Sosteniamo le manifestazioni per la liberazione di Beniamino Zuncheddu – Cagliari 10 ottobre ore 11 di fronte al Tribunale

Nella celebre opera Gargantua e Pantagruele di François Rabelais, e in particolare nel libro terzo, con il giudice Brigliadoca si assiste ad uno degli innumerevoli episodi dal gusto irriverente e beffardo.

“Ma come procedete voi, amico mio?”

A questa domanda postagli da Trincamella, il giudice Brigliadoca risponde di decidere le proprie sentenze tirando i dadi.



Orbene, qualcuno potrebbe pensare che un simile richiamo sia teso a divertire i lettori o, peggio ancora, che costituisca una non troppo velata impudenza.
Tuttavia, in realtà, non sono affatto queste le ragioni che mi spingono oggi a richiamare lo strano metodo utilizzato dal giudice Brigliadoca per sentenziare, se non altro perché il rischio è che a far le spese delle eventuali irriverenze di chi scrive in tema di giustizia sia chi si trova in una posizione di particolare debolezza.

Il motivo per cui ho voluto proporvi questo esempio, in realtà, è frutto di un ragionamento ben più articolato ed ha a che fare con quel tentativo di innescare una riflessione su temi alla base della nostra cultura giuridica che dovrebbero costituire un minimo comun denominatore sul quale poter concordare.
Popper sosteneva che per dialogare fosse necessaria quantomeno una cornice comune e condivisa.
Ad esempio, nel momento in cui si scrive o si parla di una vicenda giudiziaria, si tende talvolta a dare per scontati una serie di principi liberali di garanzia, se non fosse per il fatto che, in realtà, tali principi non sono sempre così scontati come potrebbero apparire in linea teorica.

Se ne può aver prova, a titolo d’esempio, documentandosi sulla vicenda giudiziaria che vede coinvolto Beniamino Zuncheddu, condannato all’ergastolo per un triplice omicidio avvenuto nel cagliaritano nel 1991: un triplice omicidio che, con ogni probabilità, non ha mai commesso, come ben mostrato da una serie di dati facilmente accessibili ed oggetto di diversi articoli reperibili sul Web.

Sono venuta a conoscenza della vicenda casualmente in quanto, circa dieci giorni, a Cagliari mi è stato consegnato da una ragazza un volantino, volto a promuovere una manifestazione per chiedere la liberazione di Beniamino Zuncheddu che si terrà a Cagliari martedì 10 ottobre (domani) alle ore 11, di fronte al Tribunale.

Vista la mia sensibilità in tema di errori giudiziari, ho immediatamente cercato di reperire notizie, e ho avuto così modo di venire a conoscenza di una vicenda giudiziaria agghiacciante, sicché ho provveduto a pubblicizzare il volantino anche sui miei profili social.

Avrei trovato a quel punto ingiusto non dedicare qualche riga su Colonna Infame, dunque, nel mio piccolo, vorrei segnalare l’evento, invitare i lettori ad informarsi sulla vicenda e, se possibile, a partecipare all’iniziativa e alle eventuali iniziative ulteriori a tema.

Per la liberazione di Beniamino Zuncheddu e affinché nessuno debba più rischiare di scontare un ergastolo sulla base di ricostruzioni accusatorie troppo simili a un inquietante tiro di dadi.

Nuovo video sul caso Erostrato: incongruenze, distorsioni e capri espiatori.

Cosa pensereste se nel vostro circondario venisse commesso qualche atto vandalico, vi trovaste ad essere indagati, un giorno la polizia suonasse alla vostra porta per perquisirvi la casa e leggeste che tra i motivi della perquisizione figura il fatto che siete iscritti al forum “Atei italiani”?

È solo un esempio, purtroppo reale, tratto dal caso di cui si parla nel video.

Come già sa chi segue Colonna Infame, in quanto la vicenda è stata oggetto nei mesi scorsi di una lunga trattazione su queste pagine, il 23 marzo di quest’anno il Tribunale di Belluno ha condannato in primo grado due persone che ritengo essere completamente estranee ai fatti: spero di essere riuscita, nel video, a spiegarvi ancora più chiaramente il perché.

Ho realizzato questo video per agevolare ulteriormente la possibilità di reperire trattazioni critiche sulla vicenda in esame: infatti, mi rendo conto che non tutti abbiano il tempo e la possibilità di trascorrere molto tempo nella lettura di lunghi articoli e lo strumento video, più adatto ad una fruizione “passiva”, mi è sembrato idoneo a rispondere alle esigenze di chiunque volesse conoscere meglio il caso ma, nel contempo, non avesse la possibilità di leggere a lungo il blog.

Il video, come potrete constatare, è stato realizzato per un canale personale, di conseguenza sono presenti una serie di preamboli rivolti a chiunque non conosca il blog Colonna Infame: ho tuttavia provveduto a suddividere il video in capitoli, sia per consentirne una visione frazionata sia per permettere a chiunque non necessiti di premesse di poter passare direttamente alla esposizione dei fatti.

Essendo lo strumento video ovviamente diverso rispetto ad un blog, troverete alcune differenze rispetto agli articoli: troverete ovviamente qualcosa in meno, in quanto Youtube non è certo sede adatta a soffermarsi su particolari tecnicismi, ma troverete anche qualcosa in più: ai fini della realizzazione del video ho infatti letto una recente pubblicazione del Prof. Manes intitolata “Giustizia mediatica”, incentrata sul tema dei processi mediatici e sui loro effetti distorsivi sulla giustizia reale.

Infatti, in questo video ho voluto denunciare delle gravissime mistificazioni e mancanze, perpetrate dai mass media, che hanno ingenerato una pressione distorsiva tale da creare nel caso in esame una autentica realtà parallela.

Mi riferisco ad una gogna mediatica tale da colpire non solo il principio di presunzione di innocenza, ma anche tutta una serie di altri principi e diritti, a partire dal diritto alla riservatezza.
Tale gogna mediatica si è tradotta in una pressione che ha gravato, in primis, sugli inquirenti, rendendoli ciechi dinnanzi a macroscopiche incongruenze e impedendo loro di vedere tutte le altre possibili piste; in secondo luogo, ha gravato sul giudicante, che non solo ha condannato due persone evidentemente estranee ai fatti (si parla anche di evidenti impossibilità fisiche), ma ha altresì condannato a una pena draconiana.

In attesa che la Corte d’Appello faccia la dovuta chiarezza, condivido anche qui questo contributo video, realizzato a titolo personale e del quale mi assumo l’intera responsabilità.

La realizzazione del video mi ha richiesto tempo e impegno, ma soprattutto mi ha richiesto coraggio: spero ne abbiate altrettanto nell’ascoltarmi e, se ritenete che la mia analisi sia corretta e meriti divulgazione, nell’aiutarmi a condividere.

Alessandra Pilloni

Il caso Erostrato: l’insostenibile pesantezza dei processi indiziari (seconda parte)

Articolo scritto a sei mani da Alessandra, Laura e Sashinka, a prosieguo del precedente


Le ragioni del peso

“Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. (…) La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. (Italo Calvino, Lezioni americane)

Quando, nel 1984, Italo Calvino ricevette dall’Università di Harvard un invito a tenere un ciclo di conferenze, predispose una serie di lezioni, confluite in un’opera postuma intitolata “Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio”.
Nella prima lezione, ebbe modo di soffermarsi approfonditamente sul binomio leggerezza-peso, ed è proprio dalle sue parole che ho scelto di trarre spunto per introdurre la seconda parte dell’articolo.
D’altro canto, dopo aver cercato, nella prima parte, di cominciare a mostrare come abbandonarsi all’ormai perduto piacere della lettura debba considerarsi una nota di merito e non certo un reato né un indizio, recuperare la vecchia abitudine di introdurre gli articoli con un’opera letteraria mi è sembrato doveroso.
La scelta dell’opera non è stata casuale, in quanto il tema si collega al titolo dell’articolo, che fa riferimento, riecheggiando un celebre romanzo di Kundera, all’insostenibile pesantezza dei processi indiziari.
Nel corso di questa seconda parte dell’articolo, cercherò di mostrarvi a più riprese, e sotto svariati punti di vista, cosa abbia voluto intendere con insostenibile pesantezza dei processi indiziari.

Per il momento, è sufficiente notare che, se nel cominciare la sua prima conferenza Calvino affermava di aver più cose da dire sulla leggerezza, io ho scelto -giocoforza- di fare l’esatto opposto e porre l’accento sul peso.
Nella vicenda in esame, infatti, per quanto ci si sforzi, non è possibile trovare nulla che rimandi al concetto di leggerezza, neppure in quella che appare come una plateale vaghezza del presunto quadro indiziario a carico dei due imputati.
È lo stesso Calvino, d’altronde, ad avvertirci del fatto che la vaghezza, ciò che è impreciso e indeterminato, ricade a pieno titolo nel regno del peso, non in quello della leggerezza: e per questa ragione, al peso della vaghezza sarà dedicato il prossimo paragrafo.
E d’altro canto, trasponendo il concetto nell’ambito di questa vicenda giudiziaria, è difficile dargli torto: il peso di elementi vaghi si ripercuote su indagati e imputati, finendo per gravare sugli stessi come un macigno.

Sul punto, ritengo valga la pena di indugiare in una piccola riflessione.
Da sempre il blog Colonna Infame ha avuto tra i suoi obiettivi quello di contribuire ad abbattere alcuni “miti”, spesso dannosi o comunque fuorvianti, che circondano la trattazione di molti casi di cronaca giudiziaria.
Tali miti sono usualmente riassumibili in slogan, tanto d’effetto quanto concretamente vuoti.
Su uno di questi usuali slogan fuorvianti (“se li hanno condannati qualcosa avranno fatto”) ho avuto modo di soffermarmi nella prima parte dell’articolo.
Ora, vorrei spendere qualche parola ulteriore su un mito sensibilmente diverso, ma almeno altrettanto dannoso: l’idea che in presenza di un quadro indiziario debole, lacunoso, o finanche fondato su suggestioni piuttosto che su autentici elementi indiziari, difendersi sia semplice.
Certamente, nel nostro ordinamento sono stati introdotti una serie di principi, regole e paradigmi, tra i quali la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio accolta dal nostro codice di rito, ma anche una serie di principi di diritto sostanziale a monte, volti a fungere da correttivo e da meccanismo di superamento di criteri intuizionistici, basati su opinioni personali, stereotipi o suggestioni, che potrebbero condurre alla condanna dell’innocente.
Tuttavia, la realtà dei fatti si rivela spesso ben più prosaica di quella illustrata dai principi che permeano i codici, che talvolta finiscono per restare concretamente lettera morta.
Spostandosi dal piano dei principi a quello della realtà, è un dato di fatto, osservato già alcuni secoli fa da Feuerbach in relazione ai processi per stregoneria, che quanto più le accuse sono vaghe, lacunose, fantasiose e, in sostanza, impossibili da dimostrare, tanto più risulta difficile difendersi. [1]
E sebbene in alcuni casi, per fortuna, arrivi -sia pure tardivamente- il proverbiale “giudice a Berlino” a bacchettare ricostruzioni infondate, ma accolte dai tribunali, come recentemente accaduto per un caso che citammo, anni fa, anche su Colonna Infame [2], l’aleatorietà insita nei processi indiziari rende necessario non soprassedere e, soprattutto, non tacere.
In definitiva, il titolo di questo ciclo di articoli sul caso Erostrato vuole essere un memorandum, ma anche un implicito omaggio a chiunque quel peso insostenibile si sia trovato o si trovi a portarlo sulle spalle.
Perché in quel peso, che per i più diviene motivo di derisione, di linciaggio, di invocazioni della forca, io, dopo tanto tempo passato a studiare casi di errori giudiziari e con occhi ormai disillusi, vedo solo il peso di una persistente inciviltà che finisce per gravare sui malcapitati di turno.

D’altro canto, è stata proprio la presa di coscienza di questo peso ad avermi spinta a riprendere in mano questo blog, a riaffacciarmi qui dopo tanti anni di assenza, cosa non semplice, e non solo per il legame affettivo che, nonostante tutto, conservo nei confronti di queste pagine, che hanno rappresentato nel bene e nel male un tassello della mia vita, ma anche per la consapevolezza dei cambiamenti che, specie negli ultimi anni, hanno interessato la comunicazione, rendendola sempre più distante, sempre più iper-semplificata (tipico l’esempio dei meme) e, di conseguenza, sempre più snaturata dal suo autentico significato di “mettere in comune” informazioni.
Questi cambiamenti, in un primo momento, mi hanno portata a chiedermi se avesse ancora senso scrivere in questo blog, impegnarmi nella stesura di un articolo che fosse frutto di ricerche, riflessioni, argomentazioni.
Tuttavia, sono giunta alla conclusione che questo modo di comunicare, attraverso articoli lunghi, ragionati, perfino sofferti, costituisca in qualche modo un antidoto a quelle semplificazioni logiche e argomentative che spesso connotano l’informazione e, per quanto concerne i temi affrontati in questo blog, la cronaca giudiziaria.

Nella prima parte dell’articolo, ho cercato di documentare come nella vicenda giudiziaria in esame, relativa al mitomane Erostrato, il quadro indiziario a carico dei due imputati, i Sig. Nemesio e Samuele Aquini, sembri basarsi su una serie di piccole suggestioni che, unite tra loro, hanno generato l’impressione infondata di poter essere assurte a indizi.
Nello specifico, mi sono soffermata su una serie di anomalie che, a mio parere, avrebbero reso fisicamente impossibile ai due imputati commettere gli atti loro attribuiti, sul fatto che il quadro indiziario sembri essere stato oggetto di un “taglia e cuci” volto ad eliminare gli atti, pure rivendicati dal mitomane, palesemente non riconducibili ai due imputati (vedasi paragrafo relativo agli incendi) e, infine, sulla natura non indiziaria ma meramente suggestiva, in quanto intrinsecamente contraddittoria e priva di qualsivoglia univocità, di uno degli elementi che hanno portato agli Aquini.
In questa seconda parte, mantenendo la precedente promessa, avrò modo di soffermarmi su altri elementi che considero sintomatici del fatto che ci troviamo di fronte ad un errore giudiziario.

Fumo negli occhi: il peso della vaghezza

Quando nella prima parte dell’articolo, nell’introdurre la vicenda relativa a Erostrato, ho osservato che al giorno d’oggi “letteralmente chiunque può senza troppa fatica mettere insieme una serie di riferimenti apparentemente dotti che tuttavia, ad una più attenta analisi, si rivelano fumo negli occhi, nulla più che una sorta di artifizio per attirare l’attenzione”, non mi sono lasciata andare ad una osservazione casuale: sapevo già, infatti, che avrei successivamente sviluppato il tema, e non a caso, tra le mie precedenti promesse per questa seconda parte, figurava anche quella di motivare la risposta negativa che siamo giunte a dare a una domanda: Erostrato è, come gli Aquini, un lettore?

A questo punto, condivido con voi un aneddoto relativo alla stesura di questo articolo.
Quando, ormai più di un mese fa, dissi a Laura e Sashinka che avrei voluto scrivere sul caso Erostrato e loro decisero di contribuire, elaborai una scaletta in base alla quale avremmo dovuto procedere.
Durante una prima fase, avremmo dovuto reperire tutto il materiale possibile relativo alla vicenda, confrontare le diverse fonti e, qualora da questo confronto fossero sopraggiunte idee, argomentazioni e ipotesi interessanti, svolgere ulteriori ricerche per verificarne la fondatezza.
Una seconda fase del nostro lavoro, prima della stesura dell’articolo, avrebbe invece dovuto vedere Laura e Sashinka nei panni di due ostinate accusatrici: in buona sostanza, la scaletta prevedeva che, una volta reperito tutto il materiale utile sia a ricostruire la vicenda sia a presentare ipotesi alternative o confutazioni, Laura e Sashinka dovessero cercare in ogni modo possibile di persuadermi della colpevolezza dei due imputati.
L’obiettivo era quello di mettere alla prova la robustezza della mia convinzione in merito all’estraneità ai fatti degli Aquini, ma anche di consentirmi di verificare se e fino a che punto fossi in grado di sostenere la mia tesi, verificandone così punti di forza e di debolezza.
Questa seconda fase, tuttavia, concretamente non c’è stata.
Non perché Laura e Sashinka si siano tirate indietro di fronte al -sia pure ingrato- compito, bensì perché, nel confrontarsi sul materiale raccolto, si sono rese conto che troppe e troppo evidenti risultavano essere le anomalie e le contraddizioni per riuscire a sostenere seriamente che i due imputati fossero Erostrato.
Ho deciso di raccontarvi questo aneddoto ora in quanto le contraddizioni che cercherò di mostrarvi in questo paragrafo sono tra quelle che hanno contribuito a rendere concretamente inattuabile la seconda fase della nostra scaletta.

Deve essere premesso, anzitutto, che nelle perquisizioni effettuate nell’abitazione degli Aquini non è emerso nulla di autenticamente rilevante.
In particolare, non sono stati trovati una serie di elementi che, invece, ci si sarebbe aspettati di trovare a casa di Erostrato.
Nello specifico, non è stata trovata la vernice usata per i murales, non è stato trovato il pennarello con il quale sono state scritte le lettere, non è stato trovato il manganato di potassio tirato in ballo nelle stesse missive di Erostrato.
Di contro, deve essere parimenti premesso che da tali perquisizioni sono emersi elementi, non autenticamente indizianti, che si sono rivelati in qualche modo utili a tenere in piedi il mal assortito castello di suggestioni, intrinsecamente contraddittorio, sul quale ergere ancora una volta una “colonna infame”.
Tra gli elementi in questione, naturalmente, qualcosa che non poteva mancare in una casa di accaniti lettori come gli Aquini: libri.
Certo, non posso fare a meno di dirlo, è un vero peccato che tra i libri non ne sia stato trovato almeno uno relativo ai metodi per sviluppare il potere della levitazione o quello del teletrasporto, che quantomeno spiegherebbe come Samuele abbia potuto realizzare murales incompatibili con la sua statura o collocati in località tutt’altro che agevolmente raggiungibili a piedi.

Al di là di ogni possibile battuta che -ci tengo a precisarlo- è tutt’altro che mossa da reale ironia, in quanto questa è una vicenda che, per una serie di ragioni che spiegherò meglio nel paragrafo seguente, non può che suscitarmi una profonda tristezza, è giunto il momento di soffermarci sui libri effettivamente trovati e sequestrati in casa degli Aquini.
Uno lo ho già menzionato nel paragrafo conclusivo della prima parte dell’articolo: si tratta di “Hitler e il nazismo magico”, un’opera molto nota del politologo Giorgio Galli.
Come ho già avuto modo di spiegare, quel libro, probabilmente ritenuto “sospetto” in considerazione delle simpatie neonaziste manifestate da Erostrato in lettere e murales, non solo si rivela piuttosto inadatto a sostenere la tesi del “neonazismo” (non si può certo sostenere che il Prof. Galli avesse una qualche simpatia per il nazismo), ma porta addirittura a ravvisare un indizio di innocenza a favore degli Aquini: infatti, contiene al suo interno per ben 106 volte la parola “Führer”, di cui Erostrato sbaglia ripetutamente la grafia.

Un secondo libro sequestrato, sul quale è giunto il momento di spendere qualche parola, è il Mein Kampf di Adolf Hitler.
Sul punto, è necessario premettere che si tratta di un libro presente in tantissime collezioni private.
In una intervista, il Sig. Nemesio disse, in risposta ad una domanda in merito, che nella sua abitazione vi erano, allo stesso modo, tantissimi altri libri, di autori di destra, di sinistra e, in ogni caso, non legati a una specifica ideologia.
In buona sostanza, ciò che cerco di mostrare è che trovare dei libri in casa di persone che frequentano la biblioteca, e che in generale amano leggere, non deve essere poi un’impresa tanto ardua e di certo non può considerarsi un indizio.
Ci sono però alcuni punti ulteriori, relativamente al Mein Kampf, sui quali ritengo sia doverosa una riflessione, in quanto ritengo che vi sia almeno un elemento che spinge a ritenere che Erostrato non abbia letto il Mein Kampf.
Anzitutto, deve essere segnalato che il libro in questione, specialmente in anni recenti, è stato oggetto di un numero di acquisti notevole, tanto che la circostanza è stata ripetutamente oggetto di articoli giornalistici, che si sono interrogati sul perché di questo crescente interesse per il Mein Kampf: peraltro, le medesime inchieste giornalistiche, spesso condotte “da sinistra”, hanno mostrato che spesso questo libro viene acquistato non già da estimatori del nazionalsocialismo, bensì da clienti interessati in generale a temi storici e politici, del tutto distanti da ideologie reazionarie (fonte: https://left.it/2017/01/03/mein-kampf-bestseller-2016-fascismo/).



In buona sostanza, deve essere evidenziato sin da ora come ritenere elemento indiziante il possesso del Mein Kampf si riveli intrinsecamente illogico, per almeno due ragioni.
La prima è che possedere una copia del Mein Kampf di per sé non dimostra simpatie neonaziste.
La seconda è che il fatto che una persona possa avere simpatie neonaziste non dimostrerebbe comunque, di per sé, che tale persona sia Erostrato.
Ho voluto fare un piccolo cenno a questi due passaggi, anche a titolo esemplificativo, per una ragione specifica: mentre mi informavo su questa vicenda, infatti, ho avuto ripetutamente la sensazione che l’intero castello accusatorio contro gli Aquini non si regga su deduzioni logicamente concatenate e in grado di rafforzarsi vicendevolmente, bensì su deduzioni di per sé infondate sulle quali si innestano ulteriori deduzioni a propria volta infondate.
Ho scelto di porre l’accento sulla parola deduzioni non casualmente, in quanto tale metodo, in sede di accertamento processual-penalistico, non porta a nulla di buono e, in particolare, spalanca le porte all’intuizionismo giudiziale.

Ora, però, vorrei mostrarvi una terza ragione che mi spinge a ritenere non solo che l’elemento in questione sia illogico, ma anche che si riveli incompatibile con l’idea che gli Aquini siano Erostrato.
L’elemento che ha attirato più di ogni altro la mia attenzione, infatti, è legato a un particolare contenuto degli scritti di Erostrato, di cui, a questo punto, non posso che reinserire l’immagine, invitandovi a leggere con attenzione: vedete anche voi qualcosa che vi fa pensare che Erostrato non abbia letto il Mein Kampf?



Come potete vedere, in questo scritto Erostrato, oltre a sbagliare la grafia della parola “Führer”, la qual cosa di per sé spinge a dubitare che il vero Erostrato legga effettivamente libri sul nazionalsocialismo, cita tra i suoi ispiratori anche Salvatore Meloni.
Per chi non lo sapesse, Salvatore Meloni, meglio noto come Doddore Meloni, è stato un indipendentista sardo, deceduto nel carcere di Uta il 5 luglio del 2017, ossia pochi giorni prima che Erostrato facesse la sua comparsa.
La sua morte, avvenuta in condizioni sulle quali sorvolo per carità di patria, fu oggetto di notevole attenzione mediatica in quel periodo, ma su questa coincidenza cronologica tornerò in seguito.
Per il momento, ciò che mi preme sottolineare è che citare un indipendentista accanto ad Adolf Hitler sarebbe, per qualsiasi persona che abbia letto il Mein Kampf, una macroscopica contraddizione.
Infatti, se anche un bravo studente liceale sa che pressoché tutti i regimi politici di ispirazione fascista del XX secolo hanno represso ogni spinta e rivendicazione autonomista, chiunque abbia letto il Mein Kampf sa, in aggiunta, che proprio in quel libro vi è un capitolo piuttosto aggressivo contro le istanze separatiste (parte II, capitolo X, La Falsità del Federalismo).

Ora, dunque , vorrei approfondire e portare alle estreme conseguenze quanto appena visto con riferimento ai vari elementi che depongono per il fatto che Erostrato non abbia letto né il Mein Kampf né altri libri sul nazionalsocialismo.
Infatti, mentre osservavo le incongruenze già esposte, pian piano nella mia mente cominciava a far capolino qualche domanda: siamo davvero sicuri che Erostrato sia un lettore?
È possibile che Erostrato non legga proprio un bel nulla?
È possibile che perfino le citazioni che riporta nelle sue lettere non siano frutto della lettura di libri, ma siano state reperite altrove, ad esempio sul Web o su vari organi di informazioni e messe insieme al solo fine di attirare l’attenzione e/o confondere, magari perfino ignorandone il reale significato?

