Libera espressione: chimera o realtà?

Siamo tutti Charlie Hebdo, paladini e pionieri della libertà di espressione… Ma guai a prospettare la possibilità che un indagato sia innocente!

charlie


Articolo scritto a quattro mani con Laura

Affinché sia chiaro lo scopo di questo articolo urge una piccola premessa.

La libertà di manifestazione del pensiero è un diritto riconosciuto negli ordinamenti democratici.

La libertà di espressione è sancita anche dall’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall’Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848:
1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

E per non farci mancare niente ricordiamo l’art.21 della Costituzione italiana.

Ad avvalorare il mio pensiero arriva la Corte di Cassazione italiana, la quale stabilisce una serie di requisiti affinché una manifestazione del pensiero possa essere considerata rientrante nel diritto di critica e di cronaca: veridicità (non è possibile accusare una persona sulla base di notizie false), continenza e interesse pubblico.
Se si tratta di fatti personali, anche se veri e continenti, non dovrebbero essere pubblicati.
Al riguardo operano i limiti previsti dai reati di diffamazione e ingiuria.
In generale costituiscono un evidente limite al diritto di cronaca anche l’onorabilità e la dignità della persona.

Veniamo a noi. Non sono una assidua spettatrice del programma Porta a Porta e men che mai in questo momento sarebbe d’aiuto alle mie ulcere andare in overdose di programmi che, periodicamente o quotidianamente, fanno scempio del buon gusto, dell’educazione civica e della giurisprudenza.

Per puro caso, qualche sera fa, una mia cara amica nonché attiva sostenitrice e collaboratrice del nostro gruppo facebook mi ha segnalato la puntata in corso.
Ho deciso di ascoltare cosa avevano da dire gli ospiti del padrone di casa, il giornalista Bruno Vespa.
Purtroppo nel momento in cui mi sono sintonizzata sul canale i professionisti riuniti nel salotto avevano cambiato argomento, passando dal caso di Brembate ad un altro triste fatto di cronaca.
Mi sono ripromessa di guardare la puntata, nonostante non si tratterà di una piacevole visione (e su questo torneremo a breve), poiché mi piace parlare con cognizione di causa. Fino ad allora mi limiterò a commentare un’osservazione della dottoressa Simonetta Matone che mi ha lasciata esterrefatta.
Per onestà intellettuale preciso nuovamente che non si parlava più del sig. Bossetti ma, poiché il discorso della dottoressa era molto generico, poco cambia a chi fosse riferito se se ne analizza bene il senso.

Appoggiata con veemenza dalla dottoressa Bruzzone, in quel che potremmo definire uno “sparare sulla croce rossa”, (espressione da non intendere come locuzione per indicare chi sfida qualcuno con capacità decisamente inferiori né tantomeno tesa a definire “parti” squilibrate tra loro dove è quindi scontato l’esito di un qualsiasi confronto, dal momento che noi ci sentiamo perfettamente all’altezza di ribattere), la dottoressa Matone ha aspramente criticato e messo all’indice i gruppi che nascono sui social in difesa di questo o quell’accusato di un delitto.

Sulle prime credevo di aver mal inteso il suo intervento.
La dottoressa si è spinta oltre definendo i promotori di tali gruppi, nei quali il nostro ricade, come persone poco o per niente rispettose della legge, le quali, mettendo in dubbio, o contestando apertamente e per solo partito preso, l’operato degli investigatori, degli inquirenti e dei giudici, ostacolano il corretto svolgimento delle indagini.

Ha continuato facendo di tali gruppi un unico fascio come se fosse possibile che per tutti vi fossero le stesse linee guida, cosa altamente improbabile a meno di non avere lo stesso fondatore e gli stessi iscritti.

Ha velatamente ipotizzato una volontà, laddove gliene fosse mai conferito il potere, di censura su queste voci fuori dal coro e quello che fa più impressione è che nessuno in studio si è espresso in difesa di liberi cittadini che, educatamente, nel nostro caso almeno, si limitano a condividere il proprio personale pensiero.
A nessuno è venuto in mente di citare pagine o gruppi nati dal seme dell’odio che incitano alla violenza, alla gogna, ai processi in pubblica piazza e alla pena di morte senza nemmeno aspettare una sentenza definitiva e rispettare il diritto alla presunzione d’innocenza.

Meno velatamente ha dipinto i membri di tali gruppi come degli stolti, invasati e sovversivi ai quali, in un’Italia migliore, dovrebbe essere negato il diritto a riunirsi per sostenere tali sorte di mostri indubbiamente colpevoli.
“Ma perchè meravigliarsi se ci sono pluri assassini che hanno una lunga fila di donne che li vogliono redimere o li vorrebbero sposare?” osserva il buon Vespa.
Non mi sarei meravigliata se avessero auspicato una proposta di legge mirata e tesa a rimuovere chirurgicamente il problema con buona pace dell’art.21.

