Tra realtà e reality, tra processo giudiziario e processo mediatico, la condanna del nostro secolo avverrà tramite il televoto (seconda parte).

Seconda parte e conclusione del dossier scritto a quattro mani con Laura.
Aggiungo un sentito ringraziamento anche a Rocco Cerchiara per le sue preziose osservazioni sulla pedofilia.

Dopo un’attesa di qualche giorno, mentre le trombe della grancassa hanno impunemente ripreso a suonare con gossip di sempre più infima lega e notizie prive di fondamento spacciate per verità assodate, è giunto il momento di rendere pubblica la seconda parte della nostra disamina.
Per chi si imbattesse nel blog solo ora, oltre che consigliare la lettura degli articoli precedenti, rimandiamo anzitutto alla prima parte del dossier Tra realtà e reality, tra processo giudiziario e processo mediatico, la condanna del nostro secolo avverrà tramite il televoto (prima parte).

Come già anticipato, questo dossier si propone di esaminare in maniera selettiva vari aspetti poco chiari e problematici della vicenda, talvolta già valutati anche in articoli precedenti, e di fare più approfondite ed ordinate considerazioni.

Chi ha letto la prima parte, sa che abbiamo individuato tredici punti, dei quali abbiamo già affrontato i primi otto.
Rimandando dunque alla prima parte per l’analisi dei primi otto, riportiamo ora, per ragioni di scorrevolezza, i punti dal nove al tredici, e ci accingiamo ad esaminarli nel presente scritto.

9) Impossibilità (o comunque incertezze sulla possibilità) di ripetere il test genetico in contraddittorio a partire dalla traccia originale sugli abiti

10) Palesi incongruenze nelle testimonianze su “Ignoto1″

11) Accreditamento di soli elementi e testimonianze a sfavore, costanti fughe di notizie parziali tendenti a suggerire una lettura sfavorevole all’attuale indagato

12) Incongruenze nell’ordinanza del GIP circa la natura probatoria ovvero meramente indiziaria del DNA

13) Oscillazioni della giurisprudenza cassativa sul valore probatorio ovvero indiziario del DNA, assenza di pronunce a Sezioni Unite, contestazioni dottrinali e implicazioni processuali e fattuali della cosiddetta “fallacia dell’accusatore”

Per quanto riguarda il nono punto, relativo alla probabile impossibilità di ripetere il test genetico in contraddittorio a partire non dal campione di Ignoto1 ora disponibile, ma dalla traccia originale sugli abiti, avevo già lanciato l’esca nella prima parte.
Chi ha letto (al link Sul test del DNA in ambito forense (da Forensic DNA Evidence: The Myth of Infallibility, di William C. Thompson)- Sintesi di Rocco Cerchiara) avrà certamente intuito che ci sono delle buone ragioni per ritenere che un simile accertamento possa essere importante, anche perché in caso di tracce miste le possibilità di errori nell’interpretazione dei dati, dovute a fenomeni quali l’allelic dropout sono tutt’altro che infrequenti.

Inoltre, nonostante la sindrome scientista che imperversa, diversi casi giudiziari degli ultimi anni hanno platealmente dimostrato come anche da dati apparentemente certi, le perizie di parte siano spesso riuscite a giungere a conclusioni opposte.

In queste pagine abbiamo spesso parlato del possibile trasporto del DNA.
Infatti, nonostante il nuovo slogan “il DNA non vola” faccia da padrone, quello che nessuno, compresi gli inquirenti ed i solerti salottieri che pure hanno fatto un gran parlare della vicenda, ha ritenuto di dover dire in maniera chiara all’opinione pubblica, è che il DNA non solo è facilmente trasportabile, ma oltre a non volare, per quanto mi è dato sapere e fatte salve innovative scoperte scientifiche degli ultimi tempi, non parla neppure e nulla dice di come sia arrivato lì.
Sulla facile trasportabilità del DNA inserisco a titolo esemplificativo un piccolo estratto dal testo “La prova del DNA per la ricerca della verità. Aspetti giuridici, biologici e probabilistici” (di U. RICCI, C. PREVIDERÈ, P. FATTORINI, F. CORRADI, Giuffrè Editore), nel quale si parla perfino di trasporto “doloso” del DNA, anche se è bene ovviamente sottolineare che il fenomeno può verificarsi anche in modo del tutto involontario.

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Tutto ciò- lo ribadisco perché repetita iuvant– ipotizzando che il signor Massimo Bossetti sia certamente Ignoto1, cosa che ad oggi, in assenza di una comparazione ripetuta in contraddittorio, mi permetto di ritenere, peraltro, ancora non del tutto certa, e che certa non sarà fino a ripetizione del prelievo del DNA di Bossetti in condizioni scientificamente e legalmente accettabili ed appropriate (presupposti non certamente integrati con un prelievo salivare a mezzo etilometro) e sua comparazione non con il vecchio campione già estratto di Ignoto1, ma con un nuovo campione di DNA prelevato ex novo dalla traccia originale sugli abiti, nella speranza che tali abiti siano stati conservati in condizioni accettabili e congrue.

La probabile impossibilità di ripetere un simile accertamento lascia l’amaro in bocca di fronte ad un elemento troppo certo per consentire diritto di replica ma troppo incerto per consentire il contraddittorio, che pure varrebbe a scongiurare il rischio di un eventuale errore nell’etichettatura o nel campionamento.

Risale in effetti a pochi anni fa il caso di un esame del DNA effettuato in Italia e spedito all’Interpol per l’identificazione di un colpevole di omicidio, che identificava senza alcun dubbio un pregiudicato inglese, residente a Londra.
L’unico problema si rivelò essere il fatto che tale pregiudicato inglese da Londra non si fosse mai mosso, mentre l’omicidio era avvenuto in Italia.
Molto probabilmente l’errore umano fu commesso nella scrittura di alcune sigle che causarono l’errata identificazione.

Inoltre, dal momento che come è noto la corrispondenza del DNA viene espressa in termini percentuali, non si potranno trascurare in una valutazione attenta neppure alcuni paradossi della statistica.
Nel saggio “La prova scientifica nel processo penale” di Luisella De Cataldo Neuburger viene offerto un esempio chiaro di fallacia dell’accusatore nell’interpretazione di dati probabilistici nella valutazione della prova del DNA.