E per quanto chiedersi se un mitomane che infarcisce le sue lettere di citazioni tratte da opere letterarie possa non essere affatto un lettore possa apparire, a primo impatto, quasi un’insolenza, ad una più attenta analisi si rivela tutt’altro che una domanda peregrina.
Devo premettere, sul punto, di essermi posta questa domanda anche per deformazione professionale.
Infatti, avendo lavorato in passato nel settore delle investigazioni private e delle indagini difensive, ho avuto modo di leggere decine, se non centinaia, di lettere di mitomani, e posso affermare che questo genere di lettere è usualmente infarcito di citazioni di libri e/o riferimenti religiosi, specie a tema apocalittico.
Di conseguenza, le tante citazioni presenti nelle lettere di Erostrato e lo stesso riferimento al “katechon”, sin dall’inizio, mi hanno impressionata davvero poco.

In ogni caso, quando cominciai a ragionare sulla questione, il primo elemento a catturare la mia attenzione fu la citazione tratta dalla favola di Fedro “La volpe e la maschera tragica”, ossia la frase “sed cerebrum non habet” (“ma non ha il cervello”), in quanto mi resi conto del fatto che l’originale favola di Fedro non contiene il “sed” (“ma”), anche se lo sottintende.
Nell’immagine potete osservare la lettera di Erostrato (in cui ho cerchiato il “sed”).


Nell’immagine seguente vi propongo invece il testo originale della favola di Fedro “La volpe e la maschera tragica” che, come potete vedere, non contiene il “sed”, mentre la traduzione italiana richiede necessariamente il “ma” (fonte: https://docu.plus/it/doc/latino/fedro-favole-traduzione-dal-latino/34906/view/).



Infatti, dal momento che a differenza del Latino in Italiano non avrebbe senso rendere una proposizione avversativa senza il “ma”, spesso questa frase di Fedro viene riportata nel contesto di articoli in Italiano con il “sed”, pur non contenendolo nel testo originale.
A questo punto, riuscivo a trovare due possibili spiegazioni alla presenza del “sed” nella lettera di Erostrato.
La prima era la possibilità che Erostrato non conoscesse o comunque non avesse letto la favola di Fedro originale ma avesse trovato la citazione in qualche articolo o scritto in Italiano: una possibilità tutt’altro che remota, trattandosi di una citazione piuttosto celebre.
La seconda possibilità, diametralmente opposta, era che Erostrato fosse invece piuttosto preparato e, pur conoscendo o potendo conoscere la favola originale di Fedro, “masticasse” sia il Latino sia la grammatica italiana a sufficienza per sapere che, inserendo una tale citazione all’interno di un testo in Italiano e rivolto a lettori italiani, con il “sed” sarebbe stata più incisiva.
Sebbene questa seconda ipotesi, relativa alla particolare cultura di Erostrato, mi sembrasse contrastante con alcuni errori ortografici (non solo la parola “Führer” è oggetto di ripetuti errori ortografici, ma anche la parola “Barbie” in una delle lettere di Erostrato è erroneamente scritta “Barbi”, come potete osservare nell’immagine successiva), non riuscivo ancora ad escluderla completamente.


Dunque, non l’ho esclusa fin quando non mi sono resa conto di un errore, stavolta sesquipedale, relativo ad una ulteriore citazione tratta da un’opera classica, e nello specifico dall’Eneide di Virgilio.
Per aiutarvi a comprendere meglio la questione, inserisco ancora una volta l’immagine della lettera di Erostrato contenente le parole “infandum renovare dolorem”, tratte dall’Eneide.



In merito a questa citazione, va detto anzitutto che la frase integrale presente nell’opera di Virgilio è “Infandum, regina, iubes renovare dolorem“, ovvero, letteralmente, “(mi) comandi, regina, di rinnovare un indicibile dolore”: sono le parole, celeberrime, con le quali Enea comincia, su richiesta di Didone, a raccontare della caduta di Troia.
Il problema della citazione nel modo in cui viene riportata di Erostrato è che, grammaticalmente, è priva di senso: passi, infatti, eliminare dalla citazione il vocativo “regina”, ma omettere il verbo reggente (“iubes”) fa sì che la frase, pur riconoscibile, non abbia senso compiuto, come non avrebbe senso compiuto qualsiasi subordinata in assenza della reggente.
Ora, non è certo questa la sede per scendere nel dettaglio dell’analisi grammaticale e logica della locuzione presente nell’Eneide, ma per chi, conoscendo un po’ il Latino, volesse capire meglio cosa intendo o avere un riferimento grafico, inserisco nell’immagine di seguito una analisi grammaticale, logica e del periodo della frase in esame.



Come si può constatare dagli esempi riportati, dunque, non solo risulta insostenibile che Erostrato abbia alle spalle particolari letture sul nazionalsocialismo, ma risulta piuttosto fondato il sospetto che non abbia alle spalle letture di alcun tipo: un elemento, ancora una volta, in netto contrasto con il profilo dei due imputati.

Ma, a questo punto, vorrei soffermarmi su una circostanza ulteriore: se Erostrato non è un lettore, non legge libri, non conosce neppure i libri che cita, da dove potrebbe aver tratto spunto?
Dare una risposta a questa domanda non è semplice o, per meglio dire, non è semplice dare a questa domanda una risposta univoca.
Certamente, nel mare magnum della Rete, chiunque può ormai agevolmente reperire e mettere insieme una serie di citazioni, ottenendo non solo il risultato di attirare l’attenzione, probabilmente ricercato sin dall’inizio e conseguito, ma anche quello di fuorviare chi indaga, probabilmente non ricercato ma -alla luce di quanto osservato in questo ciclo di articoli- comunque tristemente conseguito, a scapito di Samuele e Nemesio Aquini.

Tuttavia, prima di chiudere la trattazione di questo argomento, vorrei suggerire una ulteriore possibilità, ossia quella che Erostrato, anche per le citazioni, abbia tratto spunto e messo insieme una serie di elementi carpiti dai mass media, e specificamente da giornali e telegiornali del tempo: per quanto questa idea possa sembrare bizzarra, infatti, è non solo del tutto possibile, ma anche -in considerazione di una serie di elementi- probabile.
L’idea di una simile possibilità è nata, sostanzialmente, da alcuni elementi.
Il primo è il riferimento a Salvatore Meloni, la cui morte, avvenuta non molti giorni prima della comparsa di Erostrato, fu oggetto di una certa attenzione mediatica.
Il secondo è il riferimento, presente in vari scritti di Erostrato, ad Anders Breivik, che fu parimenti oggetto di articoli giornalistici e servizi televisivi in quel periodo, non solo perché nell’estate del 2017 ricorreva il sesto anniversario della strage di Utoya, ma anche perché un suo ricorso venne rigettato dalla Corte Suprema norvegese (fonte: https://www.repubblica.it/esteri/2017/06/08/news/breivik_utoya_corte_europea_diritti_umani-167576967/).

C’è anche un ulteriore elemento che depone fortemente per il fatto che Erostrato avesse letto o ascoltato delle notizie relative ad Anders Breivik.
Infatti, se è vero (e non ho motivo per dubitarne) quanto riportato nel libro di Gigi Sosso “Erostrato: caramelle (con gli spilli) da uno sconosciuto” in merito al fatto che nel murales dietro il cimitero di Cesiomaggiore comparisse, tra l’altro, la frase “gloria al solo Dio dei gentili”, che precede immediatamente un’apologia di Breivik, quella frase diventa molto più chiara se valutata alla luce di alcune notizie su Breivik circolate anche in quel periodo.
Infatti Breivik, che all’epoca della strage di Utoya si definiva integralista cristiano, ha successivamente dichiarato di aver abbracciato il culto di Odino, oltre ad aver rilasciato una serie di dichiarazioni nelle quali ha definito il Cristianesimo e Cristo “patetici”.
Naturalmente, tengo a precisare che questa osservazione non ha certo lo scopo di associare gli atti di Breivik a una qualche idea religiosa, sia essa cristiana o pagana, trattandosi di una attitudine che, come avrò modo di spiegare meglio in seguito, mi ripugna: sarebbe infatti del tutto pretestuoso usare i gesti di un folle per screditare qualsivoglia credo religioso.
Ho però ritenuto opportuno segnalare questa circostanza perché penso che la copertura mediatica di questa notizia aiuti a spiegare alcuni riferimenti che compaiono negli scritti di Erostrato, guarda caso affiancati a riferimenti espliciti a Breivik.
Nell’immagine seguente, ecco uno dei tanti titoli relativi a questa notizia (se volete leggere la notizia integrale, cliccate sul link: https://www.affaritaliani.it/esteri/norvegia-breivik-non-sono-piu–cristiano-mio-dio-e–odino-393618.html).



La cosa davvero interessante, inoltre, è che questa notizia fu ripresa più volte in seguito, con riferimenti più o meno ampi, anche in articoli cronologicamente più vicini agli atti di Erostrato che menzionano tale “conversione” di Breivik (a titolo d’esempio: https://www.repubblica.it/esteri/2017/03/01/news/norvegia_corte_d_appello_in_carcere_breivik_non_e_trattato_in_modo_disumano-159503628/).
Ora, sebbene i pochi mezzi a disposizione purtroppo non mi consentano di verificarlo con certezza, suppongo altresì che non sia da escludere che la medesima circostanza, oltre che sulla carta stampata, sia stata menzionata in quel periodo anche in sede radio-televisiva, rendendo ulteriormente ampia la platea delle possibili fonti dalle quali Erostrato potrebbe aver preso ispirazione.
Ciò che, invece, mi preme sin da ora sottolineare è che la frase “gloria al solo Dio dei gentili” non sia certamente riconducibile alla passione di Samuele Aquini per libri di esoterismo ed occultismo.
Non solo perché palesemente legata a questo filone di notizie su Anders Breivik, a cui Erostrato fa continui ed espliciti riferimenti, non solo perché Samuele, proprio in quanto appassionato di esoterismo non può non sapere che la frase in questione non ha alcun senso, in quanto i Gentili non avevano un “solo Dio”, ma anche perché, come vedremo nel prossimo paragrafo, la passione di Samuele per l’esoterismo è a propria volta sia una delle tante suggestioni che accompagnano questa vicenda sia uno degli elementi che contribuiscono a rendere ancora più opprimente e tangibile il fumus di errore giudiziario.

Gli spunti che Erostrato potrebbe aver tratto da semplici notizie di cronaca per riempire i suoi scritti di riferimenti, inoltre, potrebbero non fermarsi alle notizie su Salvatore Meloni e Breivik.
Infatti, sebbene per ragioni di spazio sia impensabile riportare qui ogni possibile riferimento comparso sui media all’epoca, vi è qualche “coincidenza” che ritengo meriti menzione.
A titolo d’esempio, nel giugno del 2017 ricorreva il settantesimo anniversario della pubblicazione del libro “La Peste” di Camus, e della circostanza fu dato atto da alcune testate giornalistiche nazionali (ne riporto uno, a mero titolo esemplificativo: https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/12/la-peste-di-camus-a-70-anni-dalla-pubblicazione-un-romanzo-che-cambia-la-vita/3654395/).
Inoltre, nello stesso periodo, diverse testate giornalistiche diedero notizia di una nuova traduzione del celebre romanzo di Camus .
Ancora, nell’estate 2017, su Il Venerdì di Repubblica fu pubblicato un articolo/recensione a firma di Corrado Augias in cui si cita la frase dell’Eneide che compare in una delle lettere di Erostrato.



Perfino il Miles Gloriosus di Plauto venne menzionato nell’estate del 2017 in un articolo del Corriere sui vanitosi (fonte: https://www.corriere.it/sette/17_agosto_31/vanita-social-network-d687c20c-8c17-11e7-b9bf-f9bee7e83ed2.shtml).
Questi ultimi esempi, a differenza di quello relativo a Breivik, non mirano ad essere esaustivi e non hanno lo scopo di dimostrare che Erostrato abbia certamente preso spunto, per le citazioni letterarie, da articoli giornalistici di quel periodo.
Ciò che, tuttavia, ho voluto provare mostrare una volta in più con questi esempi, è che non è necessario essere lettori o amanti dei libri per citare libri: se si desidera attirare l’attenzione infarcendo di citazioni letterarie le proprie comunicazioni, non solo è sufficiente una comunissima connessione ad Internet, ma anche la semplice lettura dei quotidiani può fornire ampi spunti relativi alle opere di cui cercare sul Web le citazioni.
E se non è -e probabilmente non sarà mai- possibile determinare con assoluta certezza quali siano state le reali “fonti” di Erostrato (quotidiani, televisione, radio, Internet), spero di aver contribuito a mostrare quanto tali fonti possano essere variegate e, soprattutto, ben più accessibili a chiunque rispetto alla lettura di libri.

Questa vicenda giudiziaria, però, non si è fermata alla -pur discutibile- contestazione delle letture: anche la scrittura, infatti, è stata a propria volta resa “indizio”, ancorché non sia dato comprendere bene di cosa.
A seguito della prima perquisizione, infatti, vengono installate nell’abitazione degli Aquini delle cimici.
In forza di quanto emerge dall’ascolto delle conversazioni così registrate, si arriva a una seconda perquisizione con il sequestro di un ulteriore elemento divenuto oggetto di dibattimento.
A questo punto, vi chiederete cosa sia emerso di così scabroso.
In realtà, ma forse lo avrete già intuito, si tratta di una ennesima suggestione priva di qualsivoglia reale valore indiziante.
Infatti, dopo aver appreso di essere indagato, il Sig. Nemesio comincia a scrivere un libro, contenente una sua autobiografia romanzata, nella quale ad un certo punto egli incontra il soggetto poi divenuto Erostrato, di cui parimenti viene proposta una biografia, intuibilmente inventata.
È in questo modo che anche un innocente tentativo di ingannare il tempo, o magari di gestire i troppi pensieri vertenti sulla vicenda (d’altronde, non deve essere semplice pensare ad altro quando la propria vita viene sconvolta da situazioni di questo genere), diviene non solo parte del “quadro indiziario” ma perfino oggetto di perizia psichiatrica.
Ma che senso può avere sottoporre a perizia psichiatrica un testo di fantasia? Cosa emergerebbe da qualsiasi romanzo sottoposto a perizia psichiatrica, specie laddove sull’autore gravi il sospetto di essere responsabile di un reato?
Va sottolineato, a conferma della natura -ancora una volta- di mera suggestione di tale elemento, che non appena ci si discosti da ciò che può apparire suggestivo e si cerchi un appiglio che sia oggettivamente, incontrovertibilmente idoneo a mostrare un legame tra gli Aquini ed Erostrato, ecco che ci si scontra con una scomoda ma chiara evidenza: tale appiglio non esiste.
Nel caso di specie, al di là dei racconti di fantasia in essa contenuti, la carta dei quaderni sequestrati si rivela diversa da quella usata da Erostrato per le sue lettere: insomma, in casa degli Aquini vengono trovati, come in ogni abitazione, dei quaderni a quadretti, ma nessuno di questi è il quaderno dal quale sono stati strappati i fogli usati da Erostrato per le sue missive.
Spesso, dinnanzi a questa o quella suggestione emersa nel corso della vicenda, ho avuto modo di osservare come la stampa, indefettibilmente avvezza al colpevolismo, si chiedesse se elementi di tale tenore potessero essere delle semplici coincidenze.
A tale domanda, penso si possa serenamente rispondere che non solo è ben possibile che si tratti di coincidenze ma anche che, ad uno sguardo più attento, non si tratta neppure di coincidenze: le coincidenze, infatti, come rivela la parola stessa, concordano, “coincidono”, appunto.
Gli elementi in esame, al contrario, coincidono solo in apparenza, salvo poi rivelarsi fondamentalmente incongruenti e contraddittori.
Allora, se proprio ci si vuol fare qualche domanda sulle coincidenze, ne propongo una: è solo una coincidenza che a collimare (e neanche più di tanto, come abbiamo visto) con gli Aquini siano sempre e solo elementi la cui portata è rimessa ad un ampio apprezzamento soggettivo mentre, di contro, ogni possibile elemento oggettivo (dalla carta alla presenza di DNA) non dà alcun esito che confermi questa ricostruzione?
Non dovrebbe questa stessa constatazione costituire un campanello d’allarme?

Con l’argomento affrontato in questo paragrafo, abbiamo dunque visto il peso della vaghezza, osservando ancora una volta quanto, in relazione ad altri elementi della vicenda, avevamo già constatato nella prima parte: i presunti elementi a carico degli Aquini non solo sono del tutto carenti di gravità, univocità e precisione, non solo non indiziano alcunché (né se considerati isolatamente né se sommati), ma hanno anche la sconcertante prerogativa per cui, se accostati tra loro, anziché restituire un quadro più chiaro, lo complicano, semplicemente in quanto un elemento ne contraddice un altro.
Così, come la proverbiale pezza che fa più danno del buco, ognuno degli elementi utilizzati contro gli Aquini, se osservato attentamente, ne fa crollare degli altri: lo abbiamo visto in merito agli incendi, in merito alla testimone, in merito agli “Adelphi della Dissoluzione” e, da ultimo, in merito ai libri sequestrati in casa degli Aquini.


Ceci n’est pas une pipe. “Questa non è una pipa”, scriveva René Magritte come didascalia di sua celebre opera d’arte raffigurante una pipa, divenuta emblema del surrealismo ed eloquentemente intitolata “Il tradimento delle immagini”.
Se il quadro indiziario contro Nemesio e Samuele Aquini fosse un dipinto, lo intitolerei proprio “Il tradimento delle immagini”, e scriverei in didascalia “questo non è un quadro indiziario”.
Nulla, infatti, più del concetto di tradimento, rende l’idea di ciò che provo constatando come elementi di questo tenore abbiano potuto portare a un rinvio a giudizio e perfino a una sentenza di condanna in primo grado.
Mi sento tradita in primo luogo come cittadina e, in secondo luogo, come persona che ha trascorso tanti anni sui libri di diritto, salvo poi doversi scontrare con una realtà ben diversa da quella illustrata dai principi di civiltà che si predicano, invano, nelle aule accademiche.

Non mi ha dunque sorpresa in modo particolare apprendere che in questa vicenda giudiziaria caratterizzata da una somma di “zeri” metaforici, a tali zeri in senso metaforico si sia aggiunto perfino uno zero in senso letterale o, per meglio dire, matematico.
Mi riferisco, nello specifico, al pacchetto di caramelle (“appartenente allo stesso lotto” di quello rinvenuto, con gli spilli, alla scuola materna di Cergnai) che sarebbe stato acquistato con la tessera fedeltà della famiglia Aquini al supermercato di Cesiomaggiore ventisei giorni prima dei fatti di Cergnai.
Per inquadrare meglio questo elemento che, come anticipato, costruisce uno zero in senso letterale, deve essere premesso anzitutto che, ovviamente, l’acquisto di un pacchetto di caramelle non costituisce, di per sé, un fatto anomalo o strano.
Al fine di comprendere, però, fino a che punto tale elemento, che fu strombazzato ai quattro venti da molteplici organi di informazione, costituisca letteralmente uno zero, è necessario soffermarsi su una serie di ulteriori circostanze.
In primo luogo, va sottolineato che, se di per sé l’acquisto di una confezione di caramelle non è certamente un fatto singolare, lo è ancor meno in alcuni periodi dell’anno.
Infatti, se l’acquisto risale a ventisei giorni prima rispetto ai fatti della scuola materna di Cergnai, avvenuti il 22 gennaio, tale acquisto da parte degli Aquini è avvenuto in data 27 dicembre, ossia in piene festività natalizie, periodo in cui pressoché ogni famiglia acquista caramelle e dolciumi di ogni genere.
Peraltro, non si può fare a meno di sottolineare che, per quanto si possa essere sprovveduti, è davvero difficile credere che, se si intende utilizzare qualcosa per la commissione di un reato, la si acquisti con una tessera punti: soprattutto, in considerazione del fatto che Erostrato non sembra affatto essere uno sprovveduto dal momento che, tra l’altro, è riuscito a non lasciare né DNA né impronte nelle sue lettere.
Tuttavia, i problemi non finiscono certo qui: c’è anche un altro aspetto sul quale è impossibile non soffermarsi.
Sebbene il fatto che tali caramelle appartenessero “allo stesso lotto” sia stato presentato come un indicatore di corrispondenza, deve essere aggiunto che i sacchetti di caramelle simili e dello stesso lotto ammontano a ben 5128 (fonte: Corriere delle Alpi, 24 marzo 2022).
Non è un errore di battitura e non avete capito male. Cinquemilacentoventotto.
Per chi volesse osservare questo numero (un sacchetto di caramelle su 5128 dello stesso lotto e della stessa tipologia in circolazione nella stessa area geografica) in percentuale e non avesse sotto mano una calcolatrice, non posso che inserire un’immagine con il calcolo svolto.


0,0195%: uno zero in senso letterale, appunto, un numero che mostra, impietosamente, un ennesimo elemento caratterizzato da assoluta inconsistenza.
Un “indizio” che, in sostanza, non è un indizio, in quanto visti i numeri è intuibile che un “indizio” analogo si troverebbe a carico di un gran numero di famiglie della zona.
Ed è proprio questa inconsistenza che, personalmente, mi sembra di ravvisare nella totalità degli elementi finora osservati, ad avermi spinta a prendere in particolare considerazione alcuni aspetti che saranno oggetto del prossimo paragrafo.

Il peso del pregiudizio

Dopo aver preso in esame una serie di elementi, mostranti -talvolta in maniera plateale- quanto la vicenda giudiziaria in questione sembri reggersi più su suggestioni che su indizi propriamente detti, ritengo sia d’obbligo una parentesi, che potrebbe essere infinita, su come e quanto agisca sull’inconscio collettivo il flagello del pregiudizio.
Mentre mi accingevo a scrivere e, nel frattempo, cercavo di raccogliere il maggior numero di notizie possibile per affrontare l’argomento, più materiale esaminavo e più mi rendevo conto di provare la sgradevole sensazione che la cifra stilistica di questa vicenda giudiziaria, o per meglio dire mediatico-giudiziaria, fosse la suggestione unita, in una miscela potenzialmente dannosa, al pregiudizio.
Per la precisione, è come se tutte le suggestioni, tutti gli “zeri”, metaforici e non, visti finora, fossero tenuti insieme dal pericoloso collante dello stereotipo.

Per cominciare a darvi un’idea di ciò che intendo, inserisco l’immagine di un vecchio articolo pubblicato dal Corriere delle Alpi, promettendovi sin da ora che la circostanza, evidenziata al tempo e richiamata perfino -dalla medesima testata giornalistica- nel sottotitolo di un articolo del 24 marzo di quest’anno in merito alla sentenza di primo grado, sarà uno degli oggetti (anche se non l’unico) di questo paragrafo.



Infatti, sebbene la circostanza, in sé considerata, non sia oggetto di dibattimento e non dovrebbe avere la benché minima attinenza con l’accertamento dei fatti e di eventuali responsabilità, si trova purtroppo ad averne nel momento in cui viene data in pasto, per giunta spesso in maniera inadeguata (e per constatarlo è sufficiente osservare le reazioni di rabbia e scherno), all’opinione pubblica: se non altro perché anche i giudici, piaccia o meno, sono parte dell’opinione pubblica e, proprio come ogni altra persona, sono esposti al veleno del pregiudizio.

Il pregiudizio, in apparenza e sia pure a targhe alterne, non gode di buona reputazione nella nostra società, eppure ognuno di noi a suo modo ne è vittima inconsapevole, portatore insano di credenze esterne e interiori che possono determinare problemi e danni incalcolabili.
Lo è il maestro che ha antipatia per l’alunno dal primo momento in cui lo vede entrare in classe, il capoufficio che detesta il suo sottoposto assunto da poco, lo può essere perfino il genitore con un figlio appena nato.
Ancora oggi, che ne abbiamo viste di tutti i colori, parlo di inconsapevolezza perché non riesco a credere che un essere umano possa basare il suo giudizio su preconcetti.

Se da un lato, come alcuni dicono, l’adagio secondo il quale “la prima impressione è quella conta” a volte funziona, almeno in apparenza, dall’altro è purtroppo una frase che non porta a nulla di buono.
Il pregiudizio è insidioso, ed è ancor più insidioso laddove non venga esplicitato in maniera chiara, ma sia lasciato libero di agire in sordina.
Ed è così insidioso che, ve lo confesso, ho indugiato nel momento in cui mi sono trovata a dover fare una scelta in merito alla opportunità di affrontare o meno, su Colonna Infame, il tema oggetto di questo paragrafo.
Il motivo principale della mia esitazione dinnanzi alla prospettiva di soffermarmi anche su questo aspetto, era dovuto al timore di poter contribuire, sia pure involontariamente, a dare pubblicità ad elementi che, di per sé, non dovrebbero essere oggetto di dibattimento né, tantomeno, di attenzione mediatica.
Dopo una lunga riflessione, ho tuttavia deciso di dare spazio anche al tema di questo paragrafo, per alcune ragioni che intendo esplicitare.