Dopotutto questi gruppi travisano realtà ed evidenza dei fatti, o, nella migliore delle ipotesi, si limitano a negarle, mettono in dubbio risultati scientifici ottenuti con serietà e scrupolo, e, come se non bastasse, “inventano” storie di sana pianta.
Questo discorso così incisivo assume un contorno inquietante se tenuto mentre si è seduti a fianco del sig. Biavardi che stringe in una mano una copia del suo settimanale e nell’altro i suoi occhialini sottratti a Maschera Gialla.

Ma cerchiamo di ricapitolare e di spostare il succo del discorso facendo riferimento anche al caso del signor Bossetti: sì, perché ci sentiamo colpiti, sia pure indirettamente, da un’invettiva nei confronti dei gruppi facebook o altri spazi virtuali che esprimono concezioni/opinioni garantiste in relazione a questo o quell’indagato.

Francamente, e per quanto ci rifletta cercando possibili diverse interpretazioni, trovo che le parole della dottoressa Matone siano gravissime: per quanto ci si ostini a voler difendere in TV la casta dei magistrati, infatti, qui vorremmo cogliere ora l’occasione per ricordare che mentre i gruppi facebook garantisti, che tanto sembrano turbare il sonno di quanti, evidentemente, ritengono la nostrana magistratura inquirente infallibile per grazia infusa, non solo esercitano un legittimo diritto di opinione e di critica ma si fanno perfino promotori di un imperativo costituzionale (quello di considerare innocenti gli indagati e imputati fino al terzo grado di giudizio), chi invece viola platealmente questo dovere civile (ed anche il codice deontologico dei giornalisti e le chiarissime direttive dell’AGCOM) sono coloro che partecipano ai salottini-gogna.
Il mio professore di diritto penale diceva sempre che la maggior parte dei giuristi dimentica i principi del diritto non appena abbandona le aule universitarie: e quanto aveva ragione!

Se vogliamo parlare del fatto che il processo mediatico dovrebbe essere vietato quanto prima, specie nei casi di processi indiziari, che di per sé già si collocano ai limiti delle garanzie costituzionali, non posso che essere pienamente d’accordo, dal momento che queste gogne, come è noto, influiscono in modo determinante sull’animus del giudicante: se i processi mediatici sparissero, sono certa che anche i gruppi facebook a tema non avrebbero più alcuna ragione d’esistere.

Il nostro sistema processualpenalistico, ormai da decenni segnato, come evidenziato da studi di illustri giuristi e massmediologi, da un chiaro connubio tra inquirenti e media, spesso sfociante in feroci gogne mediatiche nelle quali la difesa non ha possibilità di replica, appare infatti sempre più simile ad un pericoloso “cul de sac”, un vicolo cieco nel quale il sistema, dopo essersi esposto per anni con la sua stessa propaganda -talvolta, francamente ridicola e squallida- non può che autofagocitarsi per non ammettere i propri errori o le proprie incertezze (ricordo a tal proposito che il “dubbio”, secondo il nostro codice di procedura penale come novellato nel 1988 dovrebbe essere di per sé motivo di sentenza assolutoria).

Tutto ciò ha delle ripercussioni gravissime sulla vita di individui, i cui diritti fondamentali vengono lesi senza alcun criterio, e spesso senza alcuna via d’uscita.

La malcelata velleità di “imbavagliare” chi non si trova d’accordo con gli inquirenti supera ogni limite di tollerabilità.
Tutto ciò anche fingendo di dimenticare che la nostra infallibile magistratura inquirente, con i suoi errori ci è costata, dal 1991 ad oggi, ben seicento milioni di euro.
Cifre da capogiro, che tuttavia non rendono del tutto conto della reale entità del problema: non a caso, forse, l’ex giudice Edoardo Mori ebbe a dire una volta che mentre i medici sono soliti nascondere i propri errori sottoterra, i magistrati li nascondono in galera.

Del processo mediatico ho elencato abbondantemente i gravissimi effetti negativi, fomentati negli stessi salotti in cui ora ci si scaglia contro chi contesta gli inquirenti.
Ma il processo mediatico ha anche un -la consolazione è ben poca, ma al fine di quanto sto per dire va evidenziato- aspetto positivo, ossia quello di consentire all’opinione pubblica, o meglio alla parte dell’opinione pubblica che non pende dalle morbose polpette avvelenate degli inquirenti, un controllo del modo in cui le indagini si sviluppano.

Ebbene, se un cittadino critica la magistratura inquirente laddove questa stia svolgendo un lavoro oggettivamente buono, la critica resta un suo diritto, ma certamente non è condivisibile.
Ma laddove un cittadino critichi una Procura che con i suoi stessi atteggiamenti sembra richiedere le critiche a gran voce, sta addirittura espletando un dovere.