Si parla in tale frangente della questione delle banche dati del DNA: sappiamo bene che in Italia non esistono, tuttavia, la questione di fondo risulta compatibile con il nostro caso, in quanto siamo di fronte ad un’indagine che seguendo direttrici “rovesciate” non è pervenuta ad un indagato sulla base di una pista ragionevole e congrua per poi addivenire ad una comparazione genetica, ma è arrivata ad un indagato altrimenti insospettabile sulla base di indagini a tappeto su migliaia di persone (e di chiacchiericcio paesano, ça va sans dire).
Di conseguenza, risultano tutt’altro che inadeguate le parole della Prof. De Cataldo Neuburger:

“A causa della fallacia delle probabilità a priori, giudici e accusatori, informati da un perito sulla scarsissima probabilità di corrispondenza nella popolazione, tendono a usare questo valore senza aggiustarlo in base alla probabilità a priori: in altre parole, se la probabilità di corrispondenza nella popolazione per un dato profilo è di 1 su 1.000.000, e Tizio corrisponde a quel profilo, ritengono che le chances di Tizio di non essere colpevole non siano molto più alte di 1 su 1.000.000.

Ciò è errato.
Infatti, quando il sospetto è identificato esclusivamente in base ad una ricerca in un database di profili DNA, le sue chances di colpevolezza a priori sono irrisorie.
Ad esempio, in un territorio con 10.000.000 di abitanti fisicamente in grado di perpetrare un certo crimine, la probabilità di colpevolezza a priori di ciascuno di loro, incluso il cittadino che corrisponde al profilo, è di 1 su 10.000.000.
In queste circostanze, la possibilità a posteriori di colpevolezza, lungi dall’essere la “quasi certezza”, è inferiore al 10%”

Ancora più eloquentemente si potrebbe citare quanto si legge in Statistics and the Evaluation of Evidence for Forensic Scientists, di C. AITKEN, F. TARONI, Wiley, 2004:

“Dichiarare un’identificazione è un’opinione a proposito dell’ipotesi sul fatto.
Questa (illogica) conclusione segue da un enunciato di probabilità che dice che la chance di osservare un’altra persona sulla Terra che abbia la stessa caratteristica è zero.
È un’opinione che le caratteristiche osservate siano sufficientemente uniche per eliminare tutti gli altri individui viventi.
Una volta affermato ciò, nessuna prova contraria (nemmeno un alibi) potrà minare la certezza dell’esperto.
Il passaggio da un enunciato di probabilità ad uno di certezza è un ‘atto di fede’ piuttosto che una conseguenza logica e una tale conclusione costituisce una scorretta comprensione dei rispettivi ruoli dello scienziato forense e del giudice nel processo inferenziale, e del ruolo stesso della statistica nella scienza forense.”

Qualora per qualcuno le citazioni di cui sopra risultassero di difficile comprensione a causa dei troppi tecnicismi, potremmo d’altronde fare un più ironico e non meno clamoroso esempio di paradosso statistico attraverso il celebre caso della statistica del pollo, così descritta a suo tempo da Trilussa:

“Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:

e, se nun entra nelle spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due.”

Qualcuno potrebbe forse sollevare qualche obiezione rispetto all’adeguatezza in tal frangente dei versi di Trilussa.
Tuttavia, dal momento che le notizie degli ultimi giorni rivelano che, a quanto pare, c’è chi nell’estenuante ricerca di indizi (che è sempre più evidente che non esistono) a carico del signor Massimo Bossetti non esita a diffondere notizie prive di fondamento senza neanche curarsi di dar loro una parvenza di credibilità né a frugare nelle mutande dell’intera famiglia senza curarsi del doveroso riserbo della stampa, perdonerete anche noi per una piccola e veniale “caduta di stile”.

Tutto ciò, ovviamente, rimarcando per l’ennesima volta che l’esempio più calzante di fallacia dell’accusatore, anche al di là degli scherzi della statistica e dello scientismo esasperato (che nulla ha a che vedere con la scienza, che nel dubbio trova fondamento), è il voler ritenere che il materiale genetico trovato sulla scena del delitto appartenga necessariamente all’assassino:

“(…) Un errore ancor più pericoloso consiste nel confondere la probabilità di una corrispondenza casuale con la probabilità della colpevolezza o innocenza (confusione nota come ‘fallacia dell’accusatore’): questi due dati vanno tenuti ben distinti, non solo perché, nonostante un’elevata probabilità di corrispondenza casuale, l’imputato potrebbe non essere la fonte del materiale genetico, ma anche, e soprattutto, perché l’imputato potrebbe essere innocente, pur essendo la fonte del materiale genetico.
Insomma, anche se il DNA rinvenuto sulla scena del reato (o sul corpo della vittima) appartenesse all’imputato, ciò non implicherebbe che egli sia colpevole, potendo ben esserci altre spiegazioni di tale rinvenimento.
(Prof. Francesca Poggi, Tra il certo e l’impossibile.
La probabilità nel processo)

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Se c’è un punto in tutta questa vicenda sul quale è giocoforza tornare in quasi tutti gli articoli è quello concernente la rosa di informazioni infondate e smentite senza tuttavia licenza di rettifica, ovvero di quelle informazioni discordanti ma cionondimeno assurte da dubbie pubblicazioni a prove, che, onestamente non sono degne nemmeno di essere definite indizi.
Sarebbe auspicabile che chi deve giudicare distinguesse le illazioni gratuite da ciò che potrebbe realmente pesare a carico del nostro indiziato.
Volendo partire dall’inizio, vi è la ritrovata memoria di alcuni vecchi amici del signor Giuseppe Guerinoni, i quali nonostante fossero passati quattro anni dall’omicidio durante i quali si sarebbe potuto fare avanti, hanno preferito aspettare la bellezza di 18000 prelievi salivari prima di puntare il dito contro la signora Ester portando gli inquirenti a ripetere un test che in passato aveva dato, parrebbe per un errore nella comparazione, esito negativo (che sentitamente dedichiamo a chi nega tout court la possibilità di errori umani) quanto al rapporto di maternità/filiazione con Ignoto1.

