grecia che hanno lasciato un’impronta profonda nell’arte, nella lingua, nelle tradizioni di vita, e nel sistema giuridico del Paese.

I Romani ordinamento dello Stato  a parte (efficienti istituzioni, un esercito stabile e ben organizzato, un buon sistema fiscale) diedero vita ad un sistema giuridico in grado di garantire il controllo di un territorio immenso che abbracciava diverse etnie, culture e credi che ne caratterizzavano la forte differenza. Eppure funzionava! Dove si è inceppata questa macchina perfetta? In quale momento storico ci siamo inariditi e abbiamo perso la Ragione e la Moralità?

Gli ultimi fatti di cronaca, nella loro dolorosa drammaticità, mi hanno richiamato alla mente la satira nascosta nei film del grande Principe Antonio de Curtis, in arte Totò; una satira d’epoca, caratterizzata dalle sue maschere, “la malafemmena”, “il turco”, “il figlio illegittimo”, “gli equivoci”, “le guardie e i ladri”, e dalla concezione di una moralità per noi datata ma in realtà sempre presente, in forma distorta, nelle pieghe dei piccoli paesi e dell’Italia tutta che più di un “piccolo paese” alla luce dei fatti non è!

Sembra di guardare un documentario che punta la sua lente d’ingrandimento sugli anni 50, in un’Italia timorata e pudica, che ci racconta di un paese in bilico tra passato e futuro, “tra vecchi precetti e nuove mode” dove per le donne la verginità è un dovere e per i maschi una vergogna, dove vicende persino non accertate, di amori “adulterini” scuotono le coscienze e balzano agli onori delle cronache diventando macigni sulle spalle di poveri operai e mattoni per costruire la loro prigione.

Vicende che descrivono il cambiamento in negativo dei costumi, vicende come questa del sig. Massimo Bossetti  che ci portano fino al ritratto impietoso e grottesco della società in cui viviamo.

Ma dopotutto è facile puntare il dito su di un operaio così sconsiderato da smarrire continuamente i suoi attrezzi da lavoro, così testardo nell’ostinarsi a fare benzina in un distributore che gli è di strada, così banale da non contattare nessuno in una sera d’inverno al termine di una giornata di lavoro, così smemorato da non ricordare con precisione cosa abbia fatto una sera di 4 anni prima, così ambiguo da possedere 10 cellulari, così bugiardo da non ammettere di essere un assassino, così vanesio da sottoporsi continuamente a lampade abbronzanti, così irresponsabile da sottrarre denaro, speso in sciocchezze, alle esigenze della famiglia, così malato da pubblicare le foto delle sue splendide bimbe sul suo profilo facebook, così inquietante da non avere nemmeno l’amante, così morboso da farsi filmare sulla scena del crimine al ritrovamento del cadavere, così irritabile nei giorni di festa, così patetico da continuare a professarsi innocente quando i suoi concittadini hanno già decretato la sua colpevolezza.

LO DICE IL DNA! AL DIAVOLO LE CONCLUSIONI DEGLI AMERICANI, NOI SIAMO ITALIANI!