La prima è legata al fatto che, come da tempo insegna la sociologia del diritto, il diritto concretamente applicato spesso non è tanto quello dei codici, quanto quello dei mass media: si tratta di una presa di coscienza triste, ma nondimeno necessaria al fine di provare, nel proprio piccolo, ad innescare una riflessione che possa quantomeno cercare, facendo appello al senso critico, di invertire la rotta.
La seconda, più banale ma non meno rilevante, è il fatto che il blog Colonna Infame, pur potendo contare su uno zoccolo duro di affezionati lettori, non ha neanche alla lontana la copertura di testate giornalistiche (anche locali) e trasmissioni televisive, che pure degli argomenti oggetto di questo paragrafo hanno -sia pure a sproposito– parlato: in buona sostanza, non sarà certo questo articolo a dare pubblicità a determinati elementi, alla cui impropria e dannosa divulgazione qui cercheremo anzi di contribuire a porre rimedio.
La terza, che capirete meglio nel prosieguo, è il fatto che proprio la presenza di elementi di questo genere, in quella che è stata la presentazione del caso all’opinione pubblica, oltre a non deporre in alcun modo per la colpevolezza degli imputati (né del più giovane di loro, al quale tali elementi si riferiscono), suggerisce una ancora maggiore cautela, in quanto acuisce il sospetto di essere di fronte ad un errore giudiziario: infatti, sebbene questo fenomeno sia perlopiù ignoto al grande pubblico, esiste un ampio filone di errore giudiziari inscindibilmente legati a questo specifico genere di pregiudizio.
Una quarta ragione, è il fatto che, da alcune fonti dell’epoca, risulta perfino che una delle perquisizioni domiciliari presso l’abitazione degli Aquini sia stata motivata, tra l’altro, con riferimento al fatto che Samuele fosse iscritto al forum “Atei italiani”: una circostanza (la perquisizione così motivata, e non certo l’iscrizione al forum) che trovo, sinceramente, inquietante.
Ancora, una quinta ragione, che è il caso di richiamare se non altro per ricordare ai nostri lettori di appuntare nel metaforico block notes tra gli indizi contro gli Aquini un ulteriore “zero”, è il fatto che un altro libro sequestrato in casa degli Aquini, è stato un celebre libro sul Satanismo scritto dal sociologo (per giunta cattolico) Massimo Introvigne, che venne imprudentemente presentato dalla grancassa come non si sa bene quale misterioso testo occulto: anche tale circostanza, infatti, evidenzia piuttosto bene un certo clima che, a parere di chi scrive, non ha giovato alle indagini.
Infine, l’ultimo motivo, è una riflessione nata dalla lettura di un vecchio articolo del sociologo Patrizio Paolinelli (questo: https://www.sociologiaonweb.it/esoterismo-sicurezza-e-comunicazione-il-caso-dei-bambini-di-satana/?fbclid=IwAR2FBzlM63eHdit9JzSB-4s06tIYbXIh641DN0azPMZRn2B0VW_vVfeWxkw) relativo proprio a un caso di errore giudiziario innestato su questo genere di pregiudizio che, per un caso fortuito, stavo leggendo proprio nei giorni in cui ho appreso della sentenza di primo grado, e che ha contribuito a far sì che maturasse in me la convinzione secondo la quale il fatto che soggetti terzi cerchino di creare un minimo di contraddittorio possa essere utile ad un accertamento dei fatti corretto e ripulito da isterie e stereotipi.

Con questo paragrafo, dunque, non intendo certo offendere quelli che io credo vittime di un clamoroso errore giudiziario, anche se mi trovo costretta a soffermarmi su qualche loro caratteristica per spiegarmi meglio.
E, sia chiaro, non intendo nemmeno offendere chi ha portato avanti le indagini, ma è impossibile non vedere che, oltre all’assenza di prove, gli indizi non mi paiono gravi, sono assolutamente imprecisi e, manco a dirlo, discordanti.
Così, per mostrarvi come i pregiudizi possano incidere, anche in maniera consistente, su qualsiasi vicenda giudiziaria in generale, e come potrebbero aver inciso su questa in particolare, ho pensato di ispirarmi a un celebre personaggio, che certamente conoscerete tutti, frutto della fervida fantasia di Carlo Collodi: il Grillo Parlante.



Tuttavia, se il Grillo Parlante di Collodi simboleggia la voce della coscienza, che parla con calma e dispensa parole di saggezza, ma troppo spesso viene messa a tacere, il “nostro” Grillo Parlante, che ci accompagnerà in questo paragrafo, avrà l’onere di rappresentare l’esatto opposto: la voce del pregiudizio, chiassosa dispensatrice di consigli ben poco saggi, ma sin troppo ascoltata.
La voce del pregiudizio tende a mostrare la realtà attraverso una lente deformante, che dà una connotazione negativa caratteristiche personali, magari statisticamente poco comuni, ma del tutto lecite.
Peggio ancora, la voce del pregiudizio, spesso, tende non solo ad ingigantire tali caratteristiche personali, ma perfino a travisarle.

Gli unici “indizi” che vedo, tornando a noi, si riflettono su due uomini privi di patente e/o automobile.
Proviamo ad ascoltare, per un momento, la voce del pregiudizio: cosa potrebbe dirci?
Avanzo qualche proposta, non importa quanto poco avveduta, anzi: come abbiamo detto, infatti, la voce del pregiudizio non lo è affatto.
“Ma come si fa a non guidare al giorno d’oggi?”
Ancora.
“Sono padre e figlio che fanno, insieme, passeggiate quotidiane: che problemi hanno queste generazioni che invece di separarsi si mescolano in un inquietante sodalizio?”
Ancora.
“Perché un giovane uomo, anziché frequentare persone della sua età, se ne a casa a leggere libri di dubbia moralità, a navigare in Rete e scrivere su forum in materia di ateismo o -peggio che mai- a consultare pagine sul Satanismo?”
Infine, la ciliegina sulla torta, come si è appreso dai media, il più giovane degli imputati “soffre anche di depressione”: altro non potrà essere, quindi, che qualcuno da cui guardarsi, qualcuno che una società come la nostra sceglie agevolmente come preda facile dei diversi e tanti accusatori che la compongono.

Chissenefrega se non ci sono né indizi né prove, la nostra colonna infame ha bisogno di essere occupata da qualcuno che abbiamo già condannato nelle nostre, risibili ed orripilanti, concezioni.

In merito alla “ciliegina sulla torta” poc’anzi citata, la depressione, considero un imperativo etico spendere qualche parola, in quanto è un elemento che tocca profondamente la mia sensibilità.
Se in questa vicenda, globalmente considerata, non c’è davvero nulla che possa, anche alla lontana, far sorridere, c’è un aspetto che trovo più triste di ogni altro e che più di ogni altro mi ha colpita.
Da tempo, sono una appassionata lettrice di saggi su svariati temi di diritto penale, ma in particolar modo in materia di funzione e giustificazione della pena.
Pur senza scendere nel dettaglio delle varie concezioni filosofiche che, sull’argomento, si affiancano o si contestano a vicenda, è sufficiente qui richiamare un concetto che mi ha sempre colpita molto.
Spesso, le giustificazioni filosofiche della pena e dello stesso ordinamento penale, fanno riferimento anche alle pulsioni di vendetta che sorgono nella popolazione dinnanzi ad un reato: in buona sostanza, si dice, l’ordinamento penale e la pena esistono in quanto, in loro assenza, le pulsioni di vendetta si tradurrebbero in un Far West, con conseguenze ben più dannose e, soprattutto, incontrollabili.
Ancora, capita che facciano riferimento a esigenze inerenti la conservazione del sistema: il sistema deve essere credibile, e non lo sarebbe nel caso in cui minacciasse una pena per un reato per poi non applicarla.
C’è però un altro concetto, che costituisce principio fondamentale, e che in quanto tale si affianca a quelli ora citati, costituendone un limite invalicabile.
Infatti, per quanto l’ordinamento penale possa essere giustificato, alla sua giustificazione esiste pur sempre un limite, dato dal fatto che l’individuo non possa mai essere considerato uno strumento per raggiungere finalità ulteriori, fosse anche per appagare la sete di vendetta di tutti gli altri o per rispondere alla “ragion di Stato”.
Tali principi dovrebbero valere non solo in ambito giudiziario, ma anche nelle trattazioni di cronaca: abbiamo già visto più volte, d’altronde, come e quanto i due piani rischino di intersecarsi.
Ed è proprio perché l’individuo non può essere un mezzo che non si può tollerare l’idea (prima ancora che il fatto) che, per blandire il consenso dell’opinione pubblica impressionata da notizie inerenti un reato, delle persone possano essere messe alla gogna ed esposte al pubblico ludibrio, quasi usate, se mi è concessa un’immagine forte, a mo’ di scudi umani per rassicurare l’opinione pubblica dandole un mostro contro il quale scagliarsi, specie se tali persone sono, di per sé, già indebolite da problemi che potrebbero rendere letteralmente insostenibile un peso di questo tipo.

Sebbene l’insegnamento che dovremmo trarre dall’antico racconto che vede protagonista il cortigiano Damocle sarebbe di non considerare oro tutto ciò che luccica senza valutare le responsabilità e i pericoli ai quali si è esposti se si gode del privilegio di essere un tiranno, personalmente ho sempre dato alla “Spada di Damocle” una lettura polivalente.
Come al solito, guardo il lato umano e, grazie alla semplice osservazione delle peculiarità di ognuno, ho avuto modo di rendermi conto negli anni che -per quanto possa sembrare banale- così come non tutti hanno la stessa soglia di sopportazione del dolore fisico, allo stesso modo non tutti riescono a reggere con la stessa forza d’animo la pressione che può comportare l’essere coinvolti in un procedimento penale.
Tutti noi abbiamo avuto modo di osservare, in tanti anni di bombardamento mediatico in materia di cronaca, le reazioni di indagati, eventualmente divenuti imputati e condannati. Le reazioni alla violenza delle accuse, all’accanimento mediatico e alla ostilità dell’opinione pubblica sono diverse, come diverso è ognuno di noi.
Su questa considerazione non ci si sofferma mai abbastanza quando si muovono accuse, e questa leggerezza può portare a conseguenze disastrose, perché sappiamo benissimo che la macchina del fango, una volta messa in moto, è molto difficile da fermare.
Il fango, come farebbe in natura, riesce a deviare indagini anche inconsapevolmente, copre ogni altra pista che risulterebbe molto più plausibile e in ultima battuta, quella più tragica, trascina con sé le vite dei poveri malcapitati di turno in un burrone dal quale sarebbe difficile risalire perfino se venisse ritrattato tutto con un proclama a reti unificate. Questo perché l’animo violentato da una vicenda simile stenta a riprendersi, dal momento che una ingiusta accusa provoca delle ferite indelebili.

Se la persona o, come in questo caso, le persone colpite da una ingiusta accusa hanno poi alcuni attributi, come un profondo affetto che lega i componenti della famiglia, uno stile di vita semplice e scevro di malizia, una semplice quotidianità simile ad una nicchia protettiva e, nel caso del più giovane, una depressione che, se pur ammirevolmente affrontata con metodi efficaci, resta pur sempre una depressione, ci si dovrebbe interrogare sulla necessità di affrontare accuse così delicate con un approccio totalmente diverso.
Ora, come sapete, personalmente ho voluto essere chiara sin dall’inizio, scrivendo espressamente di ritenere i due imputati estranei ai fatti.
Sebbene non possa pretendere che tutti abbiano la mia stessa convinzione, un dato di fatto incontestabile è che questo caso giudiziario verta su meri indizi, e non su prove: una circostanza, per giunta, pacificamente riconosciuta da vari organi di stampa.
Per questo, mi viene da dire che non si può sparare a zero, nel dubbio, in un implicito “tanto delle vite degli altri chissenefrega”, perché non tutti riescono a sostenere anni e anni con una spada di Damocle sulla testa.
Una società che voglia definirsi civile non dovrebbe mettere nessun cittadino in queste assurde condizioni, e ribadisco, nessun cittadino, senza distinzione alcuna, perché la dignità di ognuno va sempre tutelata e mai e poi mai calpestata.
In questa circostanza, per l’ennesima volta, ho dovuto costatare -e mi rincresce dirlo- che la società italiana è ancora molto lontana dal potersi definire civile.

Basti solo pensare a quale ruolo potrebbe aver giocato, in questo caso, il peso del pregiudizio.
Quella vocina insistente, di cui ho provato sopra ad intuire e riportare alcune parole, è una voce che mai dovrebbe trovare spazio, in generale, ma soprattutto in situazioni di per sé connotate da una intrinseca e particolare delicatezza.
Quella voce, come anticipato sopra, è una lente deformante, che può portare a travisare anche le cose più semplici e banali, ad esempio l’amore per i libri o la sacrosanta scelta personale di non prendere la patente: ed così che perfino delle semplici passeggiate, magari volte proprio ad alleviare la sofferenza di una persona che combatte contro la depressione, possono diventare, se unite a suggestioni di vario genere, sospette.
E quella voce è una lente deformante che non può, in quanto tale, che contribuire a intorbidire le acque, le stesse acque dalle quali tutti noi, successivamente, ci troveremo, volenti o nolenti, a dissetarci.
Infatti, se quando ci si occupa, anche semplicemente in qualità di blogger, di una vicenda di cronaca, ritenendo che si tratti di un errore giudiziario, il primo pensiero non può che essere rivolto alle persone direttamente coinvolte, è anche vero che ogni errore giudiziario non riguarda mai solo imputati e condannati.
Un errore giudiziario riguarda sempre, che ne siamo o meno consapevoli, l’intera società, per la quale costituisce una ferita profonda.
E non si tratta solo di una considerazione astratta e di principio, ma anche di un problema concreto, perché per quanto sia sgradevole pensarci, un errore giudiziario può coinvolgere letteralmente chiunque.

Nel caso di specie, inoltre, il problema potrebbe essere particolarmente rilevante in concreto.
Infatti, come ho avuto modo di anticipare a più riprese, uno dei sospetti che, via via che mi documentavo sulla vicenda, hanno cominciato a farsi strada nella mia mente, è che questo caso possa ricadere, almeno in una certa misura e nonostante alcuni profili di atipicità, in un fenomeno noto come “satanic panic“: un fenomeno spesso completamente ignoto all’opinione pubblica, ma particolarmente studiato dalla sociologia, specie anglofona, anche e soprattutto in quanto è stato storicamente ed è usualmente legato (indovinate un po’?) a errori giudiziari che innescano, in quanto improntati a isteria di massa, spirali estremamente pericolose.
Sebbene in questa sede sia impossibile una trattazione dettagliata della materia, è quantomeno necessario definire il fenomeno ed i suoi contorni.
Con la locuzione “satanic panic” o, in Italiano, “panico satanico”, si fa riferimento a una specifica tipologia di panico morale.
Il concetto di panico morale, a propria volta, fa riferimento a un meccanismo, ascrivibile alla categoria delle isterie collettive, in base al quale stereotipi, incidenti aneddotici o, in alcuni casi, vere e proprie leggende metropolitane prive di qualsivoglia fondamento, tendono ad apparire, nella coscienza collettiva (spesso aizzata in tal senso anche da disinformazione o sensazionalismi mediatici) come pericoli diffusi, gravi ed incombenti.
Il panico satanico, come anticipato, è una peculiare forma di panico morale, basata su una serie di stereotipi e, spesso, leggende metropolitane di matrice cospirazionista destituite di fondamento, incentrato su una percezione di pericolo, in realtà infondata, legata a presunti crimini riconducibili al Satanismo.
Alla fine del secolo scorso, un’ondata di isteria collettiva riconducibile a panico satanico colpì gli Stati Uniti e, successivamente, molti Paesi europei, tra i quali l’Italia, sfociando in centinaia di indagini a carico di persone innocenti e in relativi processi, nella generalità dei casi culminati con assoluzioni, non prima di aver rovinato la vita alle persone colpite.
Ho ritenuto opportuno un richiamo all’argomento, in quanto proprio in concomitanza con l’inizio delle azioni di Erostrato, ossia negli anni 2017-2018, vi è stata, a livello globale, come sottolineato da diversi studiosi, un vero e proprio revival di alcuni temi tipici del panico satanico.
Sebbene i presunti crimini ai quali fa riferimento generalmente l’isteria legata a panico satanico siano reati di indole completamente diversa rispetto a quelli di Erostrato (per questo ho parlato di atipicità), l’osservazione di come i mass media abbiano talvolta ostinatamente insistito, in relazione alla vicenda, nel porre l’accento su alcune determinazioni personali del più giovane dei due imputati, mi spinge a ritenere che, nonostante gli aspetti di atipicità, possa essere comunque riscontrabile anche nel caso di specie un retroterra di stereotipi e panico morale a tema satanico, quantomeno come collante che tiene insieme la serie di suggestioni che abbiamo visto nei paragrafi precedenti.

A tal proposito, pur senza dilungarmi troppo sull’argomento, cosa che renderebbe l’articolo dispersivo, per quanto il tema sia di interesse date le sue implicazioni collettive, mi limito qui a qualche osservazione relativa al caso di specie, e in particolare al modo in cui elementi di tale isteria abbiano connotato la comunicazione con specifico riferimento al più giovane degli imputati.
In prima battuta, deve essere sottolineato che sebbene esista, statisticamente, qualche crimine riconducibile al cosiddetto “satanismo acido”, perfino tali crimini sono aneddotici e sono spesso oggetto di abbondanti mistificazioni mediatiche, come anche recentemente dimostrato da studi e inchieste, tra cui una recente pubblicazione di Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani.
Al di là di questo, però, va sottolineato che il Satanismo razionalista, di cui tanto si è parlato in relazione a Samuele Aquini, al pari di altre forme di Satanismo, non ha nulla a che vedere con quei, sia pure rarissimi e aneddotici, fenomeni criminali.
Il Satanismo razionalista è una filosofia di stampo sostanzialmente ateo o agnostico, senza la benché minima connotazione criminale, che considera Satana come simbolo (e non come una entità o divinità) di una serie di valori: si tratta di una realtà che, per quanto minoritaria e magari, in quanto poco nota, facile bersaglio di pregiudizi, è del tutto legalitaria.
Statisticamente, la probabilità che un individuo che segue tale forma di filosofia o ne è appassionato commetta un illecito non è superiore alla media sociale.
Inoltre, giacché siamo in argomento, mi sembra a questo punto interessante far notare che il Satanismo razionalista presenta una serie di incompatibilità rispetto alle idee veicolate negli scritti di Erostrato.
Limitandomi a pochi esempi, si tratta di una filosofia che non ha alcuna posizione omofoba ma è anzi “gay-friendly” e tendenzialmente in linea con posizioni politiche progressiste. [3]
Di contro, e lo specifico per chiunque non conoscendo bene l’argomento potrebbe essere a propria volta vittima di certe suggestioni, il Satanismo razionalista, non contempla riferimenti all’Anticristo, al katechon, e similari: insomma, i riferimenti di Erostrato di ispirazione millenarista non hanno alcuna attinenza con le idee filosofico-religiose di Samuele Aquini.
Per questa ragione, soffermarsi tendenziosamente su un tale aspetto personale, che in un’opinione pubblica generalmente poco informata su filosofie e culti emergenti può ingenerare una ingiustificata ostilità ai danni di una persona, già in una situazione delicata in quanto colpita da un procedimento penale che, per consentire un corretto accertamento dei fatti, dovrebbe svolgersi all’insegna della serenità e non dell’isteria, è un atteggiamento che a mio avviso merita un particolare biasimo.
Tale accanimento, infatti, potendo compromettere l’imparzialità del giudicante, rischia di costituire un concreto pericolo e, in ogni caso, appare come una ingiustificata forma di lesione della libertà e dignità di un individuo che, pur essendo coinvolto in un procedimento penale, deve essere per quanto possibile tutelato.

Il mio augurio è un generale recupero della lucidità che colga tutti in sincrono in occasione dell’appello. Con un pizzico di umiltà e buona volontà si potrebbe anche ridimensionare una faccenda che ha preso vita dal nulla, facendo cadere le accuse e restituendo quel minimo di serenità ad una famiglia che merita, quantomeno, di lasciarsi questa brutta storia alle spalle e riprendere il controllo della propria esistenza.

Il peso dell’intuizionismo giudiziale: la fallacia della fascina

“Non mi aspettavo un vostro errore
Uomini e donne di tribunale
Se fossi stato al vostro posto…
Ma al vostro posto non ci so stare.”
(Fabrizio De André, Nella mia ora di libertà)

In conclusione di questo ciclo di articoli sul caso Erostrato, anche se, come avrò modo di spiegarvi meglio, con ogni probabilità non sarà questa l’ultima volta in cui Colonna Infame si occuperà della vicenda, ho deciso di dedicare un paragrafo a quello che considero un ulteriore aspetto che merita una particolare attenzione.
Con questo paragrafo, manterrò l’ultima delle mie promesse: spiegare cosa ho voluto intendere esternando il mio timore di vedere in fiamme -con l’Erostrato bellunese del XXI secolo- non il tempio di Artemide, bensì il tempio di Themis, la Giustizia.
In queste ultime pagine, infine, proprio in quanto argomento intrinsecamente collegato al tema del paragrafo, confluiranno le prime riflessioni relative alle perizie grafologiche che hanno caratterizzato -e, in buona misura, segnato- l’andamento processuale della vicenda in esame.
Parlo necessariamente di “prime riflessioni” in quanto, per il momento, potrò svolgerne solo alcune: questa, tra l’altro, è anche la ragione per cui ho anticipato che, con ogni probabilità, questo non sarà l’ultimo articolo.
Infatti, mentre reperivo il materiale disponibile sulla vicenda per la stesura di questo articolo, ho notato, nelle notizie relative alle perizie grafologiche, una serie di punti a mio avviso meritevoli di un approfondimento ulteriore.
Tuttavia, non avendo personalmente una particolare competenza in materia, dovrò qui limitarmi, oltre alle considerazioni prettamente giuridiche, solo ad alcune osservazioni che, sulla base di miei precedenti studi ed esperienze professionali che si sono “incrociati” con le discipline forensi, ritengo di essere in grado di svolgere.
Per approfondire gli ulteriori aspetti che, nel corso delle ricerche, ho individuato come possibilmente problematici, ho deciso di coinvolgere una ulteriore persona: si tratta di un amico, in passato già collaboratore del blog Colonna Infame per alcuni aspetti “tecnici” relativi alle discipline forensi, che avendo accesso a un certo numero di pubblicazioni specialistiche, potrà reperire probabilmente informazioni degne di un ulteriore articolo.

Tornando a noi, se dovessi spiegarvi i motivi della mia apprensione, alla luce di questa vicenda, per il tempio di Themis, non partirei affatto dalla regola processuale secondo la quale la colpevolezza degli imputati deve essere provata oltre ogni ragionevole dubbio.
Non partirei da questa regola perché, stavolta, sarebbe ozioso e superfluo.
Sono infatti convinta che in questa vicenda non solo vi sia il “ragionevole dubbio”, che do per scontato, ma ci siano, di fatto, soltanto dubbi: paradossalmente, la più grande certezza è che il quadro indiziario a carico dei due imputati non si regga in piedi.
Lo abbiamo visto, in ogni modo possibile, soffermandoci sulle tantissime anomalie e contraddizioni che sembrano costituire l’unico vero punto fermo di una vicenda che, per quanto ci si possa sforzare, porta con sé il retrogusto amaro di un grande errore.
Ogniqualvolta mi trovi dinnanzi a casi di questo genere, in cui troppe e plateali mi paiono le incongruenze, anziché soffermarmi sui principi processuali, preferisco interrogarmi sui principi di diritto sostanziale.
D’altro canto, etimologicamente, la sostanza è ciò che “sta sotto”, alla base, alle fondamenta: e quando si osserva un edificio che proprio non si regge in piedi, il primo sospetto dovrebbe essere che ci sia qualcosa che non va già nelle fondamenta, prima ancora che nella struttura.
Per questa ragione, anche in questo caso, non ho potuto fare a meno di dare uno sguardo alla sostanza, alle fondamenta, nutrendo il sospetto che proprio in quel punto si potessero trovare le prime falle, quasi una sorta di “peccato originale”, per usare un linguaggio forse più congruo a una vicenda che, per certi versi, lascia il sospetto di essere stata, sia pure inconsapevolmente e in buona fede, inficiata da pregiudizi di tipo religioso.