Abbiamo letto numerose versioni dei fatti da parte di questi testimoni e la stampa ha pensato bene di “tappare” i buchi temporali con la scusa dell’età avanzata che avrebbe confuso i loro ricordi.
Si è parlato di una ragazza inguaiata “all’inizio degli anni ’60” (nonostante Massimo Bossetti sia nato dieci anni dopo), di un bambino dato in adozione, di un bambino lasciato in un orfanotrofio da una barista nubile, di una relazione clandestina dalla quale nacquero i gemelli, di tresche sulla corriera dell’amore, di tappeti rossi alla finestra ad indicare non si sa bene quale misterioso messaggio.

Non appena saranno resi pubblici gli atti della Procura, sarà interessante verificare come siano andate effettivamente le cose relativamente alle testimonianze.
Per ora, ci limitiamo a sottolineare che se le indagini avvenieristiche sono davvero questo guazzabuglio di chiacchiericcio tra comari, c’è davvero poco di cui fare vanto.

pettegolezzo

Ci sono stati poi commercialisti, colleghi di lavoro, negozianti, grossisti, benzinai, baristi, giornalai, vicini di casa e proprietari di centri estetici come ci sono state insegnanti del centro sportivo e compagne di danza di Yara.
Ebbene, di tutte le corbellerie che hanno riempito le pagine dei giornali si è fatto attenzione a porre l’accento solo sui particolari che avrebbero deposto a favore dell’accusa.
Se non è parzialità questa, allora ci venga spiegato una volta per tutte come mai non hanno avuto spazio le persone che giurano di non aver mai visto il sig. Massimo nei dintorni del centro sportivo, una notizia davvero degna di nota laddove si suppone che l’assassino pedinasse la vittima e ne seguisse gli spostamenti.
Una notizia, questa, che è stata data in maniera rapida e con scarsa enfasi: probabilmente, un titolone a tema non avrebbe garantito una buona tiratura.

Si spera, quantomeno, che questa sorta di indagine parallela ad opera di giornalisti che personalmente radierei dall’albo, non abbia toccato davvero elementi su cui lavora anche la Procura, perché in questo caso non saremmo alla frutta, ma direttamente al dessert.
Da un paio di settimane mi sto avvelenando il sangue leggendo alcune riviste dai contenuti francamente avvilenti, per acquisire, con ben poco giovamento per le mie ulcere, il punto di vista di coloro i quali si “bevono” di tutto e mi ha colpito tantissimo la “testimonianza” di alcuni vicini di casa della famiglia Bossetti/Arzuffi.
Si è arrivati a sostenere che il piccolo Massimo, in tenera età, fu portato in ospedale addirittura in ambulanza: da questo trauma sarebbe scattata in lui la brama di uccidere che lo avrebbe tormentato fino all’omicidio di Yara.
Quale possa essere il nesso tra le due cose rimane un mistero: ci auguriamo che perlomeno per gli articolisti la cosa possa avere una logica.
Noi, nonostante i non pochi sforzi, non riusciamo proprio a trovarla.

Ma gli ultimi giorni ci hanno, ahimè, offerto su un piatto d’argento una nuova ondata di tracollo mediatico sulla quale è giunto il momento di spendere qualche nuova parolina.
Le news degli ultimi giorni, giunte, guarda caso, a ridosso della notizia che a breve la difesa di Massimo Bossetti presenterà un’istanza di scarcerazione, offrono un’occasione ulteriore per analizzare impietosamente la “macchina del fango” solertemente messa in moto.

Partiamo anzitutto dalla “notizia” data in pasto al pubblico pochi giorni or sono su due presunte relazioni extraconiugali della signora Marita Comi.
Volendo riassumere la vicenda con le parole di Vittorio Feltri (una delle poche voci ad essersi levate contro la barbarie), “stando a Giuliana Ubbiali, la cronista che ha rivelato quest’ultimo particolare piccante sui coniugi, due gentiluomini si sono presentati (spontaneamente? ne dubito) in Procura e hanno confidato agli inquirenti di avere avuto rapporti intimi con la signora Marita”, e dunque “gli investigatori hanno infilato negli atti processuali che due linguacciuti asseriscono di essersi divertiti, sessualmente parlando, con la consorte di Bossetti”.

Al di là della “fondatezza” (che possiamo, come al solito, intuire) della notizia, dal momento che, quand’anche i due “linguacciuti” di cui sopra avessero fatto tali dichiarazioni, la prima ipotesi sarebbe quella dei mitomani, giacché intuibilmente, in circostanze di questo tipo, non molti parlerebbero, se non altro perché avrebbero paura di essere coinvolti nell’indagine- paura comprensibile, tra l’altro, in un contesto in cui pare che anche il fatto di respirare possa essere un indizio, anche qualora la notizia fosse veritiera (cosa della quale, vista la totale assenza di prove, dubito fortemente) non si capisce in quali termini possa essere correlata all’omicidio.

Per capirne di più, è giocoforza riportare anche lo “scoop” odierno, trapelato a partire da Repubblica, con articolo a firma di Paolo Berizzi, lo stesso giornalista che non molti anni fa scrisse su un presunto traffico nel mondo della pedopornografia relativo ad “ecografie di feti” (sic!), secondo il quale dalle analisi dei pc di Massimo Bossetti sarebbe emersa la ricerca di materiale pedopornografico.
Riporto la notizia in modo volutamente evasivo, perché dall’indiscrezione, solertemente ripresa da tutti i restanti organi di stampa (e seguita da categorica smentita dell’Avv. Claudio Salvagni), non si capisce un bel nulla.

Bergamonews ci comunica anzitutto che “il pc di Massimo Bossetti non era nuovo, ma allestito assemblando parti già usate da altri e quindi le ricerche potrebbero essere state effettuate da precedenti proprietari”.

Di contro, come queste presunte ricerche siano (rectius, sarebbero, visto il tono globalmente farsesco della notizia) state effettuate è un bel mistero.
Anche una lettura veloce, mostra una serie di incongruenze interessanti tra le varie fonti: da qualche parte c’è scritto che cercava la parola “tredicenni” su google (il che vuol dire poco o nulla, avendo anche un figlio di 13 anni), da qualche altra parte che lo cercava in un sito pedopornografico.
Quest’ultima versione dei fatti è già di per sé dubbia perché i siti pedopornografici sono oscurati e per raggiungerli bisogna avere sofisticate conoscenze informatiche e software dedicati, che è lecito supporre sarebbero emersi ben prima della data odierna.
Detto ciò, mi pare che la soglia del ridicolo sia già stata abbondantemente superata da tempo e stia ora aggiornandosi alla versione 2.0, il tutto nel corso di una faticosa sessione di arrampicata sugli specchi.