D’altronde, non siamo stati certo noi a chiedere alla Procura di Bergamo di diffondere con solerzia imbarazzante ogniqualvolta ci sia stato il bisogno di “coprire” notizie reali, ossia relative all’assenza di riscontri positivi in tutti i rilievi tecnici effettuati nonché alla mancata richiesta di giudizio immediato che mette nero su bianco, impietosamente, la presenza di un vero e proprio sequestro di Stato condotto senza supporto probatorio alcuno, una serie di fanfaluche senza pari, tra le quali vale la pena di ricordare le più “qualificanti”:

1- la diffusione di un interrogatorio nel quale all’indagato veniva chiesta la frequenza dei rapporti sessuali con la moglie;

2- la diffusione della testimonianza di una donna riportata dai giornali in questi termini: “Bossetti mi chiese se era bella la mia sorellina”.
Peccato che la questione fosse un po’ diversa: la “sorellina” aveva quaranta anni suonati e la testimonianza in realtà ci informava del “clamoroso” fatto che Bossetti si era una volta limitato a fare un banale complimento ad un signora, chiedendole, appunto, se la di lei sorella fosse affascinante come la sua interlocutrice;

3- la diffusione della notizia di “nuovi filmati che inchiodano Bossetti” in quanto mostrano il suo furgone per 50 minuti vicino alla palestra: questa è proprio una sciocchezza smontabile anche da un bambino dell’asilo; non solo perché da quei filmati non si distingue nessun furgone specifico ed ogni giorno su quella strada passano decine di furgoni, ma soprattutto perché non c’è nessun nuovo filmato: i filmati sono stati acquisiti quattro anni fa, anche perché dopo alcune settimane le telecamere di sorveglianza vengono resettate, quindi mostrano esattamente quanto si sapeva da quattro anni, ossia nulla di rilevante, tanto che proprio per l’assenza di qualsivoglia riscontro di quel tipo la Procura di Bergamo ha condotto per quattro anni un’indagine alla cieca ancorata solo ad una traccia biologica di per sé inidonea a provare alcunché e forse perfino non più esistente in rerum natura;

4- la divulgazione della notizia secondo la quale la moglie di Bossetti aveva “due amanti”: al di là della palese irrilevanza della notizia, alla cui veridicità per giunta, visti i precedenti, neppure credo, penso che questa sia la prova schiacciante che “inchioda” come dicono i giornalisti nostrani, la Procura di Bergamo per il suo non avere nulla in mano;

5- la divulgazione della “prova schiacciante” data dal fatto che Bossetti, da adolescente, un giorno “si sentì male e venne portato in ospedale dall’ambulanza”: davvero un fenomeno inusitato, pare che chiunque salga su un’ambulanza diventi un serial killer!

6- la divulgazione della notizia secondo la quale una testimone che portava a spasso il cane vide Bossetti quella sera (notizia smentita dalla stessa testimone);

7- la divulgazione della notizia secondo la quale una testimone dopo quattro anni ricorda (!!!) di aver visto Bossetti in auto con Yara: la testimone, le cui parole tardive non hanno comunque la minima credibilità neanche al fine di trovare altre piste, non ha mai affermato di essere certa del fatto che l’uomo fosse Bossetti né che la ragazza fosse Yara.
Voci di corridoio affermano che vedere un uomo ed una ragazza che parlano a bordo di un auto sia, in realtà, un fenomeno frequente.
Intanto, i più quotati neuropsichiatri del mondo pare abbiano già fatto i bagagli per partire alla volta di Bergamo, incuriositi dall’inusitato fenomeno che si registra nella zona: i ricordi aumentano con il passare del tempo.

8- la divulgazione della notizia secondo la quale Bossetti digitava su google parole come “sesso” e “tredicenne” e così accedeva a siti pedopornografici: qui sfioriamo la comicità, anzi, la superiamo; da google ovviamente non si accede a nessun sito pedopornografico, dal momento che si tratta di siti illegali e accessibili solo da esperti conoscitori del deep web.

In tutta questa caciara di fesserie abnormi, nessuno si è ancora preso la briga di notare che le ferite sul corpo della povera Yara sono forse state inferte da un mancino mentre in cella da sette mesi c’è un destrimano contro il quale non si è trovato, ad eccezione della traccia biologica che forse esiste ancora e forse no, un bel nulla.
Ed è bene sottolineare che quest’ultima considerazione non è nostra: ha detto la stessa cosa anche il Tribunale del Riesame.

Per tornare alla (doverosa) polemica iniziale, i nostri spazi virtuali, qui e sui social network nascono per difendere il diritto costituzionalmente sancito alla presunzione di innocenza di un individuo i cui diritti fondamentali sono stati ripetutamente lesi nel corso degli ultimi duecento giorni.

Non nascono certamente per screditare la Procura di Bergamo, anche perché -a tal fine- mi pare più che sufficiente la caterva di amenità sopra ricordate.

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