Ora, mi rendo conto di non potermi permettere di scendere troppo nel dettaglio di questioni giuridiche che risulterebbero, per un blog, eccessivamente tecniche e complesse: cercherò, dunque, di essere lieve.
Ai fini di comprendere i termini della questione, basti sapere che, poiché in un procedimento penale si pone la necessità di accertare se un fatto lesivo sia riferibile alla condotta di un soggetto, sorge la conseguente necessità di individuare degli standard probatori adeguati, ed è per questa ragione che il diritto deve interfacciarsi con modelli scientifici che godano di una particolare attendibilità. [4]

Già alla luce di questo primo tassello, mi sembra quasi superfluo osservare che, nel caso preso in esame, vi siano degli elementi che sfuggono in maniera plateale a un accertamento di questo tipo, se non altro perché un simile accertamento non è concretamente possibile.
Basti pensare, a titolo d’esempio, alla questione relativa agli incendi, trattata nella prima parte dell’articolo, che richiamo qui in quanto penso sia quella che mostra in maniera più chiara ciò a cui mi riferisco.
Infatti, anche al di là di tutte le altre molteplici contraddizioni relative agli incendi, che ho già avuto modo di osservare, è del tutto evidente che se non è dimostrabile neppure l’origine di tali incendi, che pertanto potrebbero essere stati dovuti perfino a cause naturali, a maggior ragione non è certamente possibile affermare “oltre ogni ragionevole dubbio” che siano stati appiccati dolosamente da persone specifiche, chiunque esse siano.
Con questa considerazione, intendo porre l’accento sul fatto che, per quanto riguarda gli incendi, a rigore non dovrebbe essere possibile neppure ascriverli al vero “Erostrato”.
Ma, in realtà, non è questo il motivo per cui ho scelto di scrivere questo paragrafo.
Infatti, se per ragioni di principio non posso fare a meno di evidenziare anche anomalie di questo genere, il motivo per cui ho scelto di scrivere su questa vicenda e ho scritto ad oggi oltre cinquanta pagine, cosa che ha richiesto un impegno significativo, non è certo quello di alleggerire la responsabilità del vero Erostrato.
Certamente, anche il vero Erostrato dovrebbe avere, come ogni altro individuo che abbia commesso un reato, il diritto ad un equo processo, cosa che implica il rispetto di una serie di garanzie: questa potrebbe suonare ai più “giustizialisti” come un’affermazione spiacevole e infelice, ma se c’è un punto fermo che ho potuto trarre dall’aver studiato diritto, è che proprio dalle garanzie accordate al reo si desume il livello di civiltà di una nazione: non a caso, uno studioso tedesco dell’Ottocento definì il codice penale come “Magna Charta del reo”.

Tuttavia, non mi sarei presa la briga di scrivere un ciclo di articoli su Colonna Infame per contestare aspetti come questo: se non altro, perché non sono tanto le questioni di principio il tema del blog.
Il motivo per cui ho scelto di scrivere, come ho detto sin dall’inizio, è la profonda convinzione che la vicenda in esame sia un errore giudiziario.
Per questo motivo, se il 23 marzo avessi letto sui giornali che Nemesio e Samuele Aquini erano stati condannati in primo grado per i reati commessi da “Erostrato”, ma che era caduta l’accusa relativa agli incendi, in quanto di origine non dimostrabile, questi articoli li avrei scritti comunque.
Il perché penso di averlo ormai abbondantemente spiegato, soffermandomi, in ognuno dei paragrafi precedenti, su un numero di anomalie e incongruenze tale da avermi spinta a parlare di “zeri” e di “somma tra zeri”.
Questo riferimento alla “somma tra zeri”, dopo aver cercato di mostrare come zero sia il sostanziale valore di ognuno degli elementi considerati parte del quadro indiziario contro gli Aquini, non è casuale.
Mentre cercavo di apprendere e comprendere il più possibile su questa vicenda, mi è tornato in mente spesso il concetto di “fallacia della fascina”, locuzione usata dall’epistemologa Susaan Haack per indicare la fallacia che consiste nel ritenere che una serie di evidenze deboli, per semplice sommatoria, possa restituire un quadro indiziario forte, e vorrei invitarvi a tenere a mente questo concetto, in particolar modo, nella lettura di questo paragrafo, in quanto vi sarà utile ricordare in quale quadro siano andate a inserirsi le perizie calligrafiche, di cui parlerò a breve.
Anche il fatto che abbia lasciato la questione relativa alle perizie calligrafiche alla fine non è un caso, né è un caso che abbia scelto di trattare l’argomento dopo il paragrafo relativo al peso del pregiudizio.
Volevo che fossero chiari, infatti, alcuni elementi, tra i quali il clima generale in cui tali perizie hanno avuto luogo e la sostanziale inconsistenza di ogni altro indizio e dunque il nulla che, a tali perizie, fa da contorno.
Per quanto riguarda, nello specifico, le perizie calligrafiche che hanno caratterizzato questa vicenda processuale, va premesso che le perizie svolte dal consulente dell’accusa e quelle svolte dai consulenti della difesa sono pervenute a risultati opposti in merito alla compatibilità degli scritti di Erostrato con la grafia degli Aquini.
In ragione di tali risultati contrapposti delle perizie di parte, è stata disposta e svolta una CTU dalla Dott.ssa Nives Andreani, con esiti sostanzialmente sovrapponibili a quelli della perizia dell’accusa.
Il mio intento non è, naturalmente, quello di mancare di rispetto ai periti di parte pubblica o di metterne in dubbio la professionalità, bensì quello di spingere i lettori ad inquadrare alcuni aspetti che potrebbero essere molto rilevanti.

Per spiegare il primo di questi aspetti, è necessaria una breve digressione nella quale cercherò di fornire, per quanto possibile, gli strumenti per una valutazione critica della questione relativa alle perizie calligrafiche in questo processo.
In questo blog, nel corso degli anni, è stata affrontata ripetutamente la questione delle discipline forensi nel processo penale, evidenziandone talvolta i limiti.
Si afferma spesso che l’introduzione delle scienze forensi nell’ambito del processo penale abbia portato ad un aumento delle garanzie, in quanto le scienze forensi tenderebbero a far scagionare l’innocente e a far condannare il colpevole.
Tale affermazione ha un fondo di verità (è sufficiente pensare ai tanti casi di errore giudiziario che, negli USA, hanno potuto essere corretti grazie al DNA) ma, se non contestualizzata e se non letta con un doveroso approccio critico, rischia di essere completamente fuorviante.
È infatti divenuto sempre più evidente, nel corso degli anni, che una buona parte degli errori giudiziari risulti inscindibilmente legata proprio a processi che hanno visto come protagoniste le scienze forensi: e con questa considerazione si apre, tra l’altro, una pubblicazione del Prof. Gary Edmond, che allego per chiunque fosse interessato ad approfondire (chi volesse leggere l’intera pubblicazione, può farlo al seguente URL: http://classic.austlii.edu.au/au/journals/UNSWLawJl/2014/15.html).



La contraddizione tra la maggiore affidabilità che le discipline forensi dovrebbero apportare e il venire in considerazione di un gran numero di errori giudiziari proprio in cui processi che vedono il contributo di tali discipline, a ben vedere, è solo apparente: il vero problema, infatti, non è rappresentato tanto dalle scienze forensi in sé considerate, bensì dal fatto che in casi di tesi scientifiche contrapposte, bassi coefficienti probabilistici e dunque, in definitiva, irrisolutività delle scienze forensi, si spalanchino di fatto le porte all’intuizionismo giudiziale, cosa che accade sia nel caso in cui il giudice rifiuti gli apporti peritali nel nome della mera intuizione, sia nel caso in cui, al contrario, il giudice subisca acriticamente gli apporti peritali senza entrare nel merito della loro affidabilità. Constatazioni di questo genere sono state alla base di un crescendo di correttivi, attraverso i quali si è cercato di porre rimedio a questo genere di problematiche: sono stati conseguentemente indicati degli standard atti a fungere da basi epistemologiche affinché la valutazione degli apporti peritali possa essere fondata su criteri rigorosi e idonei a offrire il grado di certezza preteso dal processo penale. [5]
Tra questi standard, risultano di particolare importanza e devono essere qui richiamati i criteri Daubert, elaborati originariamente dalla giurisprudenza statunitense e, infine, accolti dalla nostra Suprema Corte di Cassazione nel 2010 con la cosiddetta sentenza Cozzini.

Spero siate riusciti a seguire bene queste premesse, che ho cercato di semplificare quanto più possibile: esse saranno infatti necessarie per una maggiore comprensione delle considerazioni seguenti.
Come ben sa chi segue da tempo Colonna Infame, il tema delle scienze forensi nel processo penale è stato affrontato qui, in passato, con riferimento quasi esclusivo alla genetica forense.
Sebbene proprio in relazione alla genetica forense su Colonna Infame abbiamo spesso avuto modo di osservare una serie limiti, deve essere precisato che in linea di massima e in condizioni ottimali (ossia in presenza di campioni di DNA buoni a livello quantitativo e qualitativo, in quei casi in cui non emergano anomalie e si possano ragionevolmente escludere ipotesi di contaminazione) un test del DNA, pur non dimostrando di per sé necessariamente la colpevolezza per un reato, garantisce risultati attendibili quantomeno sulla appartenenza ad uno specifico soggetto.

Nel caso di discipline forensi come la grafologia, invece, ci si trova già in partenza di fronte ad una situazione diversa, data dal fatto che di per sé si tratta di discipline che, anche in condizioni ottimali, non garantiscono uno standard di certezza assimilabile a quello di un test del DNA e di altre cosiddette “prove scientifiche”, in quanto includono margini decisamente rilevanti di apprezzamento soggettivo.
In effetti, nel panorama statunitense, a seguito della enunciazione dei criteri Daubert non sempre le perizie calligrafiche sono state considerate sufficientemente attendibili per poter essere ammesse nelle Corti.
Sebbene sia impossibile procedere qui ad una analisi dettagliata della giurisprudenza italiana in merito alla attendibilità delle perizie calligrafiche, dal momento che non basterebbero decine di pagine, è necessario ricordare che tali perizie non sono considerate “prova” ma semplice indizio e che il fatto che non siano in grado (neppure in condizioni ottimali) di offrire certezze è stato più volte, anche di recente, ribadito dai Tribunali.


Questa, tuttavia, è una considerazione di ordine generale: va da sé, infatti, che a seconda dei casi considerati l’attendibilità potrà essere maggiore o minore, così come potrà essere maggiore o minore il grado di certezza offerto da una specifica perizia.

Anzitutto, va sottolineato che l’alto grado di soggettività nella valutazione implica, tra le altre cose, che discipline come la grafologia siano di per sé più esposte al rischio di cosiddetto “bias di conferma”, concetto che fa rifermento a quel fenomeno in base al quale si tende a concentrarsi maggiormente sui dati che confermano le proprie convinzioni preesistenti e a scartare le evidenze contrarie.
Questa problematica, che può riguardare anche i migliori laboratori e professionisti ed è esacerbata da un retroterra, per quanto inconsapevole, di pregiudizi, è studiata anche in relazione all’ambito delle discipline forensi, in cui è spesso venuta in considerazione come causa o concausa di errori peritali.
Per far comprendere meglio la portata di questo aspetto, allego un’immagine tratta da una rivista scientifica con la descrizione di un caso di errore peritale concausato da “bias di conferma” (si noti, peraltro, che il caso fa riferimento a una tipologia di perizia considerata tendenzialmente ben più attendibile di una perizia calligrafica; se qualcuno volesse leggere l’intera pubblicazione, inserisco un link da cui risulta liberamente scaricabile: https://web.williams.edu/Psychology/Faculty/Kassin/files/Kassin%20Dror%20Kukucka%20(2013)%20-%20Forensic%20Confirmation%20Bias.pdf).


Tuttavia, le perplessità in merito alla questione delle perizie calligrafiche non si fermano al possibile ruolo del bias di conferma, che pure nel caso di specie potrebbe aver rivestito un ruolo decisamente ampio.
Vorrei infatti permettermi sin da ora, a questo punto, una riflessione su una serie di altri elementi, limitatamente al poco che so in materia di discipline forensi, che potrebbero aver inciso in maniera significativa.
Per comprendere il nocciolo della questione che desidero già da oggi sottoporvi, è necessario far riferimento al concetto di random match probability, che quanti seguono Colonna Infame da tempo già conoscono.
In ogni caso, spiego brevemente il concetto, sia per chi non lo conoscesse, sia per “inserirlo” nel contesto della grafologia.
Nelle discipline forensi, per random match probability si intende la probabilità che un soggetto casualmente scelto tra la popolazione presenti le stesse caratteristiche che emergono nel materiale oggetto di una determinata perizia.
Ad esempio, se si parla di un DNA che coincide in 15 marcatori autosomici con quello di un imputato, la random match probability esprime la probabilità che un soggetto scelto a caso tra la popolazione possa avere la stessa compatibilità.
Per quanto riguarda le perizie calligrafiche, pur dovendosi sottolineare che a livello quantitativo la random match probability è in partenza completamente diversa a causa della già evidenziata minore oggettività della disciplina in questione, il concetto è analogo, e la random match probability esprime la probabilità che un soggetto scelto a caso tra la popolazione generale possa avere la medesima compatibilità, rispetto ad un testo scritto, di un imputato identificato come probabile autore di quello scritto.

Chiarito preliminarmente questo concetto, va aggiunta una considerazione, che non è un’opinione personale, bensì un dato di fatto, ossia che la random match probability subisce variazioni significative a seconda del numero di elementi preso in considerazione in una perizia: minore è il numero di elementi che può essere preso in considerazione in una valutazione peritale, maggiore è la probabilità che un soggetto casualmente scelto tra la popolazione risulti compatibile.
Per far capire meglio anche questo concetto, farò nuovamente un esempio relativo al DNA, che ritengo più “concreto” e quindi di più facile comprensione: come vedemmo anni fa presentando ai nostri lettori la sintesi di una interessante pubblicazione scientifica (https://colonnainfame2014.wordpress.com/2014/08/18/sul-test-del-dna-in-ambito-forense-da-forensic-dna-evidence-the-myth-of-infallibility-di-william-c-thompson-sintesi-di-rocco-cerchiara/) laddove sul luogo di un delitto venga rivenuto materiale genetico incompleto e possano dunque essere presi in considerazione pochi alleli, la probabilità di una corrispondenza casuale aumenta in misura considerevole, causando un serio rischio di errori giudiziari.
Ora, questo problema naturalmente non riguarda solo il DNA, ma qualsiasi disciplina forense.
Venendo alla vicenda oggetto dell’articolo, la problematica è di enorme rilevanza: infatti, nelle perizie calligrafiche in questione un certo numero di elementi normalmente esaminati in questo genere di perizie non può essere preso in considerazione, per motivi evidenti.

Deve essere infatti ovviamente considerato che gli scritti di Erostrato sono realizzati con grafia artefatta (le lettere sembrano suppergiù squadrate seguendo i quadretti del foglio): conseguentemente, la comparazione può avere ad oggetto solo un numero ridotto di elementi, ossia quegli elementi che presumibilmente, nonostante ogni tentativo di modificare la propria grafia, restano invariati in quanto frutto di automatismo.
Tuttavia, neanche tutti questi elementi “automatici” possono essere oggetto di valutazione nel caso in esame.
Ad esempio, di norma una perizia calligrafica tiene conto della pressione esercitata sul foglio: è chiaro che questo elemento non possa essere preso in considerazione se si parla di murales (peraltro, viene difficile pensare che possa essere preso in considerazione anche per le lettere, dal momento che sono scritte con un pennarello, e che di certo la pressione esercitata sul foglio con un pennarello non sarà la stessa esercitata con una penna).
A tutto questo deve essere aggiunto un elemento: la perizia calligrafica relativa ai murales non è stata effettuata sui murales, dal momento che furono ovviamente rimossi quasi subito, bensì su fotografie.
Ora, benché non sia di per sé vietato effettuare una perizia calligrafica su fotografie o comunque su copie fotostatiche, e benché l’incidenza di questo elemento sulla affidabilità del risultato dipenda anche dalla qualità delle copie in questione (sulla quale non posso esprimermi, non avendo visto né le copie né l’originale), in linea generale è pacifico che una perizia effettuata su copie fotostatiche, ancorché di buona qualità, sia in ogni caso meno attendibile: infatti, alcuni dettagli vanno inevitabilmente persi.
Per questa ragione, il fatto che il materiale sottoposto a perizia calligrafica non sia originale è pacificamente considerato un limite.



Nel caso specifico va inoltre aggiunto che effettuare tali perizie su fotografie ha anche un ulteriore effetto collaterale, ossia quello di non poter prendere in considerazione in maniera adeguata il movimento che l’imputato avrebbe dovuto eseguire per tracciare le lettere: un problema non certo di poco conto, vista anche l’altezza dei murales, sulla quale ho già avuto modo di scrivere.

Quanto visto, tuttavia, non sembra essere l’unico limite evidenziabile nel caso in questione. Infatti, un ulteriore limite è rappresentato dai campioni di scrittura, certamente riconducibili agli imputati, oggetto di comparazione con gli scritti di Erostrato: tali campioni dovrebbero essere della stessa tipologia di quelli contestati.


Nel caso in questione, evidentemente, non lo sono: i graffiti o le scritte in pennarello realizzati da Erostrato con grafia artefatta difficilmente potrebbero infatti considerarsi appartenenti alla stessa tipologia dei campioni di scritti degli imputati presi in esame.
Anche in questo caso, il mio intento non è quello di sostenere che la comparazione nel caso di specie sia impossibile, bensì è quello di mostrare che, se già di norma una comparazione tra documenti non può essere in grado di restituire le medesime certezze offerte da altre scienze forensi, lo è ancor meno in un caso in cui vi sono degli evidenti limiti oggettivi alla comparazione.

In conclusione, vorrei fare un cenno a un ulteriore elemento sul quale non ho potuto fare a meno di interrogarmi.
Mi riferisco ad una frase della consulente d’ufficio Nives Andreani, riportata da Il Gazzettino in un articolo del 2 dicembre 2021, che riporto testualmente: “(…) si tratta in ogni caso di una certezza tecnica, non assoluta. A livello scientifico non ci sono probabilità in termini quantitativi ma qualitativi in base alle evidenze riscontrate.”
Ora, io non so se la frase in questione sia stata davvero pronunciata in questo modo esatto o se, sia pure virgolettata e attribuita alla Dott.ssa Andreani nell’articolo del Gazzettino, sia frutto di una rielaborazione o perfino di una incomprensione del giornalista.
Se però fossero state davvero pronunciate queste parole, non posso che trovarle significative: infatti, parlare di certezza “non quantitativa”, oltre a costituire a mio avviso un ossimoro, mi sembra una dichiarazione confessoria del fatto che le perizie in questione non siano adeguate agli standard di certezza richiesti dai criteri Daubert.
Cos’è, infatti, una certezza non ancorabile a un rigoroso parametro quantitativo se non un lasciapassare per il più sfrenato e arbitrario intuizionismo giudiziale?
Ed è con questa domanda che, per il momento, vorrei chiudere questa serie di prime osservazioni in merito alle perizie calligrafiche, in attesa di poter scrivere qualcosa di più. La domanda, d’altronde, esprime un dubbio- ed è di dubbi, non già di certezze (quantitative o qualitative) che questa vicenda giudiziaria è costellata.

Se qualcuno mi chiedesse perché ho scritto queste pagine, con ogni probabilità non saprei dare una risposta certa.
Per quanto ami scrivere, non posso affermare di aver scritto queste pagine “volentieri”: non certo perché scriverle sia stato un peso, ma perché avrei scritto volentieri solo se avessi potuto raccontarvi di una sentenza di assoluzione.
Forse potrei dire di aver considerato doveroso scrivere, in quanto la vicenda mi ha colpita profondamente, e in quanto ho sempre pensato che esistano dei limiti oltrepassati i quali, semplicemente, non si può non prendere posizione.
Ancora, forse, potrei dire che tanti e troppi ricordi di celebri e terribili errori del passato mi sono sembrati sin dall’inizio riecheggiare in questa storia: non a caso, ho voluto aprire la prima parte dell’articolo con una dedica al Chevalier de La Barre.
O forse, meglio, potrei dire di aver scelto di scrivere nella speranza contribuire, nel mio piccolo, a offrire un antidoto, perché scrivere e leggere significa sempre, in qualche modo, mantenere viva la creatività.
E come scrisse Jacques Vergès (e come d’altro canto mostrato dall’astio e dal sospetto che hanno finito per circondare indebitamente il manoscritto del Sig. Nemesio), “gli errori giudiziari sono storie immaginarie nate dal cervello di individui senza immaginazione”.


Note:
1) Sulle affermazioni di Feuerbach in merito ad accuse vaghe e processi per stregoneria, cfr. G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè.

2) Il recente caso nel quale i giudici d’appello, assolvendo l’imputata, hanno “bacchettato” il tribunale di primo grado (https://www.ildubbio.news/2022/05/06/altro-che-infermiera-killer-fausta-bonino-travolta-da-un-teorema-destituito-di-fondamento/?fbclid=IwAR0F2DOg6joXkx8WG9CLxVqBmZHIQKyQSItTe8f6PxGTT8f9qeVmF9RMl9I), al quale si fa riferimento è quello relativo alla Sig.ra Fausta Bonino, un caso sul quale scrivemmo anche su Colonna Infame.

3) Sulle idee gay-friendly nel Satanismo razionalista: The Satanic Scriptures, Peter H. Gilmore, capitolo “Founding Family: “morality” versus same-sex marriage”, pp. 128 ss.

4) G. Manca, Rapporto di Causalità, in Trattato Breve di Diritto Penale, diretto da G. Cocco e E.M. Ambrosetti, Il reato

5) G. Manca, ibidem

Il caso Erostrato: l’insostenibile pesantezza dei processi indiziari (prima parte)

Al Chevalier de La Barre              
A tutte le vittime del bigottismo              
A tutte le vittime di errori giudiziari        


Articolo scritto a quattro mani da Alessandra e Laura

A volte ritornano: ma perché?

Chi segue o ha seguito Colonna Infame in passato sa che questo blog nacque in un momento ben preciso, in cui vi era una particolare pressione mediatica in relazione a uno specifico caso giudiziario. E, in un certo qual modo, questo blog nacque proprio dal timore che tale forma di accanimento mediatico potesse tradursi in una indebita influenza sull’animus del giudicante, compromettendo un lucido accertamento dei fatti.

Nel corso degli anni, sono state talvolta fatte delle eccezioni, ospitando articoli su vicende giudiziarie completamente diverse o su tematiche di più ampio respiro, come ad esempio i processi indiziari o la cosiddetta prova scientifica.
Stavolta, ho deciso di fare un’eccezione ulteriore, per affrontare un caso giudiziario per certi versi molto distante da quelli usualmente affrontati in queste pagine. In questo caso, infatti, non parlerò di un delitto di sangue.
A ben vedere, ma sul punto avrò modo di tornare in seguito, si tratta di un caso che a mio avviso non sarebbe neppure dovuto approdare sugli organi di stampa nazionali (cosa che invece è puntualmente accaduta), trattandosi di una vicenda nella quale, fortunatamente e passatemi l’espressione informale, “non si è fatto male nessuno”.
Mi sembra opportuno, dunque, spiegare ai lettori per quale ragione questo caso così “anomalo” rispetto a quelli usualmente trattati in queste pagine abbia attirato la mia attenzione.

Non ho mai seguito la cronaca giudiziaria perché incuriosita dall’efferatezza del reato: quella, in realtà, è l’ultima cosa che prendo in considerazione.
Non mi incuriosisce, perché ho accumulato negli anni un certo bagaglio culturale e di vissuto rispetto alle efferatezze di cui è capace il genere umano, e conseguentemente, proprio a causa della lunga esposizione alla violenza, alla conoscenza diretta di fatti e circostanze specifiche, quasi nulla riesce ad impressionarmi: chiamatela pure deformazione professionale, mista forse ad un certo pelo sullo stomaco.    
Questa, naturalmente, è una caratteristica che varia da persona a persona, ed è influenzata dalla formazione e dalle esperienze professionali, ma mi mette nella condizione di riuscire ad analizzare gli eventi delittuosi in maniera più oggettiva, avendo sviluppato un meccanismo di difesa tale da riuscire in qualche modo a “tenere a bada” momentaneamente la naturale empatia per le vittime a unico beneficio di un’analisi che, in quanto distaccata dai sentimenti, cerchi di muovere sul piano della razionalità.
Unica eccezione, a causa di una esacerbata sensibilità personale in merito, la faccio sugli animali, poiché qualsiasi azione, anche non particolarmente grave, compiuta contro di loro, mi provoca un malessere fisico tale da rendere impossibile l’accostarmi ad un caso di cronaca che comprenda episodi di questo tipo.     
Per il resto, e sia pure facendo appello a tutta la mia forza di volontà, nel tempo ho in qualche modo dovuto imparare a mantenermi lucida perfino dinnanzi a casi riguardanti minori: non perché sia un’aliena cattiva ma perché, molto più banalmente, ho maturato la consapevolezza che soprattutto nel caso di minori, quanto più si lascia spazio al lato emotivo più ci si fa prendere dal panico e si corre il rischio di commettere enormi errori di valutazione.           
       