Il discorso “pedofilia” è di per sé estremamente complesso, e la prima doverosa precisazione è che, in genere, un pedofilo cerca materiale relativo a soggetti impuberi.
Questa considerazione si aggiunge al fatto che appare non poco farsesco immaginare che un pedofilo cercasse proprio la parola “tredicenni” (guarda caso) e non “dodicenni” o “quattordicenni”.

La notizia come data da Bergamonews è comunque interessante per almeno un altro motivo, e nello specifico perché, secondo quanto riportato, la ricerca su Google della parola chiave “tredicenni” andrebbe ad aggiungersi “a quanto già noto e cioè che l’uomo, in carcere ormai da più di due mesi, aveva seguito siti pedo-pornografici”.

Come la cosa fosse già nota, non è dato sapere, dal momento che era noto l’esatto opposto.
A chi scrive risulta, infatti, che la cosa non fosse mai trapelata finora, come si può tranquillamente osservare da una miriade di articoli risalenti al 18 luglio (in cui si parlava di materiale hard non pedopornografico).

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Tra l’altro, il fatto che le analisi dei pc fossero cominciate a metà luglio la dice lunga sull’affidabilità di Repubblica che, in data odierna, parla di “primi accertamenti”.

Traggo invece da fonte Adnkronos che:

“Dal computer, secondo alcune fonti vicine all’indagine, sarebbe stata eseguita una “ricerca finalizzata alla visualizzazione di materiale pedopornografico, unendo la parola tredicenne e sesso, ad esempio”. Dagli accertamenti ancora in corso da parte del Ris emergerebbero dei collegamenti su siti pornografici, ma sul quel pc non sarebbero stati scaricati video o foto pedopornografici.”

Sorvolando sul fatto che la prima e la seconda frase sembrerebbero contraddirsi, se la ricerca delle parole “tredicenne” e “sesso” è avvenuta a partire da un motore di ricerca, le parole chiave utilizzate, in particolare “sesso”, ricordano decisamente una classica bambinata, quale potrebbe essere, ad esempio, una ricerca effettuata dal figlio tredicenne di Massimo Bossetti, che come tutti i suoi coetanei avrà le normali curiosità tipiche della preadolescenza.

Fatte queste doverose premesse sulla solita caterva di notizie equivoche, di fonte incerta, smentite, contraddittorie e possibilmente inutili, ciò che ci si chiede di fronte a quanto trapelato negli ultimi giorni è, ancora una volta, cosa dovrebbe (o vorrebbe) dimostrare.

Riportare notizie fumose e possibilmente non verificate circa la parola “tredicenne” cercata su un motore di ricerca in una famiglia in cui, guarda caso, c’è un tredicenne, è lo stesso meccanismo, invero piuttosto risibile, che porta a semplicistiche conclusioni del tipo ragazza uccisa = movente sessuale = agente non sessualmente soddisfatto nella propria vita coniugale = moglie che aveva relazioni extraconiugali.

Dopo aver sottolineato che una tendenza alla pedofilia non è necessariamente correlata ad azioni di tipo omicidiario e che non si diventa pedofili da un giorno all’altro perché la consorte ci tradisce, è bene rimarcare, come già accennato sopra, che reperire materiale pedopornografico non è facile come può sembrare, per il semplice fatto che produrlo è illegale, cosa che un adulto sa benissimo: cercare su Google “tredicenni” e “sesso” aspettando di trovare davvero materiale pedopornografico è come scendere in piazza e strillare: “scusate, qualcuno avrebbe della droga da vendermi?” aspettandosi che qualcuno si faccia avanti.

Da quel che è trapelato non risulta nessun accenno a comportamenti sociali e sessuali anomali nella storia di vita di Bossetti.
Niente che faccia pensare ad una certa attitudine alla molestia e allo stupro: già, perché anche per quel che riguarda lo stupro non ci si sveglia una mattina e si decide di stuprare qualcuno, né lo si fa se la propria moglie ha una relazione extraconiugale, né tantomeno una eventuale relazione extraconiugale della moglie funge da spinta verso pulsioni sessuali nei confronti di minori.

Tutto questo, posto che lo stesso omicidio in questione e la scena del crimine, a prescindere da chi ne sia l’autore, non hanno molti elementi per puntare dritti al movente sessuale.
Sarebbe infatti interessante se una volta per tutte ci spiegassero, se proprio vogliono il movente sessuale, come mai non siano stati riscontrati segni di violenza sessuale sulla vittima.
Non perché la cosa sfuggì di mano all’aggressore prima, evidentemente, giacché si colloca l’ora della morte alcune ore più tardi- la morte potrebbe essere sopraggiunta perfino nelle prime ore del mattino successivo, stando all’ordinanza.
Si tratta dunque di bella gatta da pelare per gli inquirenti, dal momento che ogniqualvolta “mettono una pezza” (si fa per dire) è evidente che aprono altri due buchi.

Quantificare il danno che queste dichiarazioni provenienti da “fonti vicine all’indagine”(che dall’indagine dovrebbero essere immediatamente allontanate vista la loro attitudine al parlar troppo in violazione del segreto), arrecano all’immagine del sig.Bossetti non è materialmente possibile.

Oltre alle cattiverie gratuite perpetrate ai danni di una famiglia per il solo gusto di infierire e sfogare frustrazioni personali, la gran parte della gente, dinnanzi a molte di queste “pseudonotizie” cade in un errore infimo di logica, il quale tende grosse trappole, sta dappertutto e spesso è difficile da individuare e neutralizzare.

Parlo della logica del post hoc propter hoc, errore comunissimo e radicato: trattasi di un sofisma che consiste nel prendere per causa quello che è un antecedente temporale, ovvero si pretende che se un avvenimento è seguito da un altro, allora il primo deve essere la causa del secondo.
Questo sofisma è un errore per adduzione particolarmente attraente perché la conseguenza temporale sembra inerire al rapporto causale.
L’errore è di concludere solamente in base all’ordine degli avvenimenti piuttosto che tener conto di altri fattori che possono escludere la relazione.
I luoghi comuni e le superstizioni sono il risultato di questo errore.
Il fatto che due avvenimenti si succedono non implica che il primo sia la causa del secondo.
Per fare un semplice esempio, la morte della giovane Yara non è conseguenza logica della frequentazione o del passaggio dell’indagato per Brembate poiché questa concomitanza di fatti non è legata da alcun nesso logico.

Potrei continuare all’infinito ad elencare bassezze, distorsioni della verità, testimonianze cucite tra loro come il costume di Arlecchino o tagliate, come quella del fratellino della vittima, per farle forzatamente quadrare.

Relativamente alla testimonianza del fratellino di Yara, riporto una precedente considerazione: dall’ordinanza emerge che viene preso per buono il racconto del fratello minore di Yara nel momento in cui, con una psicologa, afferma che la sorella aveva paura di un signore con una macchina grigia e “una barbettina” (stante il fatto che il signor Massimo Bossetti risulta avere una Volvo di colore grigio e il pizzetto, ammesso e non concesso che possa definirsi “barbettina”), ma viene liquidato sommariamente in quanto trattasi di “un teste di minore età la cui capacità di rappresentazione dei fatti non può essere equiparata a quello di un adulto” il fatto che l’uomo descritto dal fratellino di Yara fosse “cicciottello” (aggettivo che senza dubbio non corrisponde affatto alla fisionomia di Massimo Bossetti) e addirittura il fatto che il bambino, quando gli hanno mostrato una foto, non ha riconosciuto l’indagato nell’uomo che aveva precedentemente descritto e che sostiene che la sorella gli avesse mostrato in Chiesa.

A tal proposito, è bene anzitutto richiamare il fatto che le (possibili) false memorie, specie nei casi di minori, effettivamente esistono, ma non si configurano in questo modo e saremmo di fronte ad un caso privo di precedenti.
A partire dagli anni ’80, in particolare negli USA nell’ambito di inchieste su falsi abusi poi rivelatesi errate, vi sono stati innumerevoli casi di cosiddetta False recovered memory syndrome, nell’ambito dei quali, da parte di minori, e spesso a causa di procedure psicanalitiche in seguito rivelatesi scorrette e capziose, si assisteva al riconoscimento di persone in realtà mai viste.
Di contro, non mi risulta si sia mai verificato il caso opposto, ossia il mancato riconoscimento di persona effettivamente vista.

Ciò premesso, è comunque difficile sostenere che sia minore d’età anche il parroco della Chiesa in questione, che pure non ricorda di aver mai visto il signor Massimo Bossetti.

parroco

Si è poi passati da un’ex fidanzata con qualche sassolino nella scarpa alla più nuova “amante” ventilata dall’ultimo numero di Giallo, ovviamente senza uno straccio di prova.
Allo stato attuale vi sarebbero nuovi testimoni misteriosi, ovviamente anonimi fino alla punta dei capelli, pronti a giurare che il matrimonio “perfetto” dei coniugi Bossetti non era poi così “perfetto”.
Si presume che i coniugi avessero rispettivamente una relazione extra coniugale e che il sig. Massimo non dormisse più nella sua casa di Mapello.
Sarebbe stato interesse di entrambi però mantenere un’apparenza di normalità, finché, un giorno, la situazione sarebbe precipitata per un improvviso moto di gelosia di lui, che, non volendo stare più ai patti, avrebbe sfogato la sua rabbia su Yara, vittima quindi assolutamente casuale, se si vuole assumere per buono ciò che ci racconta il giornalista di turno.
Ecco perché la signora Marita sorride con la cognata all’uscita dal carcere!
Può una moglie distrutta dal dolore e convinta dell’innocenza del marito sorridere? Sicuramente no!
Sarà quindi, sotto sotto, felice di essersi liberata del marito per potersi dedicare all’altro uomo che ormai da circa un anno frequenta con assiduità?
E chi è la misteriosa bionda che frequenterebbe Bossetti?
Non ci sorprenderemmo se, da un giorno all’altro, perfino chi scrive su questo blog (la cui curatrice è peraltro attualmente bionda, non naturale per la gioia di Chi l’ha visto? che in una puntata dedicò ampio spazio alle sopracciglia presuntamente “ossigenate” del signor Bossetti, sintomo indefettibile di un morboso narcisismo) trovasse il proprio volto sulla copertina di qualche giornale da quattro soldi: pare infatti che, in certi ambienti, quando la coscienza bussa alla porta di casa, si finga di essere momentaneamente usciti.
Notizie nel migliore dei casi del tutto slegate dall’indagine e prive di qualsivoglia interesse pubblico e nel peggiore “false e tendenziose” riempiono le copertine e vengono abbondantemente ripetute dagli strilloni di turno, che quando Dio distribuiva la vergogna evidentemente erano distratti: ci auguriamo di nuovo che si tratti di mere invenzioni giornalistiche, e non di notizie in qualche modo provenienti dalla Procura, perché in quest’ultimo caso ci sarebbe davvero da preoccuparsi.
Sarebbe anzi auspicabile che la Procura prendesse le distanze da certe affermazioni inverificabili ed infondate, in quanto anche la faccenda delle continue “fughe di notizie”, per i più attenti, comincia a puzzare parecchio dal momento che nessuno conosce le fonti primarie, nessuno smentisce, nessuno prende le distanze e nessuno interviene per bloccare l’ambaradan di notizie ridicole, inverificate e possibilmente fasulle diffuse con maestria.

Vale anche la pena di ricordare ciò che ai più accorti non sarà certo sfuggito, ossia che in altre circostanze (contestualmente all’emergere di notizie che avrebbero potuto rivelarsi favorevoli per l’attuale indagato) la Procura intervenne in men che non si dica ventilando la possibilità di mitomani.

vendetta

Per par condicio, sarebbe probabilmente il caso di fare le stesse dichiarazioni anche quando la stampa ciancia di presunte relazioni extraconiugali, contribuendo all’impunito massacro di un’intera famiglia nella quale, lo ricordiamo, ci sono anche tre bambini, sicuramente innocenti.

Questo circo è diventato disgustoso e più passano i giorni più chi lo dirige si mette in ridicolo: questa storia, ogni giorno che passa, diventa infatti sempre più incredibile, inverosimile e decisamente poco edificante per tutti, e sembra suggerire in modo sempre più evidente che pur di blandire il pubblico consenso ci si stia affidando al peggior giornalismo.
Un vero peccato, perché in un’Italietta in cui nessuno ammette mai i propri errori, ammettere di aver preso un grosso granchio o perlomeno fare un doveroso passo indietro mostrando la sempre più dovuta e doverosa cautela potrebbe costituire un esempio edificante per tutti.