I casi di cronaca mi interessano dal punto di vista investigativo in primis, seguito ovviamente da quello giuridico, nel senso che la mia attenzione viene catturata dallo svolgimento delle indagini, o meglio, come mi piace dire tra me e me, dalla piega che prendono le indagini, e quest’ultimo è un punto da tenere bene a mente, perché è ciò che può fare la differenza tra la cattura del colpevole e la condanna di un innocente.
In subordine, dei casi di cronaca mi interessa il lato antropologico-sociale, ossia, per dirla in termini più semplici, monitorare l’andamento delle opinioni, cosa al giorno d’oggi resa facile dai social che consentono a migliaia di signor nessuno, senza nome e senza volto, di sfogare le proprie frustrazioni in rete con facili giudizi forcaioli nemmeno corroborati da motivazioni valide – ammesso che esistano motivazioni tali da giustificare tanto veleno diffuso.      
Le opinioni che su base suggestiva prendono più largamente piede (e si noti la similitudine dei commenti da Aosta a Pantelleria, senza differenza alcuna tra classi sociali e livello di istruzione) mi interessano perché sono loro, la cui unica forza è il numero, che definiscono purtroppo, ahimè e Shiva aiutami, l’andamento di numerosi processi all’italiana, dove la folla reclama la sua oncia di carne, la magistratura ha il fiato sul collo, le suggestioni prendono forma, le fantasie diventano realtà, collegamenti impossibili diventano probabili, la follia popolare prende il sopravvento sul buon senso, e si additano sempre gli “ultimi”, quelli che non difenderebbe nessuno, gli sprovveduti di turno, quelli che su questo blog abbiamo spesso chiamato “gli sprotetti”, e così si tessono gli abiti del mostro.     

Altro aspetto da tenere fortemente in considerazione, e al cui pensiero trasalisco perché, purtroppo, ingenera in me sempre più sfiducia nel futuro, è che in un’epoca che di sé vuole lasciar passare un’idea di millantato ultraliberalismo e superamento dei preconcetti si continui a cadere sempre negli stessi errori “culturali”, che continuano ad essere sin troppo spesso facili pietre d’inciampo, sicché può capitare ed effettivamente capita che, mentre sempre più si diffondono visioni del mondo ispirate al più estremo scientismo, inteso come superamento di vecchi dogmi, d’altra parte si continui in alcuni contesti ad usare metri di giudizio condizionati dalle solite immortali paure popolari legate a doppio filo al mondo religioso.
Non so se orientare indagini o collegare semplici deduzioni a questo genere di tematiche sia un fatto legato a scarsa informazione, o se semplicemente la forma mentis collettiva abbia generato nel tempo questo golem contro il quale ho notato schiantarsi e naufragare parecchie inchieste.
Ora, io non voglio risultare offensiva per chiunque abbia un credo, qualsiasi esso sia, perché rispetto tantissimo il fatto di avere un “credo”: mi spaventa, però, il fatto che religioni e superstizioni possano entrare nei luoghi in cui si svolgono le indagini, tra l’altro in modo silente, tanto che un osservatore poco attento nemmeno riuscirebbe a sospettare che alcune vicende giudiziarie possano, per quanto in buona fede, esserne inficiate.               
Il caso che mi ha riportata qui dopo anni di assenza mi ha letteralmente folgorata: per questo, ci siamo riunite e vorremmo condividere con voi tutte le nostre perplessità.

Stavolta, non partirò dal Manzoni, alla cui opera questo blog deve il nome, ma in virtù di “corsi e ricorsi storici”, mi sia concesso prendere le mosse da una vicenda che, sia pure incidentalmente, fu oggetto di una missiva che giunse a suo nonno, Cesare Beccaria.           
Ci sono delle vicende che ci colpiscono così profondamente da non poter più essere dimenticate.
Non sono mai riuscita a dimenticare, ad esempio, una vicenda raccontata dal mio professore di diritto penale durante una delle prime lezioni, citata in quanto emblematica del cattivo diritto e processo penale. Mi riferisco alla storia del Chevalier de La Barre, un giovane aristocratico francese condannato a morte per blasfemia nel 1766.  

Statua in memoria del Chevalier de La Barre a Montmartre, Parigi

   

Nel 1765, nella cittadina francese di Abbeville, un crocifisso venne vandalizzato, distrutto a colpi di spada. Determinare l’autore di tale gesto non era affatto semplice: nessuno lo aveva visto. Ad un certo punto, però, i sospetti finirono per concentrarsi sul Chevalier de La Barre e su alcuni suoi amici.
Sebbene non vi fossero effettive prove a suo carico e nessuno lo avesse visto commettere l’atto vandalico, infatti, un testimone disse di aver sentito de La Barre pronunciare frasi blasfeme, e qualcun altro riferì di aver notato che, al passaggio di una processione, tanto lui quanto alcuni suoi amici non si erano tolti il cappello in segno di saluto e reverenza.         
Le “prove” raccolte a carico del giovane furono minime e molto contraddittorie. Tuttavia, perquisendo l’alloggio di de La Barre, si fece una scoperta: venne infatti rinvenuta una copia del Dizionario Filosofico di Voltaire, all’epoca pubblicato in forma anonima, e il ritrovamento di questo libro, decisamente empio secondo il costume dell’epoca, ebbe l’effetto di corroborare i sospetti a suo carico.        
Qualche tempo dopo, Voltaire scrisse una lettera a Beccaria per raccontargli la vicenda, illustrando quanto fosse caduta in basso la giustizia francese.         

Vi chiederete perché abbia scelto di partire da questa vicenda, apparentemente lontana nello spazio e nel tempo.
In questo articolo, mi sono ripromessa di evitare eccessi, in quanto non è mio scopo quello di condurre una polemica sterile ma, al contrario, il mio intento è quello di incentivare una riflessione lucida e critica su un caso giudiziario del tempo attuale. Il richiamo alla vicenda di de La Barre è dunque un monito, che a ben vedere rivolgo anche -e forse soprattutto- a me stessa, nella solida convinzione che esistano principi fondamentali non negoziabili e che sia non solo un diritto, ma anche un dovere di chiunque li abbia a cuore, evidenziare quelle semplificazioni e quei luoghi comuni che, sia pure inconsapevolmente, potrebbero allontanare da un lucido accertamento dei fatti. 

Erostrato e il tempio in fiamme             

Da tempo, la psicologia indaga i meccanismi in forza dei quali ricordiamo gli eventi negativi con maggiore facilità rispetto a quelli positivi o neutri. 
Probabilmente, si tratta di un sistema di difesa utile alla sopravvivenza. È il motivo per cui molti di noi sono in grado di ricordare con esattezza cosa facevano l’11 settembre del 2001 e, se vogliamo, potrebbe essere il motivo per cui la Colonna Infame di manzoniana memoria è ancora oggi ricordata: anche un grave errore giudiziario, d’altronde, è un evento negativo che, quando emerge, è destinato a pesare sulla coscienza collettiva; ma è anche il motivo per cui, nonostante la condanna alla damnatio memoriae, è giunto fino a noi il nome del pastore greco che, per eternare il proprio nome, diede fuoco al tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo antico: Erostrato.   

Conoscere questo nome, e sul punto esprimo un’idea sensibilmente diversa da quella che sembra emergere nel libro del giornalista Gigi Sosso “Erostrato: caramelle (con gli spilli) da uno sconosciuto”, non deve essere poi un’impresa così titanica, specie in un’epoca in cui la quasi totalità delle persone ha accesso a Internet, e letteralmente chiunque può senza troppa fatica mettere insieme una serie di riferimenti apparentemente dotti che tuttavia, ad una più attenta analisi, si rivelano fumo negli occhi, nulla più che una sorta di artifizio per attirare l’attenzione.  
Non deve dunque sorprendere così tanto che la firma di Erostrato, tra il 2017 e il 2018, abbia potuto essere utilizzata in una serie di atti illeciti (e relative rivendicazioni) che hanno colpito Cesiomaggiore e, in misura minore, altri piccoli centri nella medesima zona del Bellunese.

Incendi, lettere e murales contenenti minacce, affermazioni diffamatorie nonché contenuti di stampo omofobo e neonazista, lettere recapitate in municipio e alle scuole medie contenenti polvere bianca, poi rivelatasi innocua, un pacchetto di caramelle trafitte da spilli nel cortile di una scuola materna: sono questi, sostanzialmente, gli atti commessi e/o rivendicati da Erostrato, che riporto qui sommariamente solo al fine di ricordare ai lettori la vicenda, della quale avranno certamente sentito parlare in quanto nel 2018 fu oggetto di notevole attenzione mediatica.   
Attenzione mediatica che, come ho già avuto modo di sottolineare all’inizio di questo articolo, a mio parere è stata eccessiva e, per certi versi, poco opportuna.   
 
Per amor di verità, va detto che i primi atti di Erostrato, i quali sembravano perlopiù essere dettati da rabbia nei confronti dell’allora sindaco di Cesiomaggiore Carlo Zanella, a seguito del fraintendimento di alcune sue dichiarazioni, passarono quasi in sordina e, in ogni caso, per un pezzo le vicende relative al mitomane non varcarono i confini delle cronache locali.  
A far approdare la vicenda su tutti i media nazionali fu il ritrovamento di un pacchetto di caramelle trafitte da spilli, accompagnato da una delle usuali lettere di Erostrato, nel cortile della scuola materna di Cergnai, il 22 gennaio del 2018.                
Un fatto indubbiamente grave vista la collocazione in un luogo frequentato da bambini, anche se con ogni probabilità teso più a spaventare e a costituire una minaccia “visiva” che a ledere effettivamente qualcuno (gli spilli erano ben visibili dall’esterno) ma che, se vogliamo, avrebbe potuto continuare ad essere trattato a livello locale.          
Con questa considerazione, non intendo certamente sminuire il fatto, bensì intendo richiamare l’attenzione su un elemento da sempre al centro delle riflessioni portate avanti in questo blog, ossia la portata deteriore dell’informazione sensazionalistica sulle vicende di cronaca giudiziaria.

Con ciò non si vuole, naturalmente, mettere in discussione il diritto di cronaca: se ne vogliono contestare, semmai, le degenerazioni, che puntualmente si verificano nel momento in cui la cronaca smette di essere “cronaca” e si riduce a megafono delle Procure o, in alcuni casi, si spinge perfino oltre questo ruolo già poco lusinghiero.
Da un lato, infatti, il sensazionalismo è dannoso in quanto, facendo leva sulla impressione piuttosto che sui fatti, suggerisce surrettiziamente scenari ancora più gravi di quelli effettivi (nel caso di specie, ad esempio, sono parecchie le persone persuase che gli spilli fossero spezzati e nascosti all’interno delle caramelle e non interi e ben visibili all’esterno).
Qualcosa di cui, francamente, ritengo non ci sia alcun bisogno: la realtà delle cronache, d’altronde, riesce ad essere abbastanza brutta di suo, sicché non si vede alcuna giustificazione al suo ulteriore peggioramento.
Fin qui, tuttavia, ci si fermerebbe ad una semplice “inopportunità”.
Dall’altro lato, certe forme di sensazionalismo mediatico divengono non solo inopportune ma anche nettamente inaccettabili nel momento in cui si traducono in un accanimento ai danni di indagati e imputati, solertemente additati al pubblico odio.
Infatti tale atteggiamento, oltre ad avere effetti devastanti sulla vita di persone che, anche laddove successivamente assolte, dovranno convivere non solo con le inevitabili cicatrici lasciate dall’essere state sottoposte a un procedimento penale, ma anche con quelle -molto spesso evitabili- lasciate dalla gogna mediatica, porta con sé il rischio di sfociare in una forma subdola di pressione e condizionamento dei giudici.

Ho voluto aprire questa piccola parentesi relativa all’atteggiamento spesso poco equilibrato dei mass-media in quanto anche nel caso Erostrato si è arrivati, ad un certo punto, a degli indagati, attualmente imputati (e recentemente condannati in primo grado di giudizio dal Tribunale di Belluno), che di certo non sono andati esenti dalla ormai sin troppo usuale gogna mediatica.
Infatti, se all’indomani dell’episodio relativo al sacchetto di caramelle non emergevano ancora troppe certezze, anche se segnalo l’idea, da un articolo di quel periodo, che vedeva in Erostrato “uno spilungone” in quanto alcuni dei murales erano ad un’altezza consistente (fonte: https://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/cronaca/18_febbraio_01/erostrato-c-sospettole-minacce-bambininascoste-le-lettere-0164738c-071d-11e8-b7a9-d5e7585c6d70.shtml), non molto tempo dopo, e in un clima improntato a panico collettivo, si arrivò a due indagati: Nemesio e Samuele Aquini, rispettivamente padre e figlio.

Qualcuno potrebbe forse trovare poco elegante il fatto di fornire la soluzione ad un giallo prima di arrivare alle battute conclusive di un testo.
Tuttavia, uno scrittore del calibro di Edgar Allan Poe poté concedersi questa licenza in suo celebre racconto, La Lettera Rubata, che conosceremo meglio nel seguito dell’articolo. Dunque, in omaggio a Poe, ho pensato di fare la stessa cosa, svelandovi fin da ora la mia posizione, che proverò a spiegarvi e documentarvi meglio nelle prossime pagine.
La mia idea, che intendo esprimere stavolta senza troppi fronzoli o giri di parole, è che i due imputati siano del tutto estranei agli atti commessi da Erostrato.
Ho nutrito questo sospetto sin dalle prime battute dell’indagine, tanto che pensai di scrivere sull’argomento già nell’estate del 2018.
Non lo feci, in quanto all’epoca ritenevo ingenuamente poco plausibile lo stesso rinvio a giudizio degli indagati.
Avendo recentemente appreso della condanna in primo grado, tuttavia, ho deciso di provvedere a mettere in ordine le idee e le informazioni reperite.

So bene che in genere si tende a considerare non solo inelegante, ma perfino poco professionale se non abietto il fatto di criticare indagini o, peggio ancora, sentenze, ancorché non definitive.
Io stessa, in passato, ho preferito concetti, sia pure sacrosanti, quali “garantismo” o “presunzione di innocenza”, rifiutando nella maggior parte dei casi di esprimere un’opinione tranchant sulla colpevolezza o innocenza di chicchessia.
In questo caso, però, alla luce delle argomentazioni elaborate e di una serie di elementi che in questa vicenda giudiziaria -ve lo dico con il cuore in mano- mi turbano e mi preoccupano, riterrei l’uso concetti formali quali “garantismo” e “presunzione di innocenza” nulla più che un comodo paravento per dare un colpo alla botte ed uno al cerchio ed è qualcosa che la mia coscienza, stavolta, non può tollerare.

Il personaggio di Erostrato passò alla Storia per l’incendio del tempio di Artemide, che non poté essere salvato.
Stavolta, il mio timore è quello di veder bruciare (metaforicamente, ma in modo non meno doloroso) il tempio di Themis, la Giustizia: ed è per questo che ho voluto provare a condividere con voi le mie osservazioni.

Indagine su due cittadini al di sotto di ogni sospetto

Andiamo pertanto a conoscere meglio i due “spilungoni” imputati: i Signori Nemesio e Samuele Aquini, alti rispettivamente 1.59 e 1.69 m.: decisamente poco per essere considerati “spilungoni”.
Mi perdonerà dunque il compianto Gian Maria Volonté per il titolo del paragrafo, ma la prima volta in cui sentii parlare della vicenda vidi proprio quest’immagine dei due indagati, oggi imputati, e rimasi così interdetta da non riuscire, ancora oggi, ad evitare di sottolineare questa circostanza.

Quando vidi questa immagine, mostrante i due indagati accanto al luogo in cui era stato realizzato uno dei murales di Erostrato (il muro del cimitero di Cesiomaggiore) non riuscivo infatti a capacitarmi di come fosse possibile ritenere che i due avessero potuto realizzare un murales che raggiungeva, nel suo punto più alto, un’altezza palesemente superiore a quella raggiungibile con la loro statura, anche laddove lo avessero voluto realizzare distendendosi completamente sul muro, cosa che peraltro avrebbe reso pressoché impossibile la realizzazione stessa.
Ritengo non si possa neppure prendere in considerazione la possibilità che un imputato abbia potuto prendere l’altro sulle spalle per consentirgli di realizzare il murale (peraltro lungo circa 40 m!), in quanto il murale viene attribuito a Samuele, ossia il più giovane dei due imputati: l’ipotesi deve di conseguenza essere scartata per ragioni evidenti ictu oculi, dal momento che il giovane ha una stazza senz’altro più imponente di quella di suo padre Nemesio. Si tratta, in sostanza, di un’ipotesi che nessuno potrebbe considerare plausibile.

Ho avuto modo di leggere sul punto che, sebbene inizialmente si pensasse che “Erostrato” dovesse essere uno spilungone, si è successivamente compreso che, in realtà, i murales avrebbero potuto essere realizzati anche da una persona di statura inferiore a quella inizialmente immaginata, in quanto un appuntato di statura simile a quella di Samuele sarebbe “arrivato” al punto più alto.
Ora, io non ho motivo, oggettivamente, di dubitare che sia così, sicché immagino che l’appuntato abbia delle braccia particolarmente lunghe o che, viceversa, Samuele abbia braccia più corte della media: ciò non cambia però quanto si può oggettivamente osservare.
In buona sostanza, non mi sembra particolarmente rilevante il fatto che un appuntato alto 1.70 abbia potuto toccare il punto più alto del murale: mi sembra invece piuttosto rilevante il fatto che, visibilmente, non riesca a toccarlo la persona accusata di averlo realizzato.
Un altro aspetto che deve essere considerato, è il fatto che, visti i contenuti, il murale venne rimosso pressoché subito, cosa che potrebbe aver avuto delle evidenti conseguenze in ordine non solo alla misurazione dell’altezza ma anche al materiale sul quale sono state successivamente effettuate le perizie calligrafiche (intuibilmente, fotografie, con possibili conseguenze sulla qualità del materiale e diminuzione del grado di attendibilità dei risultati): circostanze sulle quali, ad ogni buon conto, avrò modo di soffermarmi in seguito.

Ora, infatti, vorrei fare un cenno alle anomalie relative a un altro dei murales di Erostrato, quello sulla chiesetta di Sant’Agapito, anch’esso attribuito a Samuele Aquini, a dimostrazione ulteriore di quanto, in relazione a questo caso giudiziario, possano ravvisarsi dei punti oscuri, perlopiù non presi in considerazione da chi commenta sulla base di mere impressioni e senza un doveroso approccio critico.
Al fine di darvi anche visivamente un’idea dell’anomalia, inserisco di seguito alcune foto.

Chiesetta di Sant’Agapito
Visuale più ampia dell’area in cui è collocata la chiesetta


In buona sostanza, la chiesetta dista alcuni km dal centro di Cesiomaggiore e ci si arriva passando per una strada decisamente ripida.
Deve essere segnalato, a questo punto, che nessuno dei due imputati ha l’automobile o comunque guida: entrambi, non hanno né la macchina né la patente e il più giovane dei due, Samuele, al quale viene tra l’altro attribuito il murale sulla chiesetta di S. Agapito ha una miopia piuttosto severa.
Questo significa che, oltre a dover fare a piedi la camminata, cosa che di per sé richiederebbe alcune ore e probabilmente un certo allenamento, l’imputato avrebbe dovuto portare a spasso con sé, dall’uscio della propria abitazione fino alla chiesetta, la vernice.
Il tutto in pieno giorno, correndo il rischio di essere scoperto in flagrante da qualche escursionista, giacché non è sostenibile che un percorso di quel tipo possa essere effettuato, a piedi, nottetempo, specie con un serio problema alla vista, dal momento che non sembra di poter osservare impianti di illuminazione, né nei pressi della chiesetta né nella parte asfaltata della salita.



Lo so, qualcuno starà certamente pensando che, in effetti, la statura dei due imputati sembra troppo bassa e che l’idea di un imbrattatore “maratoneta” è bizzarra, ma che “se sono stati condannati in primo grado qualcosa avranno fatto”.
Sul punto, come si suol dire, ho una notizia buona ed una cattiva.
La notizia buona, quantomeno per chi ama leggere, è che quanto detto finora di fatto costituisce uno solo dei tantissimi elementi che non quadrano nell’intera vicenda e che, pertanto, l’articolo è ben lungi dal concludersi.
La notizia cattiva, quantomeno per chi crede nel vecchio adagio “male non fare, paura non avere”, adagio che purtroppo ha la peculiarità di arrecare tantissimi danni al senso critico quando applicato a questioni giudiziarie, è che verità processuale e verità storica non necessariamente coincidono.
Naturalmente, nel caso di specie, la vicenda processuale è ancora lontana da un epilogo, ed è dunque ben possibile che, nei successivi gradi di giudizio si giunga (auspicabilmente) a un ribaltamento della sentenza di primo grado.
Ciò su cui, tuttavia, vorrei spingere a riflettere, è che -paradossalmente, ma non troppo- neppure una sentenza irrevocabile garantisce un corretto accertamento della verità storica.
Meno che mai, può garantirlo una sentenza di primo grado.

Questa precisazione, che trovo perfino sciocca, ho voluto farla in quanto ho avuto modo di leggere, in particolare sui social, una serie di commenti alla vicenda (e alla notizia della sentenza di condanna in primo grado) che ho trovato decisamente disturbanti, ivi inclusi commenti con invocazioni dell’ergastolo o perfino della pena di morte.
E per quanto poco possa aver senso soffermarsi troppo su certi commenti, devo ammettere che mi hanno profondamente colpita, in quanto al di là del fatto che la pena di morte sia di per sé inaccettabile, ho trovato abnorme e preoccupante il fatto che l’opinione pubblica possa essere aizzata, attraverso la spettacolarizzazione mediatica spesso tendenziosa dei casi di cronaca, non solo fino al punto di non contemplare la possibilità che un imputato non sia colpevole, ma addirittura fino al punto di non essere neppure in grado di “calibrare”, sia pure per sommi capi e in termini da profani, una risposta sanzionatoria adeguata: come se, nella “società dello spettacolo”, citando Guy Debord, non vi fosse più alcuna differenza tra le diverse tipologie di reato, e le scorribande di un mitomane, per quanto oggettivamente esecrabili, fossero equiparabili, ad esempio, a una strage.

Possono le parole di un mitomane costituire indizio?

Quanto osservato in conclusione del precedente paragrafo, è motivo di dispiacere e sconcerto anche per un’altra ragione.
Il giornalismo è stato talvolta descritto come “cane da guardia della democrazia”, o perlomeno questo dovrebbe essere in un mondo ideale.
Con il richiamo al ruolo di sorveglianza della “democrazia” da parte del giornalismo, naturalmente, non si intende solo un’attenzione rivolta alla forma di Stato in senso stretto, bensì anche a tutto ciò che dovrebbe farvi da contorno.
In un mondo ideale, ad esempio, dinnanzi ad un caso giudiziario nel quale possono ravvisarsi profili poco chiari, compito di un giornalismo che voglia ambire al ruolo di “cane da guardia della democrazia” dovrebbe essere quello di soffermarsi sulle incongruenze. Essere “cani da guardia della democrazia”, infatti, dovrebbe significare anzitutto rifiutarsi di suggellare, in casi di “conflitto”, la prevalenza del potere di coercizione statuale sui diritti fondamentali dell’individuo, fra i quali si annovera il diritto alla difesa: l’atteggiamento opposto, di fatto, non può che tradire un modus operandi tendenzialmente autocratico.
È evidente, tuttavia, che non viviamo in un mondo ideale, ma in un mondo reale con il quale, volenti o nolenti, ci troviamo a dover fare i conti.

Per giungere gradualmente al tema di questo paragrafo, inizio col dire che, in ambito giudiziario, la prova ha un valore intrinseco oggettivo, ed in quanto tale è idonea a dimostrare in maniera diretta la colpevolezza di un imputato, mentre gli indizi, che non a caso devono essere molteplici, hanno l’onere di dover essere gravi, precisi e concordanti. Nel caso in esame, dando un attento sguardo ai vari elementi squisitamente indiziari o forse, come vedremo meglio in questo paragrafo e nel prossimo, meno che indiziari, non trovo nulla che collimi col profilo degli imputati e cercherò dunque di mostrare, come con una lente d’ingrandimento immaginaria, qualche macroscopica incongruenza.

Quando mi lamento dello stato comatoso-degenerativo che sta portando alla morte della lingua italiana, non mi riferisco solo all’arbitrario aborto dell’articolo determinativo femminile davanti alla parola “settimana” che fa tanta tendenza: quello sarebbe il minimo.
Il cattivo uso della lingua scritta e parlata è un vero e proprio cancro, perché può portare a conseguenze irreversibili e dannose.
Le parole hanno un valore importantissimo, vanno analizzate con attenzione, scandagliate se necessario, osservate dal punto di vista etimologico e da quello culturale.
Anche il più colto di noi può cadere nel tranello del mal interpretare un termine, e questo errore può generare delle convinzioni errate, magari formulate in buona fede, ma pur sempre errate.
Adesso vi parlerò di un termine che conosciamo tutti, e magari vi stupirete rendendovi conto di averlo usato, ascoltato, scritto, pensato centinaia di volte e solo in una bassissima percentuale di queste nel modo corretto, perché rientra in quella categoria di parole che io definisco, nel mio mondo, “suggestive”: mi riferisco a quelle parole un po’ evanescenti, che di per sé definirebbero un concetto preciso ma che purtroppo vengono viste, quasi romanticamente, come termini acchiappatutto, il qual fatto le rende tendenzialmente pericolose, in quanto capaci di creare suggestioni che a loro volta generano mostri. Sia in questo paragrafo, sia nel prossimo, sia nella seconda parte di questo articolo, avremo modo di vedere come, nel caso in esame, questo fenomeno sembri essersi verificato più volte.

Ma torniamo a noi, non vi rivelerò subito la parola, sarebbe troppo facile: essa si materializzerà nella vostra testa come una scritta al neon, piuttosto, io mi limiterò ad accompagnarvi in un viaggio alla scoperta di un argomento molto vasto, che sinterizzerò a vostro beneficio.
Va premesso, ovviamente, che non sempre un incendio si propaga in modo naturale: in alcuni casi la responsabilità è dell’uomo, per negligenza o per dolo.
In questi casi, le possibilità di individuare il responsabile sono generalmente basse, tanto che spesso questo genere di eventi/reati resta impunito.
È arrivata la scritta al neon con la parolina?
Bene. Chiunque appicchi un incendio, in Italiano -rullo di tamburi- si definisce incendiario, ed esistono svariate categorie di incendiari.
L’incendiario per vandalismo che, solitamente adolescente, lo fa per noia o per divertimento, per poi abbandonare subito la scena; l’incendiario per altro crimine che utilizza il fuoco per coprire le sue tracce; l’incendiario per profitto; l’incendiario per vendetta; l’incendiario per delirio o allucinazioni dovute ad abuso di farmaci, alcool e droga o a patologie psichiatriche in forza delle quali il soggetto si persuade di aver ricevuto l’ordine da una voce esterna o interna; l’incendiario per terrorismo.
Potrei aggiungere ulteriori categorie all’elenco ma, nel caso di specie, è sufficiente sottolineare che in nessuno dei casi citati sopra è corretto adoperare la parola italiana piromane.

Il piromane, ovvero l’incendiario per eccitazione, è un soggetto che ricerca gratificazione ed eccitamento, attenzione e riconoscimento sociale.
È ossessionato dal fuoco, dal brillio delle fiamme, dal crepitio del fuoco, si trattiene ad ammirare la propria opera giungendo perfino a mescolarsi alla folla di curiosi, magari adoperandosi per aiutare i soccorritori.
Adora tutto ciò che concerne il fuoco, perfino ciò che gli è connesso come gli strumenti per accenderlo, propagarlo o spegnerlo.
Agisce da solo, ed è spinto da un bisogno irrefrenabile che deve appagare per ottenere piacere ed eccitazione emotiva: solo così la tensione si appaga e prova sollievo.
Si tratta, in effetti, dello stesso elemento scatenante che porta all’autolesionismo e alle dipendenze: trovare sollievo nel tagliarsi o trovarlo nell’appiccare incendi hanno la stessa matrice, cioè trovare sollievo da qualcosa che altrimenti diverrebbe insopportabile. Possiamo facilmente intuire che il piromane non si fermerà mai se non viene fermato e che, durante la sua “carriera”, generalmente non si macchierà di reati d’indole diversa.

Questo preambolo per dire che l’uso disinvolto ed improprio che nella vicenda relativa a Erostrato è stato fatto, spesso a sproposito, della parola piromane, ha contribuito a rendere ulteriormente torbide le acque, facendo perdere di vista una serie di elementi che considero, invece, di notevole importanza.
La conseguenza, nel caso di specie, sembra essere stata quella di glissare, forse con eccessiva facilità, su una serie di domande rimaste senza risposta. Basti pensare che non è dato individuare un movente chiaro e persuasivo.

Va inoltre detto che il numero di incendi attribuiti ad Erostrato si è, nel corso del tempo e in forza di motivazioni che considero quantomeno discutibili, ridotto.
Senza scendere nel dettaglio degli eventi oltre il necessario, è qui sufficiente segnalare che ai due imputati vengono attribuiti due incendi, entrambi avvenuti a Cesiomaggiore in località Morzanch, a circa 1.5 km dalla loro abitazione, il primo nell’estate del 2017, il secondo il 27 novembre 2017.
Incendi che gli imputati avrebbero appiccato recandosi a piedi nel luogo del fatto, peraltro in pieno giorno. Tali incendi vengono effettivamente rivendicati da Erostrato.
Nell’immagine seguente, tratta da Telebelluno, una rivendicazione dell’incendio estivo in località Morzanch:



A questo punto della trattazione, è necessario aggiungere una nota dolente che, tuttavia, risulta piuttosto utile per comprendere come e su quali basi si arrivi agli Aquini.
Deve essere precisato, anzitutto, che nel corso del tempo ci sono state diverse persone “attenzionate”, per un totale, secondo quanto emerso da vari organi di stampa, di circa una decina.
Il nome degli Aquini, con ogni probabilità, giunge per la prima volta all’attenzione degli inquirenti a fine novembre 2017.
Infatti, in base a ciò che si riesce a ricostruire dalle fonti dell’epoca, i due uomini erano/sono soliti uscire quotidianamente per una passeggiata.
Conseguentemente, escono anche in data 27 novembre, giorno in cui scoppia il secondo incendio rivendicato da Erostrato.
Durante la camminata, incontrano una signora che passeggia con il cane e scambiano qualche parola con la signora stessa, nonché con un’altra donna parimenti di passaggio.
Deve essere precisato che il luogo in cui avviene questo “incontro” fortuito non è vicino al luogo in cui scoppia l’incendio.
Ad un certo punto, la signora con il cane, sentendo odore di fumo, con ogni probabilità non riconducibile all’incendio di Morzanch in considerazione della distanza, si impressiona a causa del timore legato a Erostrato (timore, peraltro, del tutto comprensibile in considerazione dell’impatto emotivo che possono avere, in zone generalmente molto tranquille, certi atti che turbano l’usuale serenità).
Sicché, venendo poi a sapere che vi è stato un incendio a Morzanch si reca presumibilmente dai Carabinieri a raccontare l’accaduto.
Si noti, peraltro, che la signora non ha in realtà assistito a nulla di oggettivamente rilevante, anche se, come anzidetto, è comprensibile e non sorprende che nel clima di panico scatenato dagli atti di Erostrato possa essersi impressionata o aver ritenuto doveroso riferire all’autorità: in effetti, ha soltanto visto gli Aquini intenti a fare la loro usuale camminata, in un luogo diverso da quello dell’incendio ed evidentemente neanche così tanto fuori mano (dal momento che vi erano contemporaneamente quattro persone, lei inclusa).
Aggiunto doverosamente questo ulteriore tassello, possiamo ora tornare agli incendi, e non solo ai due incendi di Morzanch.

Infatti, ed è qui che dovrebbe suonare il primo campanello d’allarme, Erostrato non si limita a rivendicare i due incendi di Morzanch ma, contestualmente alla rivendicazione dell’incendio del 27 novembre, in una lettera indirizzata al Corriere delle Alpi, rivendica un ulteriore incendio, avvenuto il 28 novembre in un magazzino in località Norcen (Pedavena).
Nell’immagine seguente, potete vedere la lettera contenente la rivendicazione:


Ammettiamo, per il momento, che Erostrato rivendichi atti effettivamente compiuti.
Ci si dovrebbe chiedere, a questo punto, per quale ragione non addebitare ai due imputati anche il rogo del magazzino di Norcen.
La risposta suona spiacevolmente tautologica: il rogo del magazzino di Norcen non viene addebitato agli imputati (e si ritiene, dunque, che gli stessi abbiano rivendicato un atto non commesso) in quanto situato a 16 km dal luogo in cui gli imputati risiedono.
Dunque, non avendo nessuno dei due la patente, l’automobile, o altro mezzo di locomozione, ed essendo scoppiato tale incendio, perlomeno stando agli articoli di cronaca reperibili, in piena notte, i due non potrebbero esserne responsabili.
Sia chiaro: che Nemesio e Samuele Aquini non siano responsabili dell’incendio del magazzino di Norcen è di palmare evidenza.
Il problema, tuttavia, è un altro, ed è dato dal fatto che non è tollerabile che alle rivendicazioni del mitomane si presti orecchio selettivamente, ossia soltanto laddove tali rivendicazioni siano almeno in astratto compatibili con i due imputati, salvo considerarle mere millanterie laddove, invece, mandino a gambe all’aria il teorema accusatorio.

Questa argomentazione appare dunque del tutto tautologica in quanto muove dall’idea che gli Aquini siano Erostrato, laddove questo dovrebbe essere, invece, il thema decidendum del processo, e non certo il suo punto di partenza.
Qualche considerazione ulteriore deve essere necessariamente svolta in merito agli inneschi ai quali fa riferimento Erostrato nella lettera riportata poc’anzi.
Erostrato scrive che gli inneschi c’erano, e prosegue elencandoli, in evidente polemica con la notizia, circolata sui media, secondo la quale non erano stati rinvenuti inneschi né acceleranti, né nell’incendio di Morzanch né in quello di Norcen.
Di conseguenza, appare piuttosto evidente come Erostrato, d’altronde secondo i moduli tipici dei mitomani, non esiti ad affermare il falso (si noti, peraltro, che laddove affermasse il vero, sarebbe letteralmente incredibile che due persone a piedi possano attraversare il paese in pieno giorno portando con sé taniche di combustibili).

Quanto detto finora, in ogni caso, pone di fronte ad un dubbio ulteriore.
Deve essere infatti precisato, in proposito, che per quanto concerne gli incendi di Morzanch, non esiste alcuna effettiva prova della loro matrice dolosa, in quanto non se ne conosce l’origine.
L’unico “elemento” a deporre per la loro matrice dolosa sono proprio le deliranti rivendicazioni di Erostrato, le quali peraltro, come abbiamo visto, descrivono uno scenario (la presenza di inneschi) che non ha trovato la benché minima conferma empirica.

Ho intitolato il paragrafo con una domanda, e con una domanda ulteriore vorrei concluderlo: ma se davvero, gli Aquini fossero Erostrato, avessero appiccato gli incendi a Morzanch (o anche se semplicemente avessero voluto rivendicare un incendio scoppiato per altra causa) e, il giorno dell’incendio, fossero stati visti in una situazione compromettente da una signora, a vostro parere e utilizzando l’ordinario buon senso, avrebbero rivendicato l’incendio?
Spero che l’unica possibile risposta a questo interrogativo, così chiara da non meritare di essere esplicitata, vi aiuti a comprendere perché ho ritenuto doveroso cimentarmi in questo lungo articolo.
Il timore che nutro per il tempio di Themis, relativo alle implicazioni giuridiche degli elementi affrontati in questo paragrafo e non solo, saprò invece spiegarvelo meglio nella seconda parte dell’articolo.

Gli Adelphi della Suggestione

Nel precedente paragrafo, ho avuto modo di segnalare come, con ogni probabilità, il nome degli Aquini sia giunto per la prima volta all’attenzione degli inquirenti.
Sembra però abbastanza plausibile che gli stessi inquirenti, almeno in un primo momento, non abbiano dato un eccessivo peso alle dichiarazioni della testimone citata, tanto che solo a febbraio arriva la “svolta” e gli Aquini diventano ufficialmente indagati.
Ma cosa accade nel frattempo per indurre gli inquirenti a dare maggiore importanza alla “pista” relativa agli Aquini?
La questione sembra potersi riassumere in modo relativamente semplice.
I mass media nazionali cominciano ad occuparsi del caso Erostrato e, in particolare, nella trasmissione “Quarto Grado” vengono mostrate alcune delle deliranti lettere di Erostrato, tra le quali quella riportata nell’immagine seguente, indirizzata al Dott. Sosso, giornalista del Corriere delle Alpi.



La puntata della trasmissione viene vista, tra gli altri, da un poliziotto di Milano, Edoardo Riva, accanito lettore e con un’ottima memoria, tanto da essere stato campione del quiz televisivo “Caduta Libera”.



Ad ogni buon conto, Edoardo Riva, vedendo la lettera di Erostrato riportata poc’anzi, ha un’illuminazione, in quanto osserva che nella lettera compare la parola “Katechon”: una parola a suo parere (vedremo poi quanto fondato) poco comune ma che compare in un libro, sempre a suo parere, poco noto: Gli Adelphi della Dissoluzione di Maurizio Blondet. Conseguentemente, dopo aver constatato la presenza del citato libro di Blondet nella biblioteca di Cesiomaggiore, segnala la circostanza agli inquirenti in modo tale che possano verificare chi lo abbia preso in prestito.
Gli inquirenti, a quel punto, verificano che il libro è stato in passato preso in prestito dal Sig. Nemesio Aquini e, di conseguenza, incrociando questo riscontro con la precedente dichiarazione della signora, ritengono che la pista relativa agli Aquini meriti di essere approfondita.
Alla luce del contenuto della lettera in esame, ne approfitto dunque per introdurre un elemento che inizieremo ad affrontare in questo paragrafo ma che sarà anche oggetto di ulteriore e successiva trattazione, ossia il fatto che Erostrato, nelle sue missive, faccia un abbondante uso di citazioni tratte da opere letterarie.
Le citazioni letterarie presenti nelle lettere Erostrato sono, usualmente, esplicite, come avremo modo di vedere.
Solo nel caso degli Adelphi della Dissoluzione non abbiamo alcuna citazione esplicita, ma solo l’idea, suggestiva ma ben poco fondata, che la parola “katechon” possa essere stata tratta, dall’autore delle missive, dal menzionato libro di Blondet.

Va premesso, anzitutto, che il libro “Gli Adelphi della Dissoluzione” non è affatto un libro poco noto.
Certo, al giorno d’oggi è più difficile da reperire, ma quando fu pubblicato, negli anni ’90, ebbe un discreto successo tanto da andare abbastanza rapidamente in ristampa e non mancò di sollevare qualche polemica.

Ad ogni modo, a sembrare argomento capzioso è soprattutto l’idea secondo la quale la parola “Katechon” dovrebbe essere tratta proprio da quel libro.
A ben vedere, la parola Katechon è citata, tra l’altro, in un libro che non può certo definirsi poco noto e che è presente, stando ad alcune statistiche, nell’abitazione di otto famiglie su dieci: la Bibbia.
La parola Katechon, infatti, che deriva dal Greco τὸ κατέχον (“ciò che trattiene”) compare per la prima volta nella Seconda Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi, per indicare la forza frenante che tiene a bada l’avanzata dell’Anticristo: per questa ragione, in virtù del significato e del contesto escatologico in cui compare, tale parola è spesso citata, in particolare, da persone appartenenti a frange millenariste.
Segnalo questa circostanza in quanto, giacché Erostrato comincia ad operare nella seconda metà del 2017, non ho potuto fare a meno di notare la coincidenza cronologica con il diffondersi di alcuni cospirazionismi di stampo millenarista, che hanno effettivamente, e proprio a partire da quell’anno, riportato in auge il concetto di Katechon.

Basti qui segnalare che, prima di risolvermi a scrivere questo articolo, ho provato ad effettuare una semplice ricerca della parola Katechon sulla barra di ricerca di Facebook, ottenendo tantissimi risultati, non solo in termini di post, ma anche di gruppi con migliaia di iscritti.
Risultati parimenti interessanti, in merito a quanto la parola Katechon sia “poco nota”, si ottengono facendo una ricerca su Google, che mostra peraltro un notevole incremento di risultati relativo ad anni recenti.
Ad ogni buon conto, per chiunque desiderasse approfondire il tema del revival di millenarismi cospirazionisti, non posso che suggerire l’ottimo libro di Wu Ming 1 “La Q di Qomplotto”, pubblicato lo scorso anno, nel quale viene peraltro affrontato anche uno degli argomenti che sarà in qualche modo oggetto della seconda parte del nostro articolo in cui, tra le altre cose, ci chiederemo se la vicenda giudiziaria che ha coinvolto gli Aquini possa essere, in maggiore o minor misura, influenzata da un fenomeno, notoriamente e tristemente foriero di errori giudiziari, noto come “satanic panic”.


Ma soffermiamoci, per ora, sulla parola “Katechon”.
Quanto detto finora in merito alla Seconda Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi e ai contesti millenaristi, infatti, non esaurisce affatto gli usi del termine in questione, né i testi in cui la parola compare.
A ben vedere, non si comprende neppure per quale ragione tirare in ballo un libro degli anni ’90 se, in anni ben più recenti, filosofi del calibro di Cacciari e Agamben hanno scritto dei libri di fatto incentrati sul concetto di Katechon.
Tali pubblicazioni, in particolare, risalgono al 2013, e hanno avuto un’ampia eco (tanto da essere citati dalla stampa nazionale, vedasi ad esempio qui: https://www.ilgiornale.it/news/cultura/i-profeti-dellapocalisse-sedotti-nichilismo-918888.html, e da essere stati oggetto di conferenze pubbliche, reperibili perfino su Youtube), anche perché allusivi alla profonda riflessione, filosofica e non, innescata dalle dimissioni di Papa Benedetto XVI.

A questo punto, tuttavia, Edoardo Riva direbbe (rectius, ha effettivamente detto) che gli elementi che collegano le lettere di Erostrato al libro “Gli Adelphi della Dissoluzione” in realtà sono due: il primo, lo abbiamo visto, è la parola Katechon; il secondo è un elemento citato a pagina 63 degli Adelphi della Dissoluzione, in cui si fa riferimento a una “lettera” scritta in inchiostro rosso.
Volendo capire meglio la questione, mi sono presa la briga di leggere “Gli Adelphi della Dissoluzione” al fine di verificare meglio la portata di questo secondo elemento. Successivamente, ho cercato di capire se, ammesso e non concesso che tra le lettere di Erostrato e il libro di Blondet si possano ravvisare due punti in comune, tale elemento possa ritenersi indiziante nel senso proprio del termine, e dunque presenti caratteri di gravità, precisione e concordanza.

La mia risposta, ve lo anticipo prima di accingermi a condividere con voi le ragioni, è un sereno ma netto “no”.

Vediamo, anzitutto, le pagine 62 e 63 del libro di Blondet:



Come potete vedere, la menzione della “Lettera Rossa” è nella prima parte della pagina 63. Tuttavia, si può rilevare immediatamente qualche problema.
In primo luogo, non è affatto chiaro che la “Lettera Rossa” sia effettivamente una missiva: viene infatti descritta genericamente come un documento che compendia un più ampio testo precedente, la cui natura epistolare non è indicata.
La parola “lettera”, in effetti, in Italiano non designa esclusivamente documenti di natura epistolare.
Possiamo inoltre notare che le similitudini con le lettere di Erostrato non ci sono proprio: le lettere di Erostrato sono un coacervo di deliri, non sono il compendio di un testo perduto e non profetizzano alcunché, bensì contengono rivendicazioni e affermazioni minatorie e/o gravemente lesive di esponenti di spicco della comunità locale.
Peraltro, non si capisce per quale motivo, se Erostrato volesse in qualche modo e per ragioni del tutto ignote emulare un documento risalente, come quello citato nel libro di Blondet, dovrebbe utilizzare un pennarello (strumento relativamente moderno) e non una penna.
Di contro, e in conclusione, la “Lettera Rossa” menzionata nel libro di Blondet non contiene la parola “Katechon” al suo interno, collocata da tutt’altra parte nel testo.

Prima di andare avanti con la disamina, desidero inoltre richiamare l’attenzione su un ulteriore fatto.
Deve essere segnalato, infatti, che è decisamente discutibile che capacità soggettive eccedenti l’ordinario, quali ad esempio le ottime capacità mnemoniche del Dott. Riva che, non a caso, è stato campione di “Caduta Libera”, come evidenziato in apertura del paragrafo, possano essere in qualche modo utilizzate come “parametro”.
Questa osservazione, naturalmente, non vuole di certo essere un’offesa nei confronti del Dott. Riva che ha semplicemente ritenuto di adempiere al proprio dovere condividendo con gli inquirenti una sua intuizione ma, anzi, un riconoscimento delle sue particolari capacità.
Ciò che intendo dire, in sostanza, è che se persone con capacità particolari possono effettivamente ricordare perfino particolari dettagli dei libri che leggono, quali la veloce menzione della “Lettera Rossa” del libro di Blondet, che non è certo un elemento centrale del testo, bensì un elemento menzionato di sfuggita, lo stesso non può dirsi per la generalità degli individui.

Sul punto, non mi soffermerò più del dovuto, in quanto finirei per rendere l’articolo sin troppo prolisso: è sufficiente, ai fini di questa trattazione, riportare a titolo d’esempio uno schema in merito alla cosiddetta “curva dell’oblio” elaborata dallo psicologo tedesco Ebbinghaus.



Come spiegato nelle didascalie la curva di Ebbinghaus mostra che la maggior parte delle informazioni acquisite viene dimenticata dopo qualche ora e, dopo solo un mese, il numero di informazioni “conservate” è minimo.
Se è vero che vi è un sensibile aumento delle informazioni immagazzinate con successive letture, tali letture devono essere (affinché l’incremento sia significativo) almeno tre e, soprattutto, il materiale da memorizzare deve essere ripreso sistematicamente a scadenze ben determinate: infatti, non bastano due o tre letture distanziate nel tempo senza una revisione del materiale nelle 24 ore successive (fonte: https://www.csustan.edu/sites/default/files/groups/Writing%20Program/forgetting_curve.pdf).

In buona sostanza, ciò che intendo mostrare con questi grafici è che, in ogni caso, le probabilità che una persona comune, dopo aver letto “Gli Adelphi della Dissoluzione”, possa ricordare un’informazione marginale come quella relativa alla “Lettera Rossa”, sono pressoché nulle.
Tra l’altro, mi permetto sul punto relativo alla memoria una ulteriore piccola digressione per mostrare una volta in più l’intrinseca contraddittorietà delle accuse a carico degli Aquini.
Si è appreso, ad esempio, dai media, che nell’ambito di una perquisizione domiciliare presso l’abitazione della famiglia è stato sequestrato, tra l’altro, il libro “Hitler e il nazismo magico” del compianto politologo Giorgio Galli.
Con un po’ di fantasia (un bel po’, essendo sempre stato il Prof. Galli tutt’altro che un estimatore del nazionalsocialismo) si può immaginare che quel libro, peraltro piuttosto noto, sia stato ritenuto sospetto in considerazione delle simpatie neonaziste di Erostrato.
Ciò che però sorprende, è che mentre si considera del tutto plausibile la circostanza, straordinaria, che gli Aquini ricordino la famigerata “Lettera Rossa” citata di sfuggita nel libro di Blondet, si consideri nel contempo normale il fatto che, laddove fossero Erostrato, non sappiano scrivere correttamente la parola “Führer” che, nel libro di Galli sequestrato nella loro abitazione, compare per ben 106 (CENTOSEI) volte, e che Erostrato scrive in maniera scorretta.

Ecco, dunque, tornando a noi, che gli Adelphi della Dissoluzione comincia a mostrarsi per ciò che effettivamente è: pura suggestione.
Una suggestione tale da poter essere replicata, peraltro con risultati nettamente migliori, con testi completamente diversi.
Non avete capito male: per mostrarvi la differenza tra mere suggestioni e veri indizi (che, ricordiamolo ancora una volta, devono essere gravi, precisi e concordanti), ho deciso di farvi vedere quanto sia facile sostenere che le lettere di Erostrato possano avere punti in comune qualche libro, perfino celebre, in misura perfino nettamente maggiore rispetto agli Adelphi della Dissoluzione.
Ovviamente, lo specifico a scanso di equivoci, tale esempio avrà un’utilità unicamente negativa (ossia, volta a mostrare che la lettura del libro di Blondet non abbia alcun valore indiziante a carico degli Aquini) e non certo positiva: per intenderci, l’esempio è a propria volta suggestivo, non è volto in alcun modo a sostenere che Erostrato abbia letto il libro oggetto dell’esempio (anche perché, come vedremo, è altamente probabile che Erostrato non abbia letto proprio nessun libro, neanche quelli che cita espressamente), ma è volto unicamente a dimostrare l’assoluta inconsistenza degli elementi usati contro gli Aquini.