Volendo provare a vedere il bicchiere mezzo pieno, comunque, questa continua diffusione di presunte news a tema dinnanzi alle quali anche il fratello scemo di Mr Bean scoppierebbe in una fragorosa risata, al di là degli evidenti danni morali arrecati all’intera famiglia Bossetti, sta contribuendo probabilmente anche a rimpinguare le fila dei garantisti: è sufficiente fare un rapido confronto tra i commenti in calce agli articoli dei principali quotidiano per notare come giugno ad ora, il numero dei “dubbiosi”, o meglio ancora dei lettori che senza troppi peli sulla lingua commentano la marea montante di gossip in termini critici quando non decisamente dileggianti, è cresciuto a dismisura, tanto da farmi pensare che, in fondo, i più accaniti forcaioli mediatici si sono in qualche modo rivelati dei preziosi alleati per riabilitare la figura di Massimo Bossetti agli occhi di una parte, sia pure ancora minima, dell’opinione pubblica, cadendo vittime delle proprie stesse grottesche esagerazioni.

In ogni caso, indirizzare l’informazione e distorcere testimonianze è la peggior dimostrazione di inciviltà che potessimo dare e sarebbe davvero vergognoso se questa spazzatura arrivasse in un’aula di tribunale.
La stessa frase “la legge è amministrata nel nome del popolo”, visto il modo in cui è ridotta buona parte del popolo, ultimamente ha il potere, da sola, di farmi tremare le vene dei polsi.

Veniamo infine ai punti conclusivi della lunga disamina.
Il DNA costituisce prova o indizio?
La Cassazione ha parlato!
O, perlomeno, così ci dicono.

Per rendere meglio l’idea, riporto un calzante aneddoto citato, non a questo proposito ovviamente, dall’Avv. Mauro Mellini sulle pagine del sito Giustizia Giusta:

<<C’era una storiella che circolava tra i veterani napoleonici. Un soldato della Vecchia Guardia si avvicina ai commilitoni a bivacco, con aria trasognata e le lacrime agli occhi, mormora estasiato: “Mi ha parlato! L’Imperatore mi ha parlato!”. I commilitoni dapprima sghignazzano increduli, poi, mentre quello continua a dire beato “mi ha parlato! L’Imperatore…mi ha parlato!!!” gli domandano: “e che ti ha detto?” e lui: “Levati di lì imbecille!!”>>

La Cassazione, sul DNA, ha parlato… I media hanno parlato di ciò che la Cassazione ha detto sul DNA…. L’ordinanza ha parlato di ciò che la Cassazione ha detto sul DNA.

Morale della favola: è un vero peccato che la Cassazione (proprio come l’ordinanza) sul DNA abbia detto tutto e il contrario di tutto.

Anzitutto, per cominciare a far fronte alla schiera di più o meno involontarie mistificazioni mediatiche, è bene ricordare che l’Italia è un Paese di civil law.
In soldoni: le pronunce della Cassazione, per quanto possano costituire degli orientamenti importanti, non sono vincolanti, e lo sono ancora meno quando non si tratta (come in questo caso) di pronunce a Sezioni Unite.

Anche l’ordinanza sembra dire tutto e il contrario e il contrario di tutto: infatti prima dice che la Cassazione ha detto che il DNA di per sé ha valore di prova e non di mero indizio, in seguito si contraddice espressamente poiché individua (o meglio, dice d’individuare) a carico di Massimo Bossetti “indizi gravi e concordanti”.
Gravità e concordanza sono requisiti richiesti agli indizi e non alle prove: nel rimarcare la sussistenza di indizi gravi e concordanti, l’ordinanza smentisce se stessa, in quanto lascia intuire che il DNA nel caso di specie non possa essere assurto a prova, ma a mero indizio.

Sul fatto poi che gli indizi siano “gravi e concordanti”, non mi esprimo, perché ho già versato fiumi d’inchiostro (considerando che gli altri indizi sono tracce di calce nell’albero bronchiale in buona parte compatibili con il cantiere al quale puntarono inizialmente i cani molecolari e celle telefoniche agganciate da Bossetti da casa propria, nonché la testimonianza del fratellino di Yara su un uomo “cicciottello e con una barbettina”, di cui si salva la barbettina e si finge di non vedere il cicciottello).

Il punto è un altro: perché l’ordinanza si contraddice?

La verità è che gli orientamenti cassativi vacillano, e vacillano parecchio.

I media hanno strombazzato ai quattro venti che il DNA secondo la Cassazione è una prova, ma questo non è del tutto vero.

Una pronuncia del 2004 (Cass., Sez. I, 30 giugno 2004, n. 48349) aveva affermato che gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA presentassero natura di prova, e non di mero elemento indiziario.

Questa pronuncia è stata ampiamente criticata dalla dottrina, perché apre le porte ad un arbitrio infinito dal sapore inquisitorio (nel senso storico del termine) in quanto, ovviamente, la prova del DNA sulla scena del crimine non può indicare nulla più che presenza, non colpevolezza.
Il tutto implica un pericoloso aggiramento dell’onere probatorio.

Tuttavia, la stessa Cassazione ha affermato che, “nel valutare i risultati di una perizia o di una consulenza tecnica, il Giudice deve verificare la validità scientifica dei criteri e dei metodi di indagine utilizzati, allorché essi si presentino come nuovi e sperimentali e perciò non sottoposti al vaglio di una pluralità di casi ed al confronto critico tra gli esperti del settore, sì da non potersi considerare ancora acquisiti al patrimonio della comunità scientifica” (Cass., Sez. II, 11 luglio 2012)

Nel 2013, la Cassazione si è contraddetta di novo, perché pur tornando alla pronuncia del 2004 sulla natura di prova e non di mero indizio del DNA ha fatto un correttivo, affermando che “peraltro, nei casi in cui l’indagine genetica non dia risultati assolutamente certi, ai suoi esiti può essere attribuita valenza indiziaria” (Cass., Sez. II, 5 febbraio 2013, n. 8434).

A questo punto, sarebbe interessante capire come potrà essere valutato il DNA nel caso in questione (ferme restando tutte le considerazioni di cui ai punti sei e nove del nostro dossier).

L’attuale vicenda ci ha regalato una serie di inversioni a U da parte di alcuni avvocati e criminologi (non tutti, per fortuna) che dopo una partenza cauta quando non espressamente garantista, forse nel timore di indossare vesti impopolari vista la tendenza mediatica globalmente colpevolista nel caso in questione, hanno ben pensato di balzare lestamente su un altro carro (il repentino cambiamento di opinione, mai motivato, avrà certamente giovato alla loro salute nonché, soprattutto, alla loro carriera).

In queste pagine abbiamo rimarcato a più riprese come la presenza del DNA non sia sufficiente, per una serie di ragioni tendente all’infinito, al superamento del ragionevole dubbio.

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La nostra critica non è, dunque, rivolta alla scienza, ma alla mistificazione che tende a trasformarla in senso dogmatico e largamente irrazionale.
Nella prima parte del dossier è stato fatto notare, non senza un briciolo di ironia, che la traccia di DNA non solo non è suffragata da alcun elemento, ma se si dovesse ipotizzare la colpevolezza di Massimo Bossetti si arriverebbe a dei corollari assurdi, ad un quadro che fa acqua da tutte le parti.
Per dirla con le parole precedentemente utilizzate, ipotizzando la colpevolezza di Bossetti si dovrebbe prendere per buona una serie di circostanze “inverosimili e incredibili” che se davvero si fossero verificate in concomitanza sarebbero molto più uniche e singolari della sequenza di DNA!

L’amara impressione è che questa sia una storia alla quale la verità è negata.
L’indagine si è persa prediligendo lo strumento forense agli strumenti tradizionali che avrebbero potuto offrire piste molto più attendibili.
Lungi dalla volontà di stigmatizzare le indagini forensi, è comunque chiaro che queste ultime non possono sostituire i metodi d’indagine standard.

Il test del DNA dovrebbe, teoricamente, essere lasciato per ultimo, per confermare o smentire una pista già vagliata e considerata attendibile e congrua.
Invece, complici le difficoltà del caso, si è perso il lume della ragione e si è preferito escludere tout court la logica e spendere tanto tempo e denaro in una roulette russa alla ricerca della fonte di un’unica ed esigua traccia genetica che nulla diceva sul come fosse finita lì.

Viepiù che poco razionale in astratto, questo modus operandi si è rivelato ancor più problematico nel caso concreto, che di per sé avrebbe potuto suggerire come la traccia in questione fosse finita lì incidentalmente.
L’ipotesi più banale, essendo stato trovato il corpo in un luogo in cui notoriamente si recano dei tossicodipendenti e si esercita la prostituzione, era che la traccia fosse riconducibile ad una persona che andava a prostitute ovvero ad un tossicomane.

Non mi sembra ovviamente il caso di Massimo Bossetti, ma questa è solo una considerazione astratta che mostra quella che, a parere di chi scrive, è stata una pecca che ha compromesso l’esito delle indagini.

Se servirsi dei tradizionali strumenti investigativi per circoscrivere il campo e giungere ad un sospettato per poi procedere ad una analisi forense è un procedimento logicamente ineccepibile, lo è meno giungere ad un “presunto colpevole” (orribile espressione giornalistica che non dovrebbe trovare spazio nel nostro diritto) sulla base di una mera traccia genetica e chiuderlo in carcere, in isolamento, mentre si cercano in maniera spasmodica indizi (che non arrivano) per far quadrare i conti (che non quadrano).

La presentazione e lo sviluppo dei dubbi più evidenti su  questa storia che sembra più un brutto film, di quelli che non hanno un finale e lasciano lo spettatore libero di scegliere quale preferisce, piuttosto che una vicenda giudiziaria mi portano ad un’unica e spiacevole conclusione: l’Etica sociale è morta!

“L’Etica sociale investe una vastissima area della morale e tende a fissare i principi …necessari alla costruzione di un’ordinata convivenza civile, per cui la religione, il diritto, la filosofia, la politica, le scienze, la tecnologia diventano oggetto della sua indagine scientifica, nella misura in cui ciascuna di queste aree del sapere e della vita umana incide sull’uomo nel dettarne i comportamenti nella sfera pubblica.”

Ci siamo imbarbariti come mai prima  nella Storia, poiché se nei periodi storici più bui la giustificazione alle barbarie commesse si può ricercare nel contesto storico, nell’analfabetizzazione e nella difficoltà, per non dire nell’assenza totale, di comunicazione, al giorno d’oggi non esiste giustificazione alcuna.
Ma al di là della grossa svolta epica che ha portato l’avvento della comunicazione globale, usata male nella maggior parte dei casi, siamo davvero cresciuti come umanità?
Io non lo credo e il riscontro lo trovo proprio in situazioni del genere.
Un fatto di sangue è stato trasformato in un vergognoso e grottesco reality.

reality

Mi sono sempre rifiutata di seguire i reality dal momento che li trovo insulsi, offensivi per l’intelligenza, mere manifestazioni di malcostume e ignoranza paurosa.
Sono felicissima di non ritrovarmi a dover discutere con la massa su chi sia stato il più acclamato della settimana o su cosa sia avvenuto in una cucina di famosi piuttosto che su un’isola del Pacifico.
Fiumi di telefonate per digitare un codice tramite il quale i poveri fessi da casa si illudono di poter gestire le sorti dei loro eroi, compagnie telefoniche che brindano alla Dea della stupidità convinte, a ragione, che la madre degli stolti sia da sempre una miniera d’oro, pianti, lettere d’amore, annunci di matrimoni e di divorzi, madri e padri che investono le loro aspettative sui loro figlioli concorrenti e futuri “attoruncoli”, il tutto in un’atmosfera da giostre e carrozzoni, zucchero filato e popcorn; questi sono gli Italiani e forse non solo loro.
A questo scempio può essere ridotto un caso tristissimo di cronaca nera, dove silenzio, compassione, umanità, riflessione, tutela dei diritti, bisogno di verità scompaiono lasciando il posto a espressioni volgari, offese, violenza mediatica, pensieri scoordinati, desiderio di vendetta e sete di sangue come in una corrida.
E proprio come in un reality, tra un cimitero di congiuntivi, un’insalatona di concetti vacui, un fritto misto di parolacce, si muovono i “pupazzi” manipolati dalla regia, che mi piace immaginare come un domatore nano con frusta e cilindro, e si scatenano gli spettatori creduloni  alla stessa stregua ignoranti e addomesticati.
E la regia che fa?
Semplice!
Cerca di comprendere la tendenza di pensiero per sfruttarla a proprio vantaggio, manipola gli spettatori affinché il gioco desti sempre più interesse per poi concludersi come è già stato stabilito a-priori.
Nel “nostro” reality mediatico-giudiziario Massimo Giuseppe Bossetti non piace agli italiani ai quali è stato artatamente presentato in modo che non piacesse.
Per tornare al nostro titolo, la condanna del nostro secolo avverrà tramite televoto?
Ho azzardato un calcolo veloce prendendo come termine di paragone il numero di persone che compone il nostro gruppo facebook.
Siamo poco più di cento persone mentre una delle tante pagine colme di insulti e con ben poca informazione conta oltre mille aderenze.
C’è da sperare che il campione numerico analizzato sia così basso da non essere rappresentativo: stando a questi dati, infatti, solo il 10% degli italiani è disposto a concedere al sig.Massimo Bossetti perlomeno il beneficio del dubbio, risparmiandogli una immediata e dolorosa esecuzione.