Dunque, abbiamo visto come sia stato usato contro gli Aquini il fatto che abbiano letto, o comunque preso in prestito in biblioteca, il libro “Gli Adelphi della Dissoluzione” di Blondet, che avrebbe in comune con le lettere di Erostrato due punti (il colore rosso dell’inchiostro usato per le lettere e la parola “Katechon”).
Ora, è dunque con grande piacere che vi mostro come le lettere di Erostrato somiglino molto di più a un celebre racconto di Edgar Allan Poe: La Lettera Rubata.

La Lettera Rubata è uno dei racconti di Edgar Allan Poe che hanno come protagonista l’investigatore Dupin.
Il racconto ruota intorno al furto di una lettera contenente affermazioni gravemente lesive dell’onore di una potente nobildonna. Del furto, si conosce sin dall’inizio il responsabile. Il problema che porta il prefetto che indaga sul caso a rivolgersi all’investigatore Dupin è il fatto che le ricerche della lettera nell’abitazione dell’autore del furto, seppure minuziose, non abbiano dato alcun esito.
Ebbene, non vi tengo sulle spine: la lettera, in conclusione, viene ritrovata. Non era affatto nascosta, ma era anzi ben visibile. Era solo stata leggermente camuffata: il sigillo di colore rosso che aveva impresso nella parte anteriore era stato sostituito con un sigillo diverso, un monogramma di colore nero.
Quando la lettera viene finalmente rinvenuta, al fine di beffare il ladro, essa viene sostituita con una lettera diversa, al cui interno viene scritta una citazione dall’Atreo e Tieste di Crébillon.

Bene, provvediamo ora a calcolare quanti punti in comune è possibile trovare tra il racconto di Poe e le lettere di Erostrato.
Primo: il colore rosso del sigillo visibile sulla lettera originale.
Secondo: il monogramma, con le iniziali del nome, sulla lettera camuffata. Le lettere di Erostrato, infatti, recano un monogramma: la sigla “Er” inserita in un cerchio, come potete osservare nell’immagine seguente.


Siamo dunque a due elementi: in parità con gli Adelphi della Dissoluzione. Ma riusciamo ad andare ben oltre con i punti in comune.
Terzo: la citazione da un’opera inserita nella lettera lasciata come beffa al ladro in sostituzione di quella rubata, giacché, come abbiamo visto, Erostrato inserisce abitualmente citazioni nelle sue lettere.
Quarto: i contenuti della lettera, lesivi dell’onore e della reputazione di un personaggio in vista.
Quinto: il fatto che nel racconto di Poe compaiano, proprio come nelle lettere di Erostrato, alcune citazioni in Latino, tra le quali due citazioni dall’Eneide di Virgilio, da cui anche Erostrato ha tratto -sia pure male, come vedremo- una citazione (vedasi la parte finale dell’immagine seguente, “infandum renovare dolorem”).



Forse, l’elenco potrebbe perfino continuare, ma credo possa essere sufficiente a mostrare la palese inconsistenza del presunto elemento usato contro gli Aquini: non ha la benché minima specificità, non solo in quanto intrinsecamente contraddittorio e ben poco credibile, ma anche in quanto, sulla medesima falsariga, si potrebbe sostenere, perfino con maggiori elementi a sostegno, che Erostrato abbia tratto ispirazione da libri completamente diversi.

Nella seconda parte dell’articolo, in uscita nei prossimi giorni, cercheremo, tra le altre cose, di motivare abbondantemente la risposta negativa che siamo giunte a dare a una interessante domanda: Erostrato è, come gli Aquini, un lettore?

Per il momento, nel congedarci, rassicuriamo chiunque, passando su Colonna Infame, dovesse trovarsi a leggere questa nostra analisi della vicenda: per la stesura di questo articolo nessun lettore è stato maltrattato.


Aggiornamento: è stata pubblicata la seconda parte dell’articolo, che trovate qui: https://colonnainfame2014.wordpress.com/2022/05/22/il-caso-erostrato-linsostenibile-pesantezza-dei-processi-indiziari-seconda-parte/

Nuova intervista a Gennaro Francione – Processo indiziario e condanna a Bossetti

  • Carissimo Gennaro, ho pensato di farti questa intervista dato il tuo impegno, o meglio il tuo attivismo, sul fronte della giustizia. Prima di entrare nel vivo del caso specifico di cui si occupano il nostro blog e il nostro gruppo Facebook, vorrei chiederti di spiegarci il concetto di ‘Processo Indiziario’.

Il processo indiziario è frutto del formularismo, (derivazione del formalismo). che non risponde alla sostanza processuale. Il danno fu fatto dalla giurisprudenza che creò il criterio degl’indizi gravi, precisi e concordanti (poi recepito dal codice Vassalli) bypassando il lapidario dettato del codice Rocco: i processi si fanno per prove (non per indizi).

Indiziato Tizio, basta accumulare indizi a gogò; addirittura i supremi con Agatha Christie hanno detto che ne bastano tre e lo si condanna. Questo per parare il fatto che col processo per prove avendo polizie prive di mezzi (costosi) molti delitti anche eclatanti risulterebbero irrisolti. Naturalmente per ottenere quest’efficienza forzata molti innocenti finiscono in carcere pur di dimostrare, almeno inconsciamente, la funzionalità del sistema

Nell’ordinanza di incostituzionalità del processo indiziario che sollevai il 13 giugno del 2000 misi in rilievo tutto questo soprattutto lamentando la mancanza di un sapere epistemologico dei giudici (Popper in particolare), la cui applicazione avrebbe inficiato il sistema indiziario alla radice. La Consulta respinse in malo modo, ovviamente perché avrei fatto crollare l’edificio giustizia.

È chiaro che questo sistema inquisitorio, di fondo antiscientifico, ci ha portato al nuovo medioevo della giustizia italiana dove l’ordalia è rappresentata dal libero convincimento dei giudici che con la logica aristotelica (non scientifica) dimostrano tutto e il contrario di tutto.

Il processo indiziario allo stato è previsto dalla legge (art. 192 2° co. c.p.p.) ma è irrazionale perché di per sé genera sempre un contrapporsi di tesi pro e contro, tant’è che nei casi eclatanti si crea sempre il partito dei colpevolisti e quello degl’innocentisti, mancando quindi a monte la certezza del verdetto finale.

Noi ci battiamo per far dichiarare l’incostituzionalità del processo indiziario riproponendo la questione alla luce proprio del ragionevole dubbio (art. 533 c.p.p.) insito in quel sistema. Questo anche perché contro l’espressione della norma quello che doveva essere un processo eccezionale è diventato la regola, mettendosi dentro con gl’indizi il soggetto più debole e incastrandolo come possibile capro espiatorio di turno. Secondo statistiche col processo puro per prove forti, oggi il 90 % dei processi su base indiziaria verrebbe spazzato via rimanendo solo il 10 % di processi da portare avanti fino all’eventuale condanna. Un sistema rapido ma giusto per smaltire l’arretrato.

  • Che cosa decide la Cassazione?

La Cassazione segue come già detto il filone formalistico del processo indiziario utile per risolvere casi intricati.

Noi riteniamo, invece, che i processi si fanno per prove forti non per indizi che servono solo a creare congetture, invalidate se non si trovano prove. Questo è il processo scientifico popperiano non romanzesco e medioevale.

Quanto ai tre indizi che formerebbero una prova niente di più fallace. Mille indizi non formano una sola prova come 1000 conigli formano una conigliera e non certo un leone!

Scoprire gli autori dei delitti è tutt’altro che semplice. E’ letteratura gialla che non esiste il delitto perfetto. Esiste e come! Ce ne sono tanti! E la giustizia annaspa alla ricerca di colpevoli a tutti i costi per mostrare che funzioni.

Dobbiamo contro gl’indizi costruire una tavola di prove legali come sosteneva anche il mio amico, il compianto professor Ferdinando Imposimato che avallò da ex giudice le mie tesi insegnandole in varie università.

Noi dobbiamo pretendere non solo la confessione e/o la pistola fumante, perché prove forti sono anche intercettazioni telefoniche inequivocabili, testimonianze nette incrociate, percorsi ricostruiti con telecamere a circuito chiuso, marcature post delictum con microspie, sistemi informatici a prova di bomba come Mytutela per inchiodare comunicazioni incriminanti, rilievi scientifici fatti come si deve e sicuri al 100 %.

Non possiamo procedere più come nei casi Cogne, Melania Rea, Meredith Kercher, Yara Gambirasio. Per non parlare di Elena Ceste dove non si sa nemmeno come è morta la donna, o Guerina Piscaglia e Roberta Ragusa di cui non si è trovato addirittura il corpo, non potendosi dire se siano morte e in tal caso se siano state uccise e come e da chi. Se non si procede per prove forti tutto quello che si può fare è innescare processi indiziari a carico di presunti colpevoli, tenendoli, comunque, fuori dalla prigione. Se poi gl’indizi non portano a prove, queste sì gravi precise e concordanti, il processo è fallito.

  • Hai sempre sostenuto che anche il caso Bossetti fosse totalmente indiziario. Puoi dirci perché è in realtà indiziaria quella che l’accusatore ha decretato ‘prova regina’?

Per rispondere devo fare una premessa formale per poi andare alla sostanza.

Riteniamo che gli atti relativi al prelievo e analisi del DNA a carico di Bossetti sono nulli, per mancata osservanza da parte del P. M. delle garanzie di difesa per un atto così importante e decisivo per il verdetto finale.

Abbiamo al riguardo escogitato la figura del consulente e del difensore pro ignoto, già implicita nel sistema sia a livello di costituzione (art. 111: garanzia del contraddittorio nella parità “concreta” delle parti), sia nelle norme ordinarie(art. 360 cod. proc. penale: Accertamenti tecnici non ripetibili.)

Interpretare diversamente (lato iure ma contro la costituzione come oggi si fa) significa creare una falla quanto un buco nero nel sistema perché non si consente a colui che sarà incriminato di essere difeso in una fase d’indagine così delicata come ad es. quella atta ad assumere il suo DNA, prova regina.

È una procedura di controllo a monte della regolarità di acquisizione e analisi delle tracce tanto più indispensabile come nel caso Bossetti in cui il reperto è stato incautamente esaurito per cui nemmeno il controllo a valle (di valore comunque relativo) è consentito.

Un problema più generale che non riguarda solo Bossetti ma tutti coloro che si troveranno indiziati senza che siano stati garantiti nell’atto di raccolta e analisi delle tracce. Ciò crea un profilo di incostituzionalità della procedura che genera anche una disparità di trattamento nelle garanzie tra indiziati e futuri indiziandi (art. 3 Cost.).

De iure condendo abbiamo previsto che il prelievo e le analisi del DNA devono essere garantite dalla creazione di un servizio nazionale di prelievo e indagini con esperti super partes, alle dipendenze della magistratura (noi riteniamo di riesumare il giudice istruttore) e non del P. M. che, malgrado l’ibrido giudice-accusatore, non sembra sfuggire con la P.G. ad una funzione volta peculiarmente alla ricerca di colpevoli.

Nella sostanza il DNA di Bossetti non è una prova regina prima di tutto per l’anomalia insita nel materia prelevata (il mitocondriale è di altro soggetto).

Alla luce della Criminologia Dinamica, teoria da me elaborata col biologo forense Eugenio D’Orio e presentata in congressi e riviste internazionali (https://www.facebook.com/groups/302054647190846/), affinché il DNA sia prova regina è necessario che la traccia, rigorosamente integra, indichi non solo il “chi” ma anche il “come” e il “quando” sia capitata sul cadavere, e che relazione abbia con l’eventuale azione omicidiaria.

Ammesso e non concesso che il DNA sul corpo di Yara sia di Bossetti non c’è risposta alle altre domane oltre a rilevare che ci sono un’altra decina di tracce. Chi può escludere che vi siano stati più assassini prediligendosi Bossetti solo perché identificato? Superati problemi di contaminazione della traccia (che però non si può escludere), non potrebbe egli essersi limitato da aiutare altri a disfarsi del cadavere prima non trovato nel campo dai ricercatori coli cani molecolari e poi improvvisamente apparso?

Nebbia su nebbia. Uguale condanna all’ergastolo su una traccia che con indizi fumosi si avvicina al niente.

  • Seguendo la storia, io ho avuto la sensazione che chi portava avanti le indagini sulla morte della piccola Yara, fino a un certo punto, avesse seguito un ‘protocollo garantista’, tanto da dire che la stessa traccia 31G20 (quella che incastra Bossetti) doveva essere contestualizzata. Se le mie sensazioni fossero corrette, cosa potrebbe aver cambiato il corso della faccenda, facendo partire la pista di Gorno, le donne della Val Seriana, etc?

Non rispondo a questa domanda per mancanza di dati. Dovrei fare delle illazioni ma ricadremmo nel vizio opposto a quello che ha portato a condannare Bossetti su base indiziaria. Posso solo affermare che si possono fare una serie di congetture con individuazioni di altri responsabili. E qua mi fermo.

  • Mass media. Sembra un punto di non ritorno, dove i salotti dell’orrore sono onnipresenti. Eppure io ho visto Pm che hanno saputo tenere a bada le fughe di notizie. Quando è che non si riesce a spettacolarizzare le orribili realtà? Dove finisce il diritto di cronaca?

Siamo inondati da processi in tv che rischiano di minare la neutralità dei magistrati decidenti.

Il giudice con la corazza non esiste tanto più se giudice popolare. Abbiamo esempi di linciaggi da parte del popolo forcaiolo e da parte di colleghi di giudici che hanno osato sfidare la pressione colpevolista di stampa e tv.

Una trasmissione che non consenta la par conditio negli interventi delle parti in causa compromette altamente l’esito del processo reale. La cosa peggiore è che grazie alle tv del reality criminal show il giornalista-star si esprime chiaramente o soffusamente per la colpevolezza dell’indiziato di turno. Questo danneggerà seriamente il giudizio popolare che culminerà in quello dei giurati e forse degli stessi giudici togati se non abbiano il coraggio di contraddire le frotte di colpevolisti e l’esigenza di tutelare l’efficienza del sistema.

Queste trasmissioni dei reality criminal show sono contro l’etica di una tv equidistante nell’informazione, sviluppata a 360°: alzano lo share praticando la pornografia del dolore.

I parenti non dovrebbero essere neppure invitati perché alimentano con l’emozione riscaldata, la rabbia, la voglia eccessiva di giustizia la convinzione che l’incriminato di turno sia colpevole. Se non lo dicono a raffica i conduttori aizzafuoco, gli esperti del tubo catodico, gli avvocaticchi etc. che si è in fase di congetture indiziarie perché i poveri parenti delle vittime dovrebbero dire che il poveraccio incastrato potrebbe non essere colpevole? E col loro dolore espanso i parenti alimentano la catena circolare di pregiudiziali asserzioni di colpevolezza fino a prova contraria.

Di fondo questi programmi dovrebbero essere falcidiati.

Vae victis! Stampa e tv limitino le ore dedicate ai crimini ma intanto insegnino alla gente che vuole conoscere questi fatti di sangue la procedura penale affinché con mezzi critici si possa comprendere come funziona la giustizia. Allora si abbandoneranno verdetti popolari di pancia e ci si indirizzerà verso principi come l’in dubio pro reo o si comprenderà che una prova non presa in contraddittorio reale (non sulla carta) è nulla.

Per condannare ci vogliono prove fortissime e incrociate non bastano gl’indizi che servono solo a creare congetture col processo fallito se non si arrivi a prove. Scoprire gli autori di delitti è molto più difficile di quanto vogliono far credere.

  • Pensi che Bossetti abbia qualche via di uscita?

Sì, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Però, in attesa, la via d’uscita già c’è. La battaglia che continueremo a fare per lui e per tutti quelli che rimangono impigliati nelle maglie del fallace processo indiziario.

È come nel gioco a nascondino. Se l’ultimo giocatore rimasto da trovare riesce a raggiungere e a toccare la “tana”, potrà dichiarare “Tana libera a tutti!”. Liberato un indiziato, uno qualunque rimasto impigliato nella rete di Temi, si libereranno tutti i condannati su base indiziaria senza prove.

Gennaro-Francione-il-giudice-Robin-Hood

Gennaro Francione è nato a Torre del Greco (NA). Ha intrapreso la carriera giudiziaria svolgendo in quel di Monza e a Roma funzioni di Pubblico Ministero, Giudice Istruttore, Giudice di Tribunale, dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria. Attualmente vive nella capitale dove, col grado di Consigliere di Corte di Cassazione, è andato in pensione alla fine del 2007 per poi svolgere attività di avvocato penale. In data 15 dicembre 2007 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma gli ha consegnato la medaglia d’oro alla carriera. Oggi Francione svolge solo attività di drammaturgo e di attivista per il neorinascimento della giustizia.

LE NOSTRE RESPONSABILITÀ

Era da molto che non scrivevo, non nego che la batosta dell’appello ha creato in me – come in molti altri del resto – una sorta di angoscia senza pari. Chi ci ha seguito fin dall’inizio sa quanto questo spazio, insieme al gruppo facebook, si sia adoperato per cercare di dimostrare l’innocenza di Massimo Bossetti. In prima battuta volevamo solo sottolineare il principio di non colpevolezza, non sapevamo se Massimo fosse innocente o colpevole. Ci interessava ribadire che non si deve mai gridare al mostro senza che ci siano delle prove che giustificano una sentenza di condanna. Col tempo, scandagliando tutto quello che emergeva dalle notizie, si faceva largo la convinzione che Bossetti, con la morte della piccola Yara, non c’entrasse per niente. Oggi, per quel che mi riguarda, lo penso con ancora più forza, perché le motivazioni delle due condanne non hanno prove, ma solo credenze quasi religiose a cui appellarsi per sbattere un uomo dietro le sbarre a vita.
A mio modesto parere – e senza voler innescare polemiche sterili e inutili, visto che da questo punto di vista è già stato sforato ferocemente il limite -, leggendo la sentenza di appello (http://www.giurisprudenzapenale.com/2017/11/01/omicidio-yara-la-sentenza-della-corte-assise-appello-brescia/), mi viene spontaneo pensare che le raccomandazioni fatte su questo blog e sul gruppo facebook ‘Giustizia e Verità: no all’accanimento mediatico contro Massimo Bossetti’, da me e dalle altre amministratrici, sulla necessità di mantenere un basso profilo per non alimentare il delirio mediatico, fossero sacrosante. Potete pensare che io sia presuntuosa nel fare quest’affermazione e, pur magari dispiacendomi, sinceramente poco mi importa. Non è a quelli che hanno fatto della vicenda una cosa ‘propria’, una questione personale, che sto parlando, ma a chi ha voglia di sentire un altro parere, diverso da quello dei ‘protagonisti’ di un certo fronte, che ha fatto parlare MALE di sé, danneggiando ulteriormente la figura dell’accusato. Consigliandolo male, non dandogli tutti gli strumenti idonei per evitare di essere tritato ulteriormente.
Mi spiego, io non divido le persone tra ‘studiate’ e ‘non studiate’, anzi, questo caso dimostra come gente piena di lauree sia totalmente disconnessa dalla realtà, incapace di fare un ragionamento serio quando in ballo ci sono degli interessi; quindi non considero Bossetti meno di qualcun altro. Massimo è un uomo intelligente che però, per sua sfortuna, si è ritrovato in una situazione dove non aveva esperienza e per cui bisognava consigliarlo e affiancarlo costantemente. Qualcuno mi direbbe che qualunque cosa avesse detto, lo avrebbero criticato lo stesso. Appunto, risponderei, proprio per questo era necessario – è necessario, visto che la partita non è ancora conclusa -, limitare i danni. E così doveva avvenire anche fuori dalla prigione, dove bisognava avere una marcia in più, bisognava stare con occhi bene aperti e orecchie tese, calcolare le conseguenze prima di azionare le lettere di una tastiera e la lingua. Prima che la situazione sfuggisse di mano e prima che qualunque persona, millantando sostegno a Bossetti, si arrogasse il diritto di parlare per lui o per chi lo difende realmente.
Perché dico questo? Perché, sempre nelle motivazioni, c’è un chiaro riferimento alla cosa, perché spesso nei tribunali si punisce per interposta persona ed è sempre l’assistito a farne le spese.
Detto ciò, non è mai tardi, anche se siamo ben oltre i limiti che era meglio non valicare. Nessuno, qui, mette in dubbio la tragica ingiustizia in atto e nemmeno ignora che nelle motivazioni della sentenza ci siano scritte cose assolutamente contestabili, ma visto il tono e l’uso dei termini in essa contenuti, è più che mai chiaro come fosse doveroso non dare mai il fianco anziché porlo come un’altra guancia. Chi ha veramente a cuore il destino di Massimo Bossetti deve comprendere fino in fondo che le parole da noi espresse tanto tempo fa, e per tanto tempo, avevano un senso e lo hanno ancora di più alla luce della seconda sentenza. I giudici – togati e non -, oltre a dover esaminare gli atti, guardano la televisione, navigano in rete, leggono i giornali e sono persone come tutte le altre. Tra loro c’è sicuramente chi è riuscito ad andare oltre, visto che da quella camera di consiglio non venivano più fuori, ma non è stato sufficiente, perché al famoso DNA si sono aggiunte le cose che ho detto finora e ignorarle significa mettere in pericolo, per sempre, la possibilità di vedere Massimo uscire da uomo libero.
Insisto sul fatto che noi lo avevamo previsto, ma non è servito a nulla. Ci hanno detto che volevamo primeggiare, ci hanno apostrofato con epiteti da non ripetere, soprannominato ‘signorine Bon Ton’. Il nostro spazio è stato osteggiato per fare largo a oltraggiatori di professione, maniaci di se stessi ed egocentrici a cui Massimo Bossetti interessa solo per dare sfogo alla lingua o per scrivergli lettere di cui mostrare in giro le risposte, senza curarsi MAI della sua privacy, del suo ‘diritto privato’, rendendo pubbliche confidenze che tali dovevano rimanere. Tutta questa gente ha fatto in modo che l’accusa non muovesse un dito, perché c’era già una mano armata di tastiere e un esercito di lingue biforcute pronto a darle manforte, danneggiando ulteriormente un innocente ingiustamente accusato di omicidio. Mi sono chiesta quanti di loro fossero/siano in buonafede – si fa per dire – e quanti invece avessero/abbiano il chiaro scopo di fingere una difesa sotto la quale si cela la più feroce delle accuse.
Concludo dicendo che la rabbia di Bossetti e della sua famiglia è sacrosanta, non lo è quella di chi ha reso un’esperienza solidale una piaga pericolosa, fonte d’ispirazione per parte delle motivazioni della sentenza di appello che cercherò di commentare prossimamente, sempre qui e nel gruppo. Questo blog non chiuderà i battenti, anche se per ovvi motivi è stato silente a lungo. Chi ha capito, non abbia dubbi: interrompa fin da ora il contributo al circo mediatico e lo faccia senza mezzi termini.
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Il lupo che sfamiamo

di Laura Clemente

 

Quanta cattiveria e malafede permea tutta questa storia? Che società alimentiamo? Credo di essere nota per la franchezza e oggi, insonne e ferma su quesiti senza risposta che mi porto dietro da più di due anni, mi domando se vi siete mai chiesti perchè un innocente sia stato condannato al carcere a vita senza uno straccio di prova.
La Giurisprudenza “last generation” ha decretato che un indizio genetico già fortemente compromesso, che in altri paesi civili non sarebbe stato preso nemmeno in considerazione, privo di fondamento e non inquadrabile nel quadro generale degli eventi, quindi senza alcun valore probatorio, sia in grado di reggere un intero impianto accusatorio e portare ad una condanna con un fine pena mai.
Domani prenderanno il dna di un altro povero cristo e lo sbatteranno dentro e quel cristo potrebbe essere ognuno di noi perchè quando si sposta il confine tutto diventa possibile.
Snocciolo qualche pensiero alla maniera di chi va parlando per strada da solo, parla da solo e parla al mondo intero. Una condanna, epilogo di una storia pre-processuale e processuale di questa portata, non è facilmente ribaltabile perchè pregiudicherebbe una serie di eventi che sono stati messi in moto di proposito per spianare la strada all’utilizzo scriteriato del materiale genetico dei cittadini.
Accettando la condanna del sig. Bossetti, sostenendola addirittura, si sta dando il permesso al Governo di procedere ad una forma di terrorismo psicologico e di controllo delle masse che comincia con l’influenza dei mass-media e termina con l’attribuzione di materiale genetico, dubbio e a caso, ad una scena del crimine qualsiasi senza possibilità di godere del beneficio del dubbio.
Pensateci solo per un attimo, quanto è importante, nel momento in cui si ha a che fare con la legge, il concetto di “beneficio del dubbio”? Credetemi se vi dico che sulla propria pelle questa importanza si fa sentire eccome!
Il rinvenimento di un campione di materiale genetico non basta da solo a decretare la colpevolezza del donatore.