La cosa triste è che Massimo Bossetti non è finito in questa situazione grottesca sua sponte: a mandarlo in “nomination” è stata quella “regia” che dovrebbe all’opposto garantire quantomeno l’imparzialità tra i “concorrenti”, e che invece si è palesata uscendo dalle quinte per sussurrare agli Italiani contro chi votare.

mikeb

Chissà se il buon vecchio Mike urlerebbe ancora: “Allegria!”

6 pensieri su “Tra realtà e reality, tra processo giudiziario e processo mediatico, la condanna del nostro secolo avverrà tramite il televoto (seconda parte).

  1. Bravissima Alessandra!
    Ma secondo te, chi ha preso di mira Bossetti e lo sta usando per dirigere l’attenzione del gregge a proprio piacimento?
    Io non me ne intendo per nulla, però se fossi un Pm tipo la signora Ruggeri, sicuramente tra le mie priorità metterei la salvaguardia dei minori connessi all’accusato.
    Non rinnovo il mio sdegno verso giustizia-media, mi auguro solo che chi ha interesse e il potere di dirigere questo circo di basso livello, molto presto si ritrovi a fare i conti con un po’ di forcaioli scatenati.
    Ti rinnovo la mia stima e riconoscenza, per quello che stai facendo per il signor Bossetti, credo che sia di grande efficacia…
    Eli

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  2. A mio avviso della notizia non avete sottolineato una “finezza”, invece molto significativa: nel senso che lo hanno accusato sì di aver cercato materia pedopornografico, ma hanno sottolineato bene come non fosse risultato alcun scaricamento di tale materiale: così la procura è logicamente esentata dall’incriminarlo per il possesso di tale materiale, ma lo sputtanamento può essere comunque fatto senza alcuna grinza.
    Comunque io ho notato come prima le indiscrezioni fossero volte a dare una plausibilità del “come” avrebbe agito, ora del “perché”. Credo sia ingenuo non voler notare una fine strategia dietro questa sistematicità

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  3. Un altro paio di considerazioni vorrei lasciare su questa notizia che mi sembra sempre più assurda:
    – prima cosa, il commercio pedopornografico è un traffico internazionale e come tale non parla di certo italiano, ma l’inglese: quindi è quanto meno improbabile che un pedo-pornografo, per quanto non istruito o a digiuno di inglese, usi parole italianissime come “tredicenne” (nemmeno “13enne”!), e non chiavi di ricerca – diciamo più “internazionali” – come “teen” o “13yr”;
    – seconda cosa, alcuni organi di stampa hanno riportato che le stringe di ricerca contenevano la parola “tredicenne” associata a un “organo sessuale”, che però non viene specificato: ora perché mai riportare con tanta dovizia di particolari la parola “tredicenni” virgolettata e rimanere così nel vago per il dettaglio più morbosamente appetitoso per la notizia? Io ho l’impressione che dietro il censorio “organo sessuale” si nasconda la parola “pene”, parola che non solo avrebbe permesso di associare la ricerca non al padre ma al figlio 13enne (mettete “tredicenne+pene” in Google è i primi risultati sono le domande del servizio Answer di Yahoo, dove frotte di adolescenti angosciato postano domande in cerca di rassicurazione sulle loro dimensioni genitali), ma avrebbe smontato definitamente, come un tifone, il castello di carte su cui sta costruendo il movente sessuale.

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  4. Ciao Eli, ti ringrazio davvero tantissimo 🙂
    Più passano i giorni più rimango basita dinnanzi alla macelleria messicana impunemente compiuta dai nostri media.
    Non voglio accusare nessuno, ma credo che Ordine dei Giornalisti, Garante della Privacy e Procura dovrebbero intervenire, perché l’accanimento si sta rivelando deleterio, morboso e ben oltre i limiti della umana tollerabilità.

    Spero che quanto facciamo qui, e su facebook, possa dare un piccolo contributo non dico alla verità, perché sarebbe del tutto presuntuoso, ma perlomeno alla diffusione di qualche concetto giuridico “in più” che permetta di osservare il caso in maniera meno emotiva e alla luce dei principi, purtroppo agonizzanti, dello stato di diritto.

    Bing, ti ringrazio per le osservazioni (estremamente interessanti e gradite): ho notato che, guarda caso, non appena qualche esperto, come il Dott. Paolo Reale, ha espresso qualche dubbio, la notizia è piombata nel silenzio più assoluto.

    Come ho scritto altrove, in questo caso noto sempre lo stesso andamento delle notizie… Come per il buco nell’acqua del furgone… Prima se ne parla tanto, tanto, tanto… Poi interviene un esperto che smonta la questione… E tutto torna a tacere (ma intanto alla gente è stata dato in pasto la “bufala”).
    Sulla pedopornografia (del tutto presunta, vista l’assenza di materiale scaricato e la ricerca su Google, ai limiti del ridicolo, come se i pedopornografi cercassero materiale sui motori di ricerca…) stesso identico andamento… Notizia (senza conferme) diffusa… Interviene un esperto che esprime perplessità… E tutto torna a tacere… solito buco nell’acqua?
    Temo proprio di sì.
    Ma mi riservo di tornare in maniera più dettagliata sulla questione (che inizialmente non sarebbe dovuta finire in questo dossier) in caso la “notizia” venga riesumata: per ora tutto tace!

    Alessandra

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