Il caso di Tiffany Hambleton, assassinata nel 1986 all’età di 14 anni, che vedeva come unico sospettato Dan Peterson, l’ultimo ad averla vista viva tra le altre cose, quindi un uomo adulto che rientrava nel numero di persone note alla vittima, è a dir poco emblematico.
L’uomo, ventitrè anni all’epoca, aveva conosciuto la ragazza proprio la sera della sua scomparsa e aveva intrattenuto con lei una relazione intima, cosa che aveva fermamente negato alle forze dell’ordine che lo ascoltarono, come atto dovuto, all’epoca dei fatti. Con l’avvento dell’applicazione della scienza forense alle indagini, riaperto il caso ben venti anni dopo, si scoprì il codice genetico del sospettato sotto le unghie e sugli indumenti della vittima e la pubblica Accusa fu lietissima di citarlo in giudizio per richiamarlo a saldare il suo debito. In poche parole era colpevole, bisognava solo ufficializzare il fatto.
A discolpa della pubblica Accusa debbo dire che almeno non ebbe la felice idea di basare l’intero impianto accusatorio unicamente sul reperto di pelle trovato sotto le unghie della ragazza nel senso che non incolpò un uomo a caso che nemmeno conosceva la vittima come avviene invece per il caso Gambirasio.
Tutto sommato per condannarlo non bastò né la conoscenza, né il rapporto intimo intercorso tra i due e nemmeno il fatto che lui avesse mentito a riguardo, tantomeno che il suo dna si trovasse sulla vittima.
La Giuria, e qui mi sparo una maiuscola di tutto rispetto, lo assolse con formula piena!

Il senso del discorso è che nel dubbio una società sana deve assolvere, non può farsi soggiogare dalle parole dei media o da quelle di un procuratore troppo zelante che vuole solo aggiungere una testa alla sua collezione anche dove questo non rende giustizia a nessuno. Tutti noi, anche dopo trent’anni, proviamo una profonda empatia per la quattordicenne brutalizzata e per la sua famiglia avida di giustizia e verità, ma non per questo ci possiamo accontentare di un colpevole a caso o di un “forse” colpevole.
Le condanne vengono pronunciate in nome del popolo sovrano in una democrazia, quindi ne siamo tutti responsabili.
Per il procuratore del caso Hambleton il dna bastava dal momento che, come tutti ripetono, non mente ma la difesa era di tutt’altro avviso. Una volta scovato il profilo genetico del loro assistito gli inquirenti si erano messi i paraocchi e non avevano scavato più a fondo.
“Non basta dire che c’era il dna, qual è la storia di quel dna?” cito testualmente uno degli avvocati della difesa. Non basta la sua presenza a dirci chi ha commesso il crimine, affinchè ci parli e ci dica la verità bisogna contestualizzarlo.
Sei settimane dopo la scomparsa il cadavere della povera Tiffany venne ritrovato da un allevatore. Era stato abbandonato in un campo parzialmente vestito e brutalizzato da profonde pugnalate. Il coroner potè stabilire con assoluta certezza l’identità e le cause del decesso ma non potè pronunciarsi sul momento esatto della morte, tuttavia il livello di deterioramento del corpo era compatibile con il tempo intercorso tra la sparizione ed il rinvenimento.

(Per stabilire l’esatto momento della morte serve avere l’abbonamento a Sky e cercare una buona serie tv su FOX Crime. Scusate la parentetica sarcastica).

L’uomo, questo per dovere di cronaca visto che vi sto narrando fatti realmente avvenuti, era un muratore incensurato e guidava un furgone bianco su cui aveva fatto salire la ragazza per accompagnarla a casa. Ovviamente il furgone venne ispezionato ma non risultò nulla di probante dall’esame.
Intanto egli si era trasferito per motivi di lavoro e quando venne incriminato un gran numero di conoscenti ed amici di vecchia data si mosse per sostenere la sua innocenza.
Ovviamente il rinvenimento di sperma sugli indumenti della ragazza aggiunto alle numerose ferite da difesa e alle tracce di tessuto epiteliale sotto le unghie non deponeva affatto bene, come sarebbe ovvio desumere, nei confronti di un uomo adulto che per anni aveva sostenuto di non aver mai toccato la giovane. Il potere della suggestione è forte in questi casi e per il sig. Peterson fu come ustionarsi con l’acqua santa. Non erano presenti altri dna estranei sul corpo, a detta della pubblica accusa, e questo bastava per citare Dan in giudizio ma non era sufficiente a dimostrare che il deposito era stato contestuale all’omicidio.

Il P.M. aveva una teoria. Il rilascio di sperma sulla coppa del reggiseno e le numerose ferite da arma da taglio inferte sul busto dovevano essere avvenuti contestualmente perché in caso contrario, e cioè se il rapporto sessuale con Peterson fosse stato consenziente e precedente all’aggressione, la posizione della maglietta e i relativi tagli non avrebbero corrisposto con tanta precisione. In parole povere uno scenario alternativo era ben lontano dal configurarsi.
Le bugie di Dan e l’alibi inconsistente aumentavano lo scetticismo del procuratore.
Le indagini investigative non restituivano il profilo di un predatore sessuale, a dimostrazione di ciò parlavano anche e paradossalmente i tanti anni successivi al delitto durante i quali il sig. Peterson non era stato mai sospettato di alcun crimine, aveva mantenuto il lavoro e il suo status di incensurato, e non restituivano nemmeno il profilo di un bugiardo patologico perché, se contestualizzata, la sua reticenza ad ammettere il rapporto sessuale era dovuta unicamente al timore di essere piazzato il cima alla lista dei sospettati.
Cit. Glenn Cook Avv. Dif.
“Ci aveva fatto sesso ma questo non significava che l’aveva uccisa”
Cit. Dott. James Gaskill scienziato forense
“Uno dei maggiori pericoli durante un’indagine è giungere ad una conclusione e poi fare in modo che le prove la confermino, ma è l’investigatore a dover ascoltare le prove, non il contrario”

Che musica queste parole no? Sono le stesse parole che riecheggiano nelle nostre menti da anni ogni qual volta che rivolgiamo i nostri pensieri al detenuto Bossetti.
Lo scienziato forense nel riesaminare gli indumenti, che gli vennero messi a disposizione senza obiezioni dopo vent’anni, rinvenne altre tracce di dna, non appartenenti all’imputato, sulla maglia della ragazza e la interpretò come una grave omissione da parte dell’accusa che avrebbe dovuto procedere all’attento esame di ogni singola traccia per garantire la trasparenza delle indagini; e non fu l’unica omissione portata all’attenzione della giuria, la traccia di sperma rinvenuta sul reggiseno era, già all’epoca dei fatti, troppo esigua per poter procedere ad un esame identificativo quindi veniva meno la ricostruzione che l’accusa forniva. C’era la possibilità di un secondo donatore.

Persino la natura delle tracce rinvenute sotto le unghie non era chiara. Si era supposto essere pelle ma non si poteva escludere che fosse sudore o sperma e questo dava spazio ad uno scenario completamente diverso. Il ragazzo era rientrato con gli stessi abiti che indossava la sera precedente e la sua coinquilina testimoniò di non aver notato niente di insolito nel suo aspetto o nelle condizioni del furgone.
Secondo la difesa la pubblica accusa non ha prove per fugare ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza del proprio assistito. Attenzione non sostiene che le prove non siano sufficienti ma che non ve ne siano affatto per dimostrare un’azione omicidiaria dal momento che il dato più importante di tutta l’intera inchiesta non si può stabilire, e sarebbe l’orario preciso della morte della giovane. Il corpo fu ritrovato sei settimane dopo ed era assolutamente impossibile stabilire che fosse morta proprio la notte che aveva trascorso in compagnia di Dan. L’unica cosa che il P.M. può dimostrare è che i due hanno avuto un incontro sessuale.
Alla domanda “ma ammettendo che non sia stato lui allora chi è stato?” la difesa scelse la strategia del non tentare di accusare qualcun altro per concentrarsi sul discutere l’estraneità del proprio assistito ai fatti.

Agosto 2007 Peterson sale alla sbarra e ammette il rapporto sessuale con la quattordicenne.
La paura della difesa è che la giuria possa rimanere così sconvolta dal rapporto sessuale tra un adulto e una minore da giudicare questo fatto sufficiente per condannarlo.
La Giuria sembra però essere consapevole delle proprie responsabilità e decisa ad emettere il giusto verdetto conscia di avere la vita di un uomo nelle proprie mani; dopo tre giorni di testimonianze e cinque ore di consultazione, esaminate le prove forensi, dichiarerà l’imputato Dan Peterson non colpevole. Secondo dodici cittadini l’accusa era riuscita a dimostrare soltanto che l’imputato aveva mentito e che aveva avuto rapporti sessuali con la vittima e non era sufficiente, non c’erano prove per fugare ogni ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza. Nessun altro è stato accusato dell’omicidio di Tiffany Hambleton e si spera che questo caso non resti irrisolto ma deve risponderne la persona giusta e questi non era Dan Peterson. Un assassino è ancora in libertà.
I fatti narrati si sono svolti nell’arco di tempo intercorso tra il 1986 e il 2007 a Salt Lake City Utah.

Ho deciso di condividere con Voi questa storia per farVi riflettere sul come, già da un decennio ormai, negli U.S.A. la coscienza civile sia orientata a concedere meno enfasi alla mera prova scientifica in luogo di un tessuto investigativo più spesso e consistente. Per noi “itagliani macaroni” potrebbe essere tardi perché abbiamo deciso di sfamare il lupo dello sputtanamento mediatico, della suggestione, del pettegolezzo tv, e della giustizia fatta in casa affamando il lupo dell’integrità morale, della correttezza processuale e della discrezione. Certo chi muove i fili ha ben altri piani che festeggiare, con la pasta fatta a mano la domenica, la condanna del secolo. Chi muove i fili non ha compreso che nei paesi anni luce più avanti di noi la credibilità della prova forense è scemata e vuole a tutti i costi la banca dati che ben vale il sacrificio di un unico cittadino, almeno per ora. Magari altro sangue dovrà essere versato e altri innocenti dovranno subire un’ingiusta condanna ma la strada è spianata, ormai è tutta in discesa. Chissà che un giorno non decidano di intitolare l’agognata Banca Dati proprio a Massimo Giuseppe Bossetti.
Buon pro Vi faccia!

 

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DIREI QUALCOSA…

di Laura Clemente

Lo dico fiera, ma comunque sempre con gli occhi bassi nei confronti del sig. MASSIMO, l’unico a pagare per uno scempio di cui siamo colpevoli tutti, non c’è niente nelle motivazioni che ci dovrebbe sconvolgere più di tanto.

Non ve lo chiedo attenzione! Ve lo dico.

Quello che io invece mi chiedo è cosa vi aspettavate tutti Voi. Riflettete, provate a tornare agli albori di questa vicenda quando già non vi sembrava vero e vi faceva sorridere “la pista dell’autista di Gorno riesumato per accertare lo sputo sulla patente!”, con tutto il rispetto per la buonanima, anche lui infangato dopo morto.

Se non vi bastasse a digerire le motivazioni allora pensate alle centinaia di prelievi a tappeto supportati da una traccia che faceva schifo già prima di subire tutte le analisi o al giorno dell’arresto che manco nei film di Bruce Willis ci sono quegli spiegamenti, e poi focalizzate la faccia di quell’uomo che non capiva come era finito su un set cinematografico!

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E che set! Questo palcoscenico poi si è arricchito di quei simpatici personaggi di contorno che hanno recitato, male anche, i loro ruoli per arrivare a quelle quattro misere pagine che avete letto. Di più non avevano da offrirci eh! E lo sapevamo, anche questo, e cioè che su quel mezzo DNA “mitico”, nel senso stretto del termine, si basava tutto l’impianto accusatorio. Tutto sta a sapersi accontentare, in un paese dove non vige la regola del “fino a prova contraria”, un magistrato potrà sempre sostenere che sia possibile datare un deposito di materiale genetico su di un corpo che, ahimè, non si riesce a capire nemmeno di cosa sia morto, quando, come e da quanto tempo si trovi esposto alle intemperie. Perché questo non ce lo hanno spiegato, è forse questo che vi aspettavate dalle motivazioni? Che vi dessero una risposta a queste domande? Se così fosse comprenderei il coro di voci deluse che si è alzato. No, perché io sono una tipa curiosa e mi chiedo tante cose, alle quali forse non riceverò mai risposte, tipo come si fa a far combaciare la personalità del sig. Bossetti, timido marito innamorato di sua moglie e padre di tre bimbi, di cui due femmine, con quella di un molestatore che come caratteristica peculiare ha la dipendenza da questo genere di azioni. Se si fosse trattato di quel “genere di uomo”, come si vuole sostenere, in un centro così piccolo si sarebbe sentito molto prima parlare di lui, non si diventa assassino di tredicenni da un giorno all’altro a meno che non ci sia nessun “orco”, come ho sempre sospettato, e si tratti di un banale incidente finito in tragedia, sfruttato per fini poco chiari solo in un secondo momento. Perché, non so voi, ma io ho sempre notato una forzatura in tutti gli anni in cui nelle stanze segrete si consigliavano, ho notato una giovane Pm molto motivata e cauta in principio che poi ha virato bruscamente anche lei rotta, e per questo non ha scuse, ho notato proprio come è stata costruita piano piano e con lodevole meticolosità questa favola che ormai avrà fatto il giro del mondo, (e se ne parlerà prima o poi e tutto verrà a galla perché una stronzata così atomica solo noi italiani potevamo farla), ho notato che davvero pochi hanno chiaro il concetto che domani potrebbe essere il loro turno se non si ferma in tempo questo virus della lettura del codice genetico come “profezia”.

Dopotutto che motivazioni ci si poteva aspettare quando un intero processo è stato celebrato con ancor meno del sogno di un fioraio? È come si è solo potuti arrivarci al processo! Questa è un’altra vera domanda da porsi. Certo le pressioni erano tante e nessun giudice si è voluto imbrattare di letame, hanno tutti demandato, e come dargli torto? Le tv e i giornali esplodono di servizi strampalati e assurdi, ovviamente pilotati, e chi sono io giudice di turno per mettermi contro chi manipola l’opinione pubblica? Non è più epoca di prodi cavalieri, ognuno pensa a sé in quest’era così buia. E quei pochi immuni dal virus che dicono di credergli? Quelli che dovrebbero aiutarlo per intenderci. Quelli staranno come me (che però sono in ferie, non sto a fare un tubo e non potrei pur volendo essere impegnata più di così nel far sentire ancora la voce del loro assistito da questo gruppo), su facebook a mettere l’acqua ai piccioni. Mai visto uno scempio simile. Voglio svegliarmi in una puntata di Law and Order, se proprio devo bermi tutto quello che dice la tv, almeno potrò illudermi di trovarmi in un posto dove davvero le giurie si confrontano anche per giorni per raggiungere l’unanimità, dove non devono esistere i dubbi, dove se non si riesce a montare un caso con delle fondamenta o non si celebra un processo serio, non mediatico, il sospettato resta libero e non viene ammutolito per sempre, o fatto parlare solo per bocca di chi è diventato la sua voce.

Signor Bossetti, potessi davvero dirle qualcosa e spero le arrivi, le direi “prenda in mano la sua vicenda processuale ora che ha ancora la possibilità di dimostrare qualcosa in Appello, trovi un difensore “cazzuto” che fa tremare i muri dove passa, che non da confidenza né agli amici e né ai nemici, che si mette lì, senza social né codazzi, e si studia l’intera storia a partire dal 26 novembre 2010 e ne tira le somme con tanto di indagini difensive con il botto, se non vuole leggere le stesse motivazioni 2.0 al termine dell’ennesimo grado di giudizio.”

L’uso delle minuscole anche dove erano d’obbligo le maiuscole è stato voluto.

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…E ANCHE ALTRO

(I social)

Sapevo che avrei dovuto lasciare in sospensione il primo pezzo “DIREI QUALCOSA” perché mi conosco e so che non voglio farlo nei commenti perché odio il gruppo quando prende le fattezze di altri luoghi in cui si ciarla e non dobbiamo essere proprio noi, amici miei di Giustizia e Verità, a farlo. Ciancio alle bade (lic.) queste motivazioni continuano a offrirmi spunti. Partiamo dal principio, mi spiego perché a volte risulto contorta, esistono i “personaggi”, “le persone”, “quelli che stanno intorno ai personaggi” e “i personaggi loro malgrado” a meno che questi ultimi non se lo facciano piacere troppo e decidano di trasformarsi in “personaggi”. A volte, i “personaggi” scelgono una “persona” da sacrificare per il loro tornaconto e poi danno in pasto alla folla accecata alcuni “personaggi loro malgrado” per sedarla.

I “personaggi” non perdono mai, loro sono il banco, “le persone” ci smenano sempre, quello è il loro forte e “i personaggi loro malgrado” si prendono la responsabilità dell’esposizione mediatica. Attenzione però, abbiamo detto che “i personaggi loro malgrado” spesso scelgono di esporsi per diventare “personaggi” senza badare alle proprie responsabilità, ma a volte non lo fanno e si ritrovano in una situazione davvero grottesca. In qualità di cittadini che godono di diritti, Il nostro Stato di Diritto ci impone il dovere di rispondere alla chiamata per ricoprire il ruolo di giudice popolare, ma non ci non tutela nella nostra privacy, nell’ambito di un processo che ne ha vantata tanta, rendendo pubbliche le motivazioni di una sentenza tanto sentita, che di certo qualsiasi fosse stata avrebbe creato dissensi, completa dei nomi di tutti i giudici popolari senza minimamente farsi sfiorare dal pensiero che le loro vite sarebbero diventate impossibili. Quante vittime deve mietere ancora questo folle caso, dopo quella povera bimba, prima di fermarsi?

Ora, io non mi trovo d’accordo con la decisione presa da queste “persone”, che si presume sia unanime e svuotata di ogni ragionevole dubbio, ma non posso evitare di pensare che si sia data in pasto alla folla la loro identità per creare altro caos, distogliendo nuovamente l’attenzione dal vero problema, la pochezza di questa indagine. Non si fa del bene all’immagine di Bossetti sputtanando le foto del profilo di uno dei giurati, l’ennesima “persona” triturata dai giornaletti, perché così si fa il gioco della Procura, si aiuta a far cadere nel dimenticatoio di chiacchiere, che schifa anche “Giallo”, le vere grandi domande sulla morte di Yara e la condanna di Massimo Giuseppe Bossetti, le prime due “persone”, di una lunga lista di “persone” che non vogliono essere “personaggi”, a rimetterci in questa pessima storia di “persone” e “personaggi”.

 

N.B. la prima immagine a partire dall’alto è tratta dalla pagina https://farefilm.it/tecniche-e-tecnologie/scaricare-film-senza-diritti-dautore-ecco-come-si-pu-fare-molti-siti-5940  mentre la seconda è presa dalla pagina http://psichedintorni.it/facebook-e-social-network-connessi-o-disconnessi/

LETTERA APERTA A CHI CONOSCE LA VERITÀ SULLA MORTE DI YARA GAMBIRASIO

 

di Laura e Sashinka

Era tanto che accarezzavamo l’idea di scrivere una lettera aperta usando il blog e il gruppo come tramite, tuttavia abbiamo deciso di attendere la pronuncia della sentenza nella vana speranza che il numero delle vittime di uno sconsiderato comportamento si fermasse ad una. Non che per importanza la piccola ginnasta sia da meno, lei purtroppo ha perso la vita oltre alla libertà di viverla come invece è successo al signor Bossetti.

Noi non abbiamo idea di chi si celi dietro le quinte di questo torbido delitto, ma abbiamo sempre scartato, sin da subito, la possibilità “del singolo responsabile” perché – a nostro parere – per far sparire una ragazza, occultarne il corpo senza vita, cercare di confondere le acque– depistare direbbe qualcuno -, e farla ritrovare in un campo, una persona sola non è sufficiente. Nel mondo delle nostre idee siete un numero non ben definito di giovani, e lo eravate molto di più allora, siete stati aiutati da degli adulti e avete avuto l’appoggio di un silenzio diffuso.

Premesso ciò ci assumeremo la responsabilità di rivolgerVi il nostro accorato appello parlando al plurale.

Essendo i nostri un blog e un gruppo accessibili a tutti, magari Vi sarà capitato di accederVi mossi da mera curiosità o per comprendere quanto fosse cospicuo il numero di persone che non si sono lasciate abbindolare dal “Mangiafuoco” mediatico, il quale, per una serie di circostanze a Voi propizie, ha tessuto una trama ben lontana dalla realtà che Vi vedeva responsabili.

Ebbene siamo in netta minoranza, lo dice una sentenza, il caso è chiuso, l’udienza è tolta, il Vostro segreto è al sicuro tra le quattro mura di una casa di Brembate, ma non è poi tanto segreto se qualcuno, usando solo un filo di logica, è arrivato a comprendere la verità. Sarà che siamo delle disincantate, ma non abbiamo mai creduto nell’uomo nero che si muove misterioso col favore delle tenebre, che esce dal nulla e ti porta via senza motivo e, per di più, senza conoscerti. La vita ci ha insegnato che chi ti prende ha, la maggior parte delle volte, un viso familiare, un’apparenza innocua, ti abita accanto, è un figlio o un genitore proprio come te, cena con i suoi e ha persino un bell’aspetto. Questa è una triste storia di genitori e figli, da ogni lato la si guardi. C’è chi un figlio l’ha perso per sempre in una fredda notte di novembre, chi i figli li ha persi perché un giudice glieli ha tolti e c’è chi pur non avendoli persi di fatto, con la morte di Yara, ha dovuto dire addio alla loro ingenuità e alla loro anima, perdendo così anche un po’ della propria.

Bisogna essere genitori per riuscire a comprendere l’istinto animale che ci spinge ad operare determinate scelte in luogo di altre, non ce la sentiamo di biasimare i Vostri genitori non essendolo noi per prime, non sappiamo che avremmo fatto ritrovandoci al loro posto. Ci preme specificare questo perché Vi parliamo in maniera molto franca, ma sappiamo per certo che al loro posto, a quest’ora, saremmo morte senza esserlo, avremmo perso la nostra anima comunque, che Voi aveste confessato o meno. Certo, c’è da dire, che in quanto a esempio non è stata un’idea geniale, perché quando si fanno i figli sarebbe meglio essere lungimiranti e pensare che un giorno anche loro potrebbero diventare genitori, e diventarlo con una macchia e una paura così forti non è il migliore auspicio.

Abbiamo immaginato che Vi abbiano rassicurati fin dal primo momento successivo a quello che speriamo sia stato un banale incidente, supponiamo che Vi abbiano ripetuto, fino allo stremo, che non sareste finiti in prigione, che le Vostre brillanti vite sarebbero proseguite come se quella notte non fosse mai arrivata, che piuttosto si sarebbero accollati le Vostre colpe pur di salvaguardare il Vostro futuro, che non avevate nulla da temere, che avrebbero pensato a tutto ed è lì che si sono spalancate per loro, fino ad un’ora prima comuni genitori come tanti, le porte dell’Inferno, perché, Voi lo sapete e ci pensate ogni sera prima di addormentarVi, hanno dapprima nascosto il corpo e poi, dovendo decidere in fretta e terrorizzati dal perderVi, si sono macchiati di una serie di infami colpe che hanno ripulito le Vostre mani dal sangue di una bambina sporcando senza speranza di assoluzione le loro.

Non Vi chiediamo come Vi sentite ad aver distrutto quattro o cinque famiglie, non Vi chiediamo come fate a prendere sonno e a continuare le Vostre esistenze tra probabili viaggi, vacanze e studi, non Vi chiediamo come sono stati gli ultimi sei anni quando, tutti assieme, Vi sedevate a tavola a cenare, non ve lo chiediamo perché qualsiasi risposta non cambierebbe la realtà delle cose oggi, a quattro giorni dalla sentenza che vede condannato il signor Bossetti come unico colpevole dell’omicidio Gambirasio.
Qualcuno, da un pulpito, aveva levato in alto l’epico quesito: “Preferite essere i genitori di Yara o di chi ha ucciso Yara?” salvo poi rintanarsi in un religioso silenzio appena resosi conto che la domanda non era stata gradita.

A fare la differenza sarebbe stato il porsi queste domande molti anni fa, prima che gli eventi travolgessero un’intera nazione e un innocente venisse accusato per le Vostre colpe, ormai poco cambia sapere come siano andate realmente le cose, ha vinto un mezzo “DNA schiacciante”, frutto di menzogne e abbagli che passerà alla storia con tutte le sue mancanze, quando di schiacciante, in questa storia, c’è solo il grosso peso che portate sul petto e con il quale, Vostro malgrado, dovrete convivere tutti perché quello nemmeno una Giustizia ottusa e malata può cancellarlo e Vi ritroverete a dover indossare una maschera per il resto della vostra vita.

